Rubrica

Lettere Parole

 

 

Un’amica bolognese (sempre diffidare delle amiche bolognesi… nella nebbia coltivano mondi ricchi) mi consigliò di leggere di Natalia Ginzburg Caro Michele, e siccome nutro fiducia nel suo giudizio, mi proposi di cercarlo in una qualche biblioteca. Ma in vacanza in una località montana, a Fiumalbo, trovai il libro, prima edizione, 1973, Arnoldo Mondadori Editore, ad un prezzo da liquidazione, su un banchetto. Lo comprai. E per 2.50 Euro mi sono portata a casa un pezzo di storia italiana che è superata, ed è il momento, gli anni settanta, in cui sono nata. Non mi è mai capitato più che su queste pagine che quelle voci che si scrivono lettere, più di se stesse parlino della loro epoca. Fra una parola e l’altra vedo stanze, ho presente i pavimenti, i vestiti, gli accessori della cucina, la tonalità video della televisione. Le recensioni di questo volume importante di Ginzburg mettono giustamente in risalto la solitudine che erge muri fra persona e persona, quel che Ginzburg probabilmente intendeva riferire. Ma forse non sottolineano l’altro dato – forse oggi storico-sociale – di importanza cruciale, che si esprime lungo le poche pagine che costituiscono questo libro. Ovvero la “pronunciatezza”, l’efficienza, lo sbando ma l’azione, di generazioni sperimentali. Una certa necessità di decisioni prese nel carattere, mancate, accadute senza rimpianti; dalla violenza, dalla irrecuperabile prospettiva non più di eccessivi pesi culturali e lente lunghe tradizioni, ma dalla manciata di anni che se arrivano a cinque dieci sono già tanti. E l’interiorità sfugge nella determinazione che sa d’ineluttabile ad affondare gesti, oscenità; s’allenta nel nuovo regime di spirito, di abitudini, di rivoluzione. Sono anni che hanno imbracciato le vite per agirsi, scansando il motivo, il dilemma dell’anima, perché questa realtà nuova si programma adesso. Così nessuno dice più di tanto, non ha da dire più di tanto, ma intanto a repentaglio cerca i percorsi della propria vita, senza soccorso. Strano paradosso questo tempo attuale – invece – dove l’interiorità ha tutto, dove “agire” forse chiama in causa gli dei, la passata mitologia che vuole eroi e dei e star del cinema, mentre più che altro tiriamo indietro i remi, pensando e proteggendo, nascondendo la nostra indubitabile ricchezza di anime private inconfessabili ed incomunicabili, scrigni. L’azione ha perso la dimensione umana, dentro un meccanismo in cui non siamo piccoli, ma addirittura irreperibili. Quindi da un lato trova il volto in smisurate fantasie giganteggianti alla Titanic (il film), o muscoli più grossi dei volti, dall’altro ha lo spazio dell’insicurezza nell’uomo che sa di non poter più compiere realmente un gesto. Quindi fa un certo freddo veder come nascano e muoiano individui nell’indifferenza di questo libro, sono gli anni settanta, la fine dei sessanta. Mentre noi pensiamo che a ciò, il mondo intero dovrebbe inchinarsi, o piangere, ed inviare il suo generale telegramma, o il fiocco, perché è nato un uomo, sono nato! Non su queste pagine, dove esistono uomini che evidentemente (non erano vite tanto importanti, no) non avevano tanto da dire, ma qualcosa indiscutibilmente devono aver fatto, più di noi. Beh, hanno fatto qualcosa, cosa che oggi non capita.

 

La lettera estrapolata quasi apre Caro Michele, a pagina 7 della prima edizione. Una madre, Adriana, scrive al proprio figlio. Risponde un figlio, Michele, che non credo abbia niente in comune col Michele reale. Un Michele nato nel ’77, i dati sono significativi, che ha la sua prigione e racconta questa.

