Hannah Arendt scrive a Martin Heidegger. Sotto
trovate la lettera fedelmente trascritta. Considerate che
attende risposta. Rispondete ad Hannah Arendt,
immedesimandovi in Heidegger e
rispondete! Intanto
potete leggere giù giù in fondo, la mia falsa risposta
nei panni pseudo-filosofici del pensatore noto nella
Foresta Nera. Mandate
le vostre lettere a lettereparole@tiscali.it Potranno
essere qui pubblicate. Elencherò
ansie, amore sciolto ed annodato, lamore dei nani,
che sono perennemente trascinati a terra a dolere per
questo petto che casca fuori
«Ah padre, padre Lamore dei giganti che sono vuoti e soffrono. Parleremo dellamore che manca le proporzioni e per un verso o per un altro fallisce. La vita sotto la lente del sogno, che è locchio di chi non ha mai preso bene le misure, prima del salto. Solo per questo motivo, prima di giungere alla lettera di Hannah Arendt a Martin Heidegger (ma intanto preparatevi a rispondere ) riporto dei brani di natura reale-onirica. Di Milena Jesenská, della quale prima o poi proporrò una lettera. Sono palesemente testi pre-kafkiani. Fra il sogno e lAggadah. Tanto per brancolare dove tutto è buio, ma le sue forme hanno la consistenza del colore. E i corpi si riconoscono viceversa che nel mondo perché sono aperti.
«Non so
dove fossi, in un luogo infinitamente lontano da casa
in America? In Cina? Da qualche parte,
allaltro capo della terra, mentre lintero
pianeta era sconvolto da una guerra o da una peste, o dal
diluvio universale. Della catastrofe in atto io non
sapevo niente di preciso. Ma una folle fretta, una folle
agitazione mi trascinavano con gli altri nella fuga. Non
sapevo dove stavamo fuggendo. Non chiesi neppure perché
fuggivamo. Da una stazione partivano, uno dopo
laltro, treni interminabili alla volta del mondo,
tutti strapieni. Gli impiegati delle ferrovie erano in
preda al panico, nessuno voleva rimanere lì per ultimo.
Gli uomini lottavano per un posto come per la loro vita.
Fra me e i binari si frapponeva una folla immensa, non
avevo alcuna speranza di farmi largo attraverso di essa.
Ero disperata.
Sono giovane, non posso morire! gridai.
Ma davanti a me cerano altre persone giovani. E i
biglietti erano quasi esauriti. Il treno che stava
partendo era lultimo. Alla luce del giorno, i
semafori verdi e rossi lampeggiavano minacciosamente. Non
avevo salvezza.
Fu allora che qualcuno mi toccò la spalla. Mi voltai e
uno sconosciuto mi dette in mano un biglietto, dicendomi:
Con questo lei può andare in tutto il mondo. Può
passare il confine e avere un posto sul treno. Non abbia
paura e sia coraggiosa. Ma ora vada, si affretti, è
tempo
Nel momento stesso in cui il treno partì, avvenne
la catastrofe. La terra sprofondò in un baratro, il
mondo si trasformò in unimmensa rete ferroviaria
lungo la quale viaggiavano uomini, uomini che non avevano
più patria. I binari posavano sopra labisso e le
locomotive sfrecciavano a velocità forsennata.
Finalmente il treno si fermò al confine.
Controllo! Tutti a terra! gridò il
conduttore. La gente affluì al casotto dei doganieri, soltanto io rimasi indietro, senza passaporto, senza bagaglio. Nella mano stringevo convulsamente il biglietto. Brividi di freddo mi correvano lungo la schiena. Un doganiere mi si avvicinò e mi chiese i documenti. I secondi si trasformarono in uneternità. Aprii il biglietto. Il doganiere, impaziente si appoggiò ora su una gamba, ora sullaltra, tenendomi la mano. Sembrava deciso a non farmi passare. Io guardai il biglietto. Vi lessi, scritto in venti lingue diverse: Condannata a morte.
Un sudore freddo mimperlò la fronte. Il mio cuore
smise di battere. Un nodo di paura spasmodica, dolorosa
mi strinse il petto. Unangoscia mortale mi prese
alla gola. Allora, aggrappandomi a una tenue speranza,
già sul punto di morire, già allultimo respiro,
dissi al doganiere con tono supplice: Che sia
soltanto una parola dordine perché io possa
arrivare più facilmente allaltro capo del
mondo?» Articolo di Milena Jesenská,
comparso sul giornale Tribuna, anno 1921.
