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DA LUIGI TENCO Leternità è un bel modo di scomparire di mano in mano, attraverso il potere altrui, di interpretazione in interpretazione Ma certe parole si negano in principio, forse atterrite dal devastante imperio della tradizione che mercificando istituisce i propri musei su, vene nate per lasciar scorrere la vita. Certe parole non vogliono essere interpretate, trasformate, non vogliono risposta. Ed a volte alcune di queste parole vengono dette, cantate, mostrate, per un volo breve che chiede cadere, brevi ali per un passo e mai più. E queste parole chiedono sempre qualcosa, sempre un atto disumano (umano) di incondizionata fiducia, per credere a loro, nonostante facciano di tutto, in se stesse, per negarsi, "credimi nonostante quel che sono". Non devi credere allora alle apparenze reali dei meriti e del risultato dei dadi (tàppati gli occhi più della sorte) caduti giù a caso, ma con tutta lattenzione che puoi, pensare che dietro quel che è venuto fuori, da prua lavvistamento era infinito. E quando la vita è tanta, è difficile muoversi, con la sua forza addosso, ed il potere di Giove è mostruoso, non per la forza che simmagina possedesse, ma per come mai, nonostante tutta la sua forza spossante, sia riuscito a muoversi. Anche per un solo gesto. La vita è altro da quel che vedi. Non puoi che credervi. Altro da qualsiasi cosa tu possa tenere in mano. Altro di queste parole. Ed ancora, allora: come rispondere a queste parole? Credendovi. Nonostante tutto. E rispondiamo ???????????? Luigi Tenco scrisse nel 1965 una delle sue più celebri canzoni. Due anni dopo si uccise, Ma questi sono i fatti (i più visibili), e non siamo interessati ai fatti. Luigi Tenco scrisse Ragazzo mio (Ragazzo mio, in Jolly, BMG Ricordi S.p.A., 1965), ed una delle più belle canzoni che siano mai state scritte, Ma non siamo interessati ai giudizi. Luigi Tenco rivolse queste parole ad un ragazzo, forse suo figlio (immaginario o reale che fosse), forse a se stesso nelle vesti di padre, Ma sono soltanto fini distinzioni. Forse Luigi Tenco non pensava che qualcuno rispondesse, ma cantando lo chiedeva tanto da rispondersi. E forse Luigi Tenco non voleva alcuna risposta. Queste parole pregano una memoria sotterranea, mentre scompaiono. Tuttora nascita. Ma - mi attengo alle sue parole - chiedeva di non credere. Forse perché altrove qualcosa potesse nascere, forse perché, quanto più lo chiede, più crediamo. A qualcosaltro. Ed è tenendo ben in mente laltro, che, per questo, rispondo. Nel caso qualcuno si senta, lo desideri, questo "ragazzo mio", risponda a Luigi Tenco inviando la sua lettera a lettereparole@tiscali.it Di seguito al testo dellautore troverete la risposta del "ragazzo", da me impersonato. Ad un ragazzo, 1965. «Ragazzo mio, un giorno ti diranno che tuo padre aveva per la testa grandi idee, ma in fondo, poi non ha concluso niente non devi credere, no, vogliono far di te un uomo piccolo, una barca senza vela Ma tu non credere,no, che appena salza il mare gli uomini senza idee, per primi vanno a fondo Ragazzo mio un giorno i tuoi amici ti diranno che basterà trovare un grande amore e poi voltar le spalle a tutto il mondo no, no, non credere,no, non metterti a sognare lontane isole che non esistono non devi credere,ma se vuoi amare lamore tu, non gli chiedere quello che non può dare Ragazzo mio, un giorno sentirai dir dalla gente che al mondo stanno bene solo quelli che passano la vita a non far niente no,no,non credere no, non essere anche tu un acchiappanuvole che sogna di arrivare non devi credere, no, no, no non invidiare chi vive lottando invano col mondo di domani.» (Luigi Tenco) |
A Luigi Tenco, 11
agosto 2002. «Tutto quel che ho di te, è quel che dice la gente. Ero piccolo che raccoglievo parole su di te quando capitava, dalla mamma, poi dai giornali, dal vento che mormora le fronde a tua insaputa. E mi voltavo di scatto, la notte, per vederti, e non ceri, quando pensavo alle tue mani, e le mie un giorno sarebbero state identiche. Ho creduto tu abitassi castelli di sabbia nellisola montuosa che in certi giorni limpidi dopo il temporale appare oltre il mare, è cento passi cento soli oltre la costa. Crescendo poi ti ho immaginato parigino, volare nascostamente rasoterra per i passages specchianti, col sigaro lieve fra le labbra. Mi sei stato abbandonato, sotto i portici a Bologna, con una vita intasata dietro ad un qualche odore di muffa e di carte, fra i nomi dei sogni. Mi sei sfuggito più e più volte. A volte, sì, mi bastava una parola detta male della mamma, per farti cadere nellanonimato delle mie sensazioni, attento fra le cinghie del mio pensare che sbrana. Perché mi capita anche che non ho pace, del tutto evanescente senza saper nascere o morire, accostato al centro senza cuore dun timore assoluto. Ed un passo qualsiasi mi richiederebbe il più piccolo desiderio, o partecipazione alla distruzione del mondo, cui non so arrivare, non so rischiare. E potessi muovermi