Vi invito a dar voce ad un nuovo Michele, a rispondere al ’68, agli anni ’70, a questa donna ed al suo modo di vedere e percepire. O dite quel che volete, ad Adriana, se credete ci sia qualcosa da dire. Lo spazio è vostro.

Chi volesse scrivere, ogni Michele, può inviare la propria lettera a lettereparole@tiscali.it

Potrà essere qui inserita.

 

«Caro Michele – Ti scrivo soprattutto per dirti che tuo padre sta male. Vai a trovarlo. Dice che non ti vede da molti giorni. Io ci sono andata ieri. Era il primo giovedì del mese. Lo aspettavo da Canova e lì mi ha telefonato il cameriere che lui stava male. Così sono salita su. Era a letto. Mi è sembrato molto sciupato. Ha le borse sotto gli occhi e un brutto colore. Ha dolori alla bocca dello stomaco. Non mangia più niente. Naturalmente continua a fumare.

          Quando vai a trovarlo, non portare lì le tue solite venticinque paia di calzini sporchi. Quel cameriere che si chiama Enrico o Federico non mi ricordo, non è in grado di sopportare il peso della tua biancheria sporca in questo momento. È stranito e intontito. Non dorme la notte perché tuo padre chiama. In più, è la prima volta che fa il cameriere perché prima lavorava in un elettrauto. In più, e un completo cretino.

          Se hai molta biancheria sporca, portala da me. Ho una donna di servizio che si chiama Cloti. È venuta cinque giorni fa. Non è simpatica. Siccome il muso ce l’ha sempre, e la situazione con lei è già particolare, se tu arrivi qui con una valigia di roba da lavare e stirare non me ne importa molto e puoi farlo. Ti ricordo però che esistono buone lavanderie anche lì vicino allo scantinato dove tu vivi. E tu sei in età di occuparti di te stesso da solo. Fra poco tu avrai ventidue anni. A proposito, oggi è il mio compleanno. Le gemelle mi hanno regalato delle pantofole. Però io sono troppo affezionata alle mie vecchie pantofole. Volevo ancora dirti che se ti lavassi da te ogni sera fazzoletto e calze, invece di ammucchiarli sporchi sotto il tuo letto per settimane, sarebbe bello ma questo non mi è mai riuscito di fartelo capire.

          Io ho aspettato il medico. È un certo Povo o Covo, non ho ben capito. Abita al piano di sopra. Cosa pensa della malattia di tuo padre non l’ho capito. Dice che ha l’ulcera e questo lo sapevamo. Dice che bisognerebbe portarlo in clinica, ma tuo padre non vuole saperne.

          Forse pensi che io dovrei trasferirmi in casa di tuo padre e assisterlo. Anch’io lo penso in qualche momento, ma credo che non lo farò. Ho paura delle malattie. Ho paura delle malattie degli altri, delle mie no, ma io però non ho mai avuto grandi malattie. Quando mio padre aveva la diverticolite, ho fatto un viaggio in Olanda. Ma lo sapevo benissimo che non era diverticolite. Era cancro. Così quando è morto non c’ero. Ne ho rimorso. Ma è vero che a un certo punto delle nostra vita i rimorsi li inzuppiamo nel caffè la mattina come biscotti.

