PENA CAPITALE di claudio
giusti
Sulla recensione
al libro di Marchesi in:
http://controlapenadimorte.splinder.com/
1) Il primo scopo
dei radicali è sempre quello di parare il culo ai loro
amici americani.
2) Il nostro
Martinelli non è competente in materia di pena di morte
e non si è accorto delle castronerie del Marchesi. Anzi!
Ci mette del suo confondendo la Convenzione di Vienna
sulle relazioni consolari con una inesistente Convenzione
di Vienna sui diritti dei detenuti stranieri
3) Sembra anche
essere molto irritato dal fatto che la pena di morte
(tanto amata dagli amici americani) possa essere
considerata un forma di tortura: ma cosa cavolo è
avvelenare, gasare, strangolare e cuocere vivo un essere
umano?
4) Martinelli
considera inevitabili gli errori, le ingiustizie e
i pregiudizi che tormentano i processi negli Stati
Uniti (ci dobbiamo aspettare una simile benevolenza
anche con lItalia?) ma poi pretende che Marchesi
faccia quello che i radicali non sono assolutamente in
grado di fare: analizzare anche le sentenze
capitali dei tribunali iraniani, vietnamiti o
cinesi.
5) Però in un
punto ha ragione: il libro di Marchesi non aggiunge nulla
di nuovo.
Claudio Giusti
La pena di morte:
una questione di principio
di Luca Martinelli Nuova agenzia radicale
16/09/2004
La
discussione sulla pena di morte si arricchisce
dellennesimo saggio sul tema, a cura questa volta
di Antonio Marchesi, ricercatore di Diritto
Internazionale e in passato presidente di Amnesty
International Italia.
Marchesi incentra il discorso esclusivamente su Europa e
Stati Uniti, le due ali estreme del conflitto
fra Stati abolizionisti e Stati mantenitori, iniziando da
una panoramica storica dei vari accordi internazionali in
materia che parte dalla Dichiarazione Universale dei
Diritti dellUomo. O meglio, dal suo
silenzio al riguardo. Un silenzio che,
analizzato con il senno di poi, è risultato essere la
mossa vincente di Eleanor Roosevelt e della minoranza
degli Stati abolizionisti allora presenti alle Nazioni
Unite.
Da questa non presenza di una clausola abolizionista,
scaturiscono una serie di accordi a livello europeo che
portano, nel giro di circa tre decenni, alla creazione di
un continente death penalty-free e fortemente impegnato
dagli anni 90 nel mantenere vivo il dibattito
sullabolizione. Speculare invece il percorso
seguito dagli Stati Uniti, aperti al dialogo
allepoca della Dichiarazione Universale e adesso
quasi infastiditi dal porre la questione sul piano
internazionale.
Il saggio poi continua analizzando il lungo e sottile
lavoro di containment della pena di morte, soffermandosi
sulla continua limitazione imposta internazionalmente sia
dei soggetti a cui può essere applicata sia dei reati
che possono prevederla, passando poi, con pervicacia
quasi avvocatizia, allanalisi della possibilità di
considerare la pena di morte come tortura.
Marchesi conclude analizzando gli attuali rapporti
internazionali fra gli Stati aderenti allUE (tutti
abolizionisti) e gli Stati mantenitori, alla luce della
guerra al terrorismo oggi in atto. Lultimo sguardo
è dedicato ad alcune cause intentate da Paraguay,
Germania e Messico nei confronti degli Stati Uniti,
accusati (e nei primi due casi, riconosciuti colpevoli)
di aver giustiziato tre cittadini degli Stati sopra
citati in violazione della Convenzione di Vienna sui
diritti dei detenuti stranieri.
La pena di morte Una questione di principio è in
sostanza un buon lavoro di ricerca storica e di analisi,
ma sfortunatamente non apporta nulla di nuovo al
dibattito. Le argomentazioni usate da Marchesi suonano
infatti come già risapute alle orecchie di un
abolizionista, forse perché si è già detto tutto al
riguardo.
E inoltre discutibile la scelta di concentrarsi
esclusivamente sul percorso seguito dallOccidente,
soprattutto quando lo stesso Marchesi scrive chiaramente
di non volersi occupare degli Stati asiatici ed islamici.
Quasi come se accettasse la motivazione addotta dal
Governo di Singapore, secondo cui la pena di morte è un
elemento della cultura, o della identità, del
mondo arabo e asiatico. Sarebbe stato infatti molto
interessante vedere fino a dove la pena di morte può
essere effettivamente considerata come elemento
identitario della civiltà araba o asiatica e dove
invece inizia ad essere uno strumento di repressione.
Così come Marchesi ha analizzato e denunciato gli
errori, le ingiustizie e i pregiudizi che inevitabilmente
tormentano i processi negli Stati Uniti, sarebbe stato
interessante analizzare anche le sentenze capitali dei
tribunali iraniani, vietnamiti o cinesi. Sarebbe,
appunto.
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