Esattamente 22 anni prima della morte di Milena Jesenská
nel lager di Ravensbrück. «Oggi, dal finestrino del tram ho
assistito a una piccola scena: sul marciapiede due
persone, un uomo e una donna, che evidentemente avevano
appena finito di litigare; la ragazza si è voltata come
per fuggire, come se, nella sua indignazione e nella sua
collera, volesse, senza dubbio a ragione, andarsene per
sempre. Però non è stata capace di muovere un
passo
Quando il tram ha girato langolo lei
era ancora lì, alle spalle delluomo, terribilmente
sola, ripudiata, stordita dai sorrisi dei passanti,
immobile e sgomenta. Lunica maniera, ho pensato, di
liberarsi da una situazione sarebbe sferrare un bel colpo
con quel piccolo pugno proprio in faccia alluomo,
ammesso che esista il modo di liberarsi dalle piccole
umiliazioni della dipendenza. Ma so che lei non lha
fatto, che non sarà mai capace di farlo. Che sicuramente
è tornata a casa e che lumiliazione cresce a
dismisura». Dal Národní listy, Milena
Jesenská. Hannah Arendt a Martin Heidegger. [Sett. 30] «Martin,
Perdonami se oggi, quando ti ho visto, mi sono messa
subito a sistemare le cose. Ma nello stesso istante mi è
balenata in mente limmagine tua e di Günther, voi
due insieme al finestrino e io da sola sul marciapiede,
cosicché non ho potuto eludere la diabolica chiarezza di
quello che avevo visto. Scusami. Sono coincise così tante cose, che mi hanno turbata fin nel profondo dellanima. Non è stato soltanto, come sempre, che il tuo sguardo ha riacceso la mia coscienza della più chiara e cogente continuità della mia vita, della continuità del nostro per favore lasciamelo dire amore. Cè
dellaltro: ero lì davanti a te già da un
po, avresti potuto vedermi mi hai guardata
di sfuggita. E non mi hai riconosciuta. Quandero
piccola mia madre una volta mi ha spaventata follemente
con un gioco di questo genere. Avevo letto la fiaba di
uno gnomo a cui il naso era cresciuto a dismisura sicché
nessuno più lo riconosceva. Mia madre finse che questo
fosse successo a me. Ricordo ancora la paura cieca che
provavo mentre continuavo a gridare: ma io sono la tua
bambina, sono davvero Hannah. Oggi mi sono sentita così.
Poi il treno si è allontanato rapidamente. E allora è
successo esattamente quello che avevo immaginato, che
forse avevo voluto: voi due in alto, sopra di me, e io da
sola, completamente inerme. Come sempre, non cera
nulla che potessi fare se non lasciare che ciò
accadesse, e aspettare, aspettare, aspettare.» (Hannah
Arendt) Hannah
Arendt, Martin Heidegger, Briefe 1925 bis 1975. Und
andere Zeugnisse, Vittorio Klostermann GmbH,
Frankfurt am Main 1998, ed. it. a cura di Massimo Bonola,
Lettere 1925-1975, Edizioni di Comunità, Torino
2001. «Arendt,
nello scambio epistolare con lamica Hilde Fränkel
che viveva a New York (10 febbraio 1950), fece questo
commento, alludendo ad Heidegger: Non si è
assolutamente reso conto che sono passati 25 anni.