          Poi se io arrivassi lì domani con la mia valigia, non so tuo padre che reazione avrebbe. Da molti anni è diventato timido con me. Anch’io con lui sono diventata timida. Non c’è niente di peggio della timidezza fra due persone che si sono detestate. Non riescono a dirsi più niente. Sono grate una all’altra di non ferire e non graffiare, ma una simile specie di gratitudine non trova la strada delle parole. Dopo la nostra separazione, tuo padre e io abbiamo preso quella noiosa e civile abitudine di incontrarci a prendere il tè da Canova ogni primo giovedì del mese. Era un’abitudine che non assomigliava né a lui né a me. Ce l’aveva consigliato quel suo cugino Lillino, che fa l’avvocato a Mantova, e lui quel suo cugino lo ascolta sempre. Secondo suo cugino, noi due dovevamo mantenere dei rapporti corretti e incontrarci ogni tanto per discutere dei comuni interessi Però quelle ore che passavamo da Canova erano un tormento per tuo padre e per me. Siccome tuo padre è una persona metodica nel suo disordine, aveva stabilito che dovevamo restare a quel tavolino dalle cinque alle sette e mezzo. Ogni tanto sospirava e guardava l’orologio e questa era per me un’umiliazione. Se ne stava sdraiato all’indietro sulla sedia e si grattava la sua testaccia nera scompigliata. Mi sembrava una vecchia pantera stanca. Parlavamo di voi. Però a lui delle tue sorelle non gliene importa niente. La sua stella sei tu. Da quando tu esisti s’è cacciato in testa che sei l’unica cosa al mondo che sia degna di tenerezza e di venerazione. Parlavamo di te. Ma lui diceva subito che io di te non avevo mai capito niente e che lui solo ti conosce a fondo. Così il discorso era chiuso. Avevamo una tale paura di contraddirci che ogni argomento ci sembrava pericoloso e lo buttavamo via. Voi lo sapevate che noi ci incontriamo lì quei pomeriggi ma non sapevate che a consigliarcelo era stato quel suo maledetto cugino. Mi accorgo che ho usato l’imperfetto, ma in verità penso che tuo padre stia molto male e che non ci incontreremo mai più da Canova ogni primo giovedì del mese.

          Se tu non fossi così balordo, ti direi di lasciare il tuo scantinato e installarti di nuovo a via San Sebastianello. Potresti alzarti tu la notte invece del cameriere. Tu infondo non hai niente di preciso da fare. Viola ha la casa e Angelica ha il lavoro e la bambina. Le gemelle vanno a scuola e poi sono piccole. Tuo padre del resto le gemelle non le sopporta. Non sopporta nemmeno tanto Viola o Angelica. Quanto alle sue proprie sorelle, Cecilia è vecchia, e con Matilde si detestano. Matilde ora sta da me e ci rimarrà l’inverno. Tuo padre comunque l’unica persona al mondo che ama e sopporta sei tu. Però essendo tu come sei mi rendo conto che è meglio che tu resti nel tuo scantinato. Se tu fossi là da tuo padre cresceresti il disordine e getteresti nella disperazione il cameriere.

          Un’altra cosa che ti voglio dire è questa. Ho ricevuto una lettera di una persona che dice di chiamarsi Mara Castorelli e di avermi conosciuto l’anno scorso a una festa nel tuo scantinato. La festa me la ricordo, ma c’era tanta gente e non ricordo nessuno con precisione. La lettera mi è arrivata al vecchio indirizzo in via dei Villini. Questa persona mi chiede se l’aiuto a trovare un lavoro. Scrive da una pensione dove però non può restare perché paga troppo. Dice che ha avuto un bambino e vorrebbe venire da me per farmi vedere questo bel bambino. Io ancora non le ho risposto. Una volta i bambini mi piacevano, ma adesso non avrei nessuna voglia di meravigliarmi sopra un bambino. Sono troppo stanca. Vorrei sapere da te chi è questa qui e che specie di lavoro desidera, perché non lo spiega bene. Sul momento non ho dato peso a questa lettera, ma a un certo punto mi è venuto il dubbio che il bambino sia tuo. Perché non capisco come mai questa qui mi ha scritto. Ha una calligrafia bislacca. A tuo padre ho chiesto se conosceva una certa Martorelli tua amica, lui ha detto di no, poi si è messo a parlare del formaggio Pastorella che si portava dietro quando andava in barca a vela, ma con tuo padre non si può più fare un discorso sensato. Ma io poco a poco mi sono cacciata in testa che quel bambino è tuo. Ieri sera dopo cena ho tirato di nuovo fuori la mia macchina che è sempre una gran fatica tirarla fuori. Sono andata in paese a telefonarti ma a te non ti si trova mai. Mentre ritornavo mi è venuto da piangere. Un po’ pensavo a tuo padre che è così mal ridotto e un po’ pensavo a te. Se per caso è tuo il bambino di questa Martorello cosa farai tu che non sai fare niente. La scuole non hai voluto finirle. Quei quadri che fai con quelle case che crollano e quei gufi che volano non li trovo tanto belli. Tuo padre dice che sono belli e che io non capisco la pittura. A me sembra che assomigliano ai quadri che faceva tuo padre da giovane ma in peggio. Io non lo so. Ti prego fammi sapere cosa devo rispondere a questa Martorelli e se devo mandarle dei soldi. Non li chiede ma certo li vuole.

          Io sono sempre senza telefono. Sono andata non so quante volte  sollecitare ma non è venuto nessuno. Per piacere vai anche tu alla Società dei Telefoni. Non ti costa niente perché non è lontano da te. Magari quel tuo amico Osvaldo che ti ha dato lo scantinato conosce qualcuno ai Telefoni. Le gemelle dicono che quell’Osvaldo ha lì un cugino. Senti se è vero. È stato gentile a darti lo scantinato senza pagare, però quello scantinato è buio per dipingere. Magari è per quello che fai tutti quei gufi, perché stai lì a dipingere con la luce accesa e pensi che è notte fuori. Dev’essere anche umido e io per fortuna ti ho dato quella stufa tedesca.

          Non credo che verrai a farmi gli auguri per il mio compleanno perché non credo che te ne ricordi. Non verranno né Viola né Angelica perché ho parlato ieri al telefono con tutt’e due e non potevano. Sono contenta di questa casa, ma certo trovo scomodo essere così lontana da tutti. Pensavo che qui l’aria era buona per le gemelle. Le gemelle però scappano via tutto il giorno. Vanno a scuola con i loro motorini e mangiano in una pizzeria in centro. Fanno i compiti da un’amica e tornano che è buio. Finché non tornano sto in pensiero perché non mi piace che siano per strada quando già è buio. Da tre giorni è arrivata la tua zia Matilde. Vorrebbe andare a trovare tuo padre, ma lui ha detto che non ha voglia di vederla. Sono in freddo da molti anni. A Matilde ho scritto io di venire perché era giù di nervi e a corto di soldi. Ha fatto una speculazione sbagliata su certi fondi svizzeri. Le ho detto di dare qualche ripetizione alle gemelle. Le gemelle però scappano. Io dovrò sopportarla ma non so ancora come la sopporterò.

          Forse ho fatto un errore a comprare questa casa. In certi momenti penso che è stato un errore. Mi devono portare dei conigli. Quando me li porteranno, vorrei che tu venissi a farmi le gabbie. Per adesso, penso dimetterli nella legnaia. Le gemelle vorrebbero un cavallo.

          Ti dirò che la ragione essenziale è stata che non volevo incontrare sempre Filippo. Sta a due passi da via dei Villini e lo incontravo sempre. Sua moglie avrà un bambino in primavera. Dio mio come mai nascono sempre tutti questi bambini quando la gente è stufa e non li sopporta più. Se ne sono visti troppi.

          Adesso smetto di scriverti, do la lettera a Matilde che va a fare la spesa e me ne sto a guardare nevicare e a leggere i Pensieri di Pascal.

Tua madre.»

(Natalia Ginzburg)

«A mia madre (per avere spiegazioni).                                 9.11.00

Colpo. Il braccio mi fu trascinato via, e persi il tempo a corrergli dietro, prese ad ondeggiare e mi smarrii attorno. Mi corse la fronte, mi circondò la vita, mi trasse in coma, mi spalancò la fronte. Non tenni dietro coi denti randagi. Avrei voluto chinarmi, raccogliere le gocce, trovarle nei cristalli della roccia. Mi sbranò gli occhi.