in dentro lo farei, togliendomi, ma evito persino di sentirmi, ed un gesto vale, accuratamente, laltro. Fatica identica. Ti farei piangere per la mia meschinità. E tu chi eri? ma soprattutto doveri, quando io senza trovare cercavo in dentro, perché fuori mi demolivo. Ed un proposito o un passo, non mavrebbe tolto nulla che non avevo. Dato nulla che volessi. Non mhai lasciato che poche tracce, e sfumano in certi giorni che, giorno per giorno, unintera quantità di giorni, fa paura morire, tutti insieme, senza sosta, si allontanano ballando ed io riverisco io arretro. Savvicinano scusando, scansano e ruotano, perfettamente simili infinitamente, ed io simile a me stesso, terrea assenza e luminare dellesistenza bella altrui. E non so che fare. Dovrei astenermi e che altri il mondo sorrida. Tu, doveri babbo? Negli occhi di una donna qualsiasi, ho guardato dentro, per vedere se apparisse il fuoco, ho fatto a pezzi lamore intascandolo come un fiore allocchiello, dun morto, ho soffiato dalle mie labbra petali viola e filigrana di terra rossa, curiosando fra le mie ultime cispe. Affogando. Per una donna qualsiasi, un desiderio preso dal salvadanaio delle occasioni, estratto a caso la monetina e vibrata volare ho rinnegato, mentre cadeva a terra, mi sono strappato i denti dal terrore, mentre parlava le sue note storie, le mie vite aperte, ho temuto, ho fatto silenzio, per ogni schiaffo che il suo voltolare nellaria vibrava, fino a barattare la mia vita nuova battuta sola, per un conto forfettario che mi portasse a casa a casaccio e via da tutto. Ho sbranato lamore, dici bene babbo e in tasca ho torsoli di mela senza morti e senza gioia. Son già caduto, ad accattonare lamore per non volere più nulla in cambio, poter finalmente sbriciolare tutto senza che qualcuno voglia ancora pensarmi vivo, faccio un lento fuoco che si può chiamare malinconia, ho un tesoro che non posso perdere ma lo piango. Non ce la faccio a sostenermi in piedi negli occhi ombre di chi mi pensa vivo e mi parla e saprebbe pure amarmi, condannandomi ai suoi baci che non sono gli ultimi, oramai sono pronto allultimo bacio dopo il quale non cè più nulla. E il rimanente vorrebbe dire accontentarmi e condannarmi ad una vita qualunque che è la vita. Babbo, vedi, son già caduto. Babbo, dimmi tu allora a cosa credere. Senza avanzi, sola una macerie. Può essere che sia più vicino di quanto tu abbia mai creduto il giorno che che non ci sarà più nulla da sperare. Il giorno che sei morto invano, neppure perché io adesso ricordi i tuoi occhi, per i quali ho pensato che la vita fosse la stessa che hai veduto tu pure la mia vita, e nei tuoi occhi mi sono sentito questa sera un poco meno solo. Ed in fondo è lo stesso vecchio problema, la mia vita e la tua che tha tenuto poeta in alto sul ramo, come sulla vecchia foto, amando con occhi lunghi il pelo ed il gioco del tuo cane sullerba. Anchio lo invidio dal ramo fragile, e avrei passato la vita scimmiottando il gioco se la tua stessa maglia nera non tavesse paracadutato in più tristi pensieri. Io, la notte, sotto le coperte, sapevo che saresti tornato, almeno a visitare e basta, la grande capanna che costruivo col mio amico, ricolmandola di prugne rubate allalbero della Pia. E ogni estate, e ogni giorno, rimontavo la ruota o la catena alla bicicletta e prendevo le uova dal culo della gallina, e da qualche parte certo ti avrei incontrato. La mia capanna ti sarebbe piaciuta, di legno solido e canne appena colte, colla trasparenza nelle pareti e lodore vitigno dappertutto. Ma le balle di fieno, o il segreto coltello, credo che saresti tornato. Solo un attimo a vedere. Perché le navi non cessano mai di scomparire, tu mi eri vicino. Sapevo dei tuoi arruffati ricci, coi miei capelli che pendevano di sale lestate, e ho pensato tu fossi oltre il continente in quel pianeta, lAfrica dove è doro la paura della notte, e luomo resiste alla sete e prosciuga i propri occhi in un rigido azzurro. Occhi diversi, ho amato il tuo grigio madreperlato azzurro. Leggevo le parole che dicevano di te, sempre sbagliando, sempre indicando, me, dove? male, tanto spesso male. Ce lho a male di me quando non ti so credere e cerco conclusioni qualunque, per non sperare. Ho ancora addosso le tue parole, e so pensare solo ad un padre che trema, damore, col figlio per la mano, e tace, mentre prega Dio, prega lui, di non credere mai, mai, allevidenza del suo gesto, ed a nessunaltra verità. A tutto quel che viene e non viene, a tutto quel che è riuscito a dire, perché avrebbe voluto pure altra vita, altri pensieri intendeva tuttaltro, come la vita è altro. Prega Dio perché lo cancelli, e inizi altrove, un discorso fedele. Quel padre tiene per mano un bambino che non ha più di tre anni e che forse non rivedrà, e non si farà mai vedere ancora, e sono io, lui ancora, e non smetto di esserlo, ogni volta che capisco qualcosa, e lo faccio per gioco, chiuso in un cantuccio dun albero o scatenato per la via a far una gran baraonda.
(elisa santucci) |