E aggiunse poi (nella medesima lettera inedita): In
fondo sono felice, perché ho avuto questa conferma: che
ho fatto bene a non dimenticare mai» dalla Postfazione
di Ursula Ludz. Rispondete
ad Hannah Arendt inviando le vostre lettere a: lettereparole@tiscali.it La
lettera che segue è una mia risposta nei panni del
filosofo tedesco. Martin Heidegger ad Hannah Arendt.«10 febbraio
2003 Hannah, mi
ha destato il sogno. Quasi sera,
col viaggio autostradale arrivammo nel parco, con una
cantilena di pioppi radi e il gran spazio vacuo
derba. Il parcheggio era sgombro e fu facile
lasciare lauto senza impacci di sorta. Non cercammo
per molto parcheggio e lasciammo in breve lauto
sotto un tronco muto dun albero là in alto, e per
raccontare in fretta, ci avviammo verso la città. Già
buio, costeggiammo un casermone delle poste alla
sinistra, quasi una colonia da spiaggia feroce, in
autunno inoltrato, dove gli operai non avevano certo
fatto notte e nessuna luce bassa ne illuminava la
statura. Ma non era abbastanza buio per aver paura e con
te continuammo la poca strada ancora, larga e sola, che
non ricordo daver mai visto a Bologna. Ma la
vecchia città non tardò a farsi riconoscere, con la
viuzza incanalata dove di notte in giorni più vicini
devo aver atteso il primo fornaio per la schiacciata o
che un posticino aprisse per il ristoro, che il presepe
svernasse. Dallombra di un parcheggio malsicuro ed
anonimo, penetrai in strade piccole e corte, dalla vita
breve, ed il respiro più breve, ed il cuore deve
essermisi fatto in singulti, le arterie frammentate, ed
il sangue minimo. Mi dicesti che volevi andare in centro,
proprio in centro, di là, dove vaste luci pensai
illuminavano facce, sorrisi, piazza Maggiore, ma mi
lasciasti sulla porta, su uno di quei vegliardi ricordi,
da cui ho sentito tutta la paura per la pozza del centro
di cuore piazza maggiore, fa sangue. Oggi qualcuno è
stato ucciso. Rimasi impietrita alla lapide di inizio
città e ti dissi che sarei andata per le altre vie,
volevo percorrere altre fiumane, e per centro non
intendevo proprio là dove il vertice scoppia, la
cartolina sinfiamma e avrei preferito le coppie
cupe dei canaloni coperti, di là da via Isaia, dove i
portici sabbassano, e il passo corre. Ma mi dicesti
Bologna. Mi dicesti che volevi il centro, ed il centro
misura quei pochi decimetri quadrati che sono una andata
ritorno da qui ad allora, un istante. Ma così rapido,
avremmo bruciato subito. Una meteora, una stella, una
notte insopportabile. Di falsità, amore, ti uccido.
Questa città falsa. Cosa accadde accadde, poi tornammo
indietro
la stessa strada larga, la notte più
verde e nera. Ma ormai pioveva, duno scroscio da un
cielo ferito, gettato, inclinato, che faccia da
scorribanda a tutti i tentativi, e deglutisca di quello
che non ha potuto, e il mondo cadeva a pezzi, pezzi di
troppo, dallalto del muro pesante. Piovve il vento,
piovve di fumo, piovve lombra fino a che tutta le
nebbia fu presa e messa lì, nel parcheggio. Vi giungemmo
coi piedi nudi in bilico, sulla cresta dove
lerbetta verde che mi bagnava e consolava i piedi
finiva in fresca discesina di terra e verteva sul parco
fradicio. La vita era ricoperta, da più e più secoli,
di pioggia furibonda. Per quanto era stata sopra con un
ombrello da puttana lungo il viale di bologna?
Lauto galleggiava, forse celeste dargento
vitreo, forse di morte e radici, non si vedeva più,
occupata da quellinvasione di correnti malferme,
che diceva col proprio occhio celeste e inverecondo più
di quel che potessi sopportare. Non ti muovi, tu muori. E
il fango aveva lo stesso sapore del mondo in cancrena, e
la mia vita tremava. Giravo e rigiravo la mia chiave, di
ferro e gomma come quel gommone affondato, e non sapevo a
chi chiedere ospitalità. Da dove arrivo alla mia auto?
Come faccio ad andarmene? Non mi posso più muovere. E
affondavo, e il mio corpo vomitava nello stesso colore di
morte e speranza. Il lago stava fermo nel cielo, ed il
cielo era sparito nel lago, lontano lamentavano quei
pioppi, in un verde sempre più chiaro. Provai ad
avvicinarmi con la pelle timida dei piedi freddi,
impudentemente bisognosi, allacqua, e lentamente
dei corpi mi vennero in contro supini e bianchi, due
bocche duomo, che non avevano più detto parola.
Erano bianchi più del cielo, e morti più del cielo.
Annegato. La palude danima li teneva alti, visibili
ai miei occhi torvi e vuoti, senza riprenderseli me li
teneva davanti, non li affogava, li lasciava apparire
benzina, viola, dolore, mi odiava il cielo, odiavo il
vento, odiava il mondo, e non potevo andare. Una mano di
ghiaccio e verde, nelle vene la palude, mi ergeva contro
questo malessere di tutto il mare. Quello scheletro con
le ruote e il vento dentro, che si chiamava macchina e
forse ruggiva era scavata e rovesciata e la mia chiave,
lho, lho, lho persa. In quale
parcheggio ho finito lultimo amplesso