Racconto da cieca, da chi ha perso gli occhi nel sapore, pattinano nel sapone. La lingua è rimasta lungo la strada, a raccogliere nino. Nino. mio figlio, mio padre, il mio assassino.

Il mio tesoro di bambino. giaciglio di bambino.

La donna mia, la madre, la madre delle madri e del mio bambino, m’ha strappato via da sé. M’ha gettato nella mia nebbia, m’ha mandato via perché mi volgessi alla volta del mondo, e attraversassi le Americhe, e le attraversassi fino a perderle per le loro interne dimensioni, fino a ricondurle al mare da cui erano sorte in un anno per un baleno.

Io ho remato, ho remato per anni e per la mia anima. Ora sono tornato, in punta di piedi ma di rabbia per l’inganno, perché m’ha tradito e io non ho visto il mondo, ho visto il buio, ho visto il sonno, ma le squame del cielo sono cadute solo di giorno, ma il mio vento batteva di notte.

E l’altra parte della luna, madre, dove batteva la sua luce?

Madre, m’ha spaccato la faccia. Madre, m’ha fatto piangere. La luce era violenta, e non c’era riparo, non c’era riparo al mondo. Madre, in Russia voltano e voltano la loro pelle come petali, e giocano alla pistola per vedere chi vinca della vita e della morte, e sempre fa eco il cuore, all’urlo del silenzio di quella pistola che non si pronuncia, e il silenzio rompe loro le tempie. Non si sa mai chi vinca della vita e della morte. Nella mia pelle l’amore non ha risposta. Madre, m’ha voltato e rivoltato; madre, il mio silenzio non sa più parlare.

Perché non mi hai detto nulla delle donne come te?

Avresti potuto dirmi che fanno piangere, avresti potuto dirmi che cercano le spalle larghe e la vita sottile. Madre, dentro di me non c’è più posto, mi sono percorsa e ripercorsa, fino alla noia, non ho più dove andare.

Perché mi hai strappato via la figura, perché mi hai slegato il volto? Perché mi hai messo addosso la cravatta? Non sai che è d’altri tempi, e che mio padre ti conquistò così quando il mondo era giovane di sogni, ma adesso i sogni galleggiano al molo dopo la tempesta, e parlare dei sogni rivela che si viene da profughi, da quella parte del mondo dei miseri e dei dispersi e di chi non è più. Perché vuoi che tenga in mano il tuo amuleto d’oro incrostato di tempesta e di cassettone, profumo di piano, di pino e scintillio, fumo e sbornia e sborra?

L’amore.

Puoi ancora parlare d’amore e di candelabri, ma mi addormento, per non udirti. Ho sonno, e non voglio più udire. Ho sonno e non voglio più parlare.

Mamma, è successo tutto ieri. Non è successo nulla, ma ho sentito che le lacrime non sarebbero più scese. Io ero giovane d’occhi, ero giovane di vita, ed ero con sincerità sulla mia Petra. La seguivo nei miei occhi che sfavillavano, e perché il sole era alto, perché ero giovane, ho pensato che le avrei donato il mio cuore, lo avrei portato ancora vivo, palpitante, perché i sapori degli animali un po’ selvaggi, un po’ boschivi e di mare si tengono in miglior modo quando il sale e il male gli conservano l’acqua e l’aria nei  polmoni vibranti. Mi sono conservato intero, vivo. Lo ammetto, non ho badato molto alla forma, ma avevo la cravatta, ed ho seguito i tuoi consigli. Ho aspettato di non poterne più, ma avevo ancora le mani agili, ho raccolto dei fiori, e le ho sorriso con tutta l’anima le ho corso intorno con tutta l’anima, la ho girata e rigirata con tutta l’anima.

Avevo tutto il bene che potevo sulle mani, sulle labbra. Venivo dal Brasile, venivo dalle Americhe, venivo dalle foreste, venivo dai deserti più lontani che potesse immaginare, avrei potuto sospirarle tutto l’inverno vento che avevo conservato in un soffio…, avrei potuto tenerla sulla superficie della pupilla fino a lasciarla morire, fino a lasciarla morire le avrei fatto l’amore, fino al calare dei sospiri, l’avrei tenuta sull’anima, sul punto più alto del mio pensiero, nel punto più alto del mio amore.

Mamma, sono più lesbica della lesbica che tu ti immagini vendemmiare l’uva del signore e spremerle i grappoli in tini marciti, mamma, non te l’ho detto mai, ma il mondo pensa questo di me.

Pensano che dovrei tessere la mia gonna, e almeno spargere i capelli al vento in un portafoglio di ricchezza benpensante. La donna m’ha guardato storto, m’ha guardato così in basso che non ho fatto in tempo a vedermi cadere. La notte, una notte di stelle fitte come non ho visto mai, strette l’un l’altra, appicicate che avrei voluto staccarle, avrei voluto strapparle col mio corpo.  Ti devo spiegare alcune cose.  Da quando tu hai lasciato il mondo, il mondo è molto cambiato, ho perso lettere, non sono dolce e non sono delicata, non so corteggiare e non so amare. Da quando giocavo e ti aggiustavo i tubi, e quando verniciavo la parete di casa e rifacevo i mobili, quando col mio metro di legno e poi quello stupefacente che si autoavvolgeva da cento lire alla bancarella del mare, misuravo e ripensavo le parole e le creavo e come architetto e come ingegnere e come inventore, e come un bambino pensavo che il mondo fosse tondo, da allora, il mondo è un altro.

Mamma, mi ha detto no.

Perdona, ma ha detto no.

Non so più insistere, non so da dove prendere, non so dove tornare, non so che parole dirle, non so se c’è un modo per i vinti.

Io non voglio più provare.

Lei spumeggia un’altra, ed è bella, forse, io non so neppur dirlo; io l’ho scelta quasi a caso, perché il giorno era alto, perché il mondo mi sta finendo, e lei mi ha lasciato via. Il suo sorriso d’incanto mi ha strappato via il volto come un vento che va a nord, e non era per me. Qui, a questo mio porto posto nel più silenzioso deserto non passa alcuna vigilia, non passano uomini, non passano mantelli, e neppure i giorni. Non si volgono gli enigmi, non riposa il sole, non vengono leoni. Il giorno è interminabile, e solo in cielo è tafferuglio, di rombi, di lance e vapori, nubi che non sono nubi, locali serali, pub, cellulari elettrici, sono lettere isolate lanciate in aria come dischi volanti, come uccelli, ma non stancano, non depongono uova, non perdono penne dall’alto a cadere sugli occhi. La mia donna m’è volata via in uno di questi voli e non so ancora come, ma l’ho davanti, quando dovrebbe essere in amore, essere in volo. Ma l’ho ancora avanti perché non esiste riposo, e nessuno esce.

M’hai buttato al mondo perché andassi ad aspettare dal cielo, più del cielo, che il sole indicasse la luce puntuale, attraverso il freddo apertosi lo spazio, di una nebbia da sogno, e spalancasse la città. Aspettavo che un tempo indugiasse, che mi fosse fissata la data del congiungimento di me ai miei lampi; ma un graffio m’ha ferito gli occhi (lo strappo dalle sue braccia alle mie, m’è cascato il suo corpo e non ho potuto raccoglierlo, una distrazione, una occasione, e ho dovuto sentirla come un sesso, un’unghia, un pretesto, come il caso, m’ha tirato il braccio, e nel ritmo naturale del cronometro, il mio cuore è affondato), e il tempo intero m’è cascato indietro.

Mi sono trovata sopra me. I miei calzoni, i miei baffi, i miei segni, ho dovuto misurarmi, il mio umano esser malamente me stessa, non poter essere altrimenti che nel pieno nulla dell’umano stantio. Mi sono presa a considerarmi, per le mie forme, per la mia materia, indicarmi da quegli indici che mi avevano rivoltato nel vuoto parquet, come una cruccia disadorna d’un gelido spogliatoio.

Ma sono nascosta, dietro i pantaloni corposi da contadino, perché dietro dentro vi sto tutta, come il formaggio con le pere, ridicola altrettanto, sicura, scherzosa, fra il gioco e la burla, fra il tutto e il poco, fra chi e la me nascosta, che ancora gioca se ha buoi amici, ed è felice di un pezzetto, di un tocco. Lei, m’ha preso in ridicolo, riflettendosi negli occhi di un serio abito veste da notte sexy, di una serissima taglia 44, sorriso 18, giorno dell’anno del millennio nuovo non so cosa. Io sono imprecisa, oltre il confine anche l’acqua del bicchiere trabocca e monta in onde che spaventano gli occhi.

Mi ha urtato, mi sono chiesta come avesse potuto, io che ero vuoto, io che ero attesa, m’ha schizzato come una palla di biliardo, m’ha riempito d’una parola qualunque, come si annacqua il miglior sentimento, come si disperde il profumo più intenso. “Che cosa? Come?” mi ha urlato. Bastava sussurrare. Perché ha urlato? Perché ha riso, già mi inabissa la sua bocca, già mi sbanda il sorriso. Sono così vicina che non può parlar forte, mi assorda, mi fa male.

Nessuno mi ha insegnato a parlare, dicevate bastasse toccarsi la pancia per mangiare, per aver cibo, ed io mi sono toccata il volto, mi sono seguita il profilo, ho tastato sempre più profondamente il mio naso, le ho toccato la mia bocca, come si tocca un animale stanco e permaloso, le ho offerto il mio petto, mamma, le ho chiesto più amore di quanto possa chiedere il torto più infimo, l’errore più grande, mamma, le ho detto tutto il mio bisogno, mamma, mi sono toccata sotto i suoi occhi, mi sono data terra, ho fatto terra per la sua bocca della mia anima. Non ha camminato, non ha guardato, non ha gradito; aveva lei nel cuore, quelle curve sinuose di aeroplano, quelle curve di donna, quel vapore di cielo, quel tailleur, quella gonna, le sue calze, i tacchi.

E’ successo tutto ieri. M’ha guardato, non m’ha voluto, m’ha strabiliato, m’ha negato.

Perché m’hai detto di scendere, scendere, tenermi viva nei miei camuffamenti, vestirmi semplice ed essere intera, se la resa dei conti sarebbe passata di qua distrattamente, un giorno capovolto che non avrebbe neppur toccato l’aria, una coltre di pensiero a mutare i suoi occhi, un volo di pensiero sul suo volto morto, e la trasfigurazione neppur avrebbe badato dei suoi resti di prima e di dopo? Perché ho queste mani che m’hai fatto in un giorno d’amore, se per loro il tempo non ha una scorza di ventaglio? non ha i suoi occhi da toccare. Mi guardo, come tutto ciò che è stato tolto al mondo. Perché lei mi vede se non mi sa amare? Preferirei non essere. Il cielo è perfetto. La città è meravigliosa, lei è meravigliosa.

La vorrei amare, la vorrei rinchiudere, la vorrei labbra, sulle mie labbra.

Perché non può nulla l’interezza perfetta di questo cielo, che m’ha voluto nuda, a toccare il suo volto con le vibrazioni d’un inerme, contro la radice assurda del suo «no, no, altro!»?

Perché non le chiedo supplichevole, per l’amor del vuoto, di cercare altro?

 

Michele»

 

(elisa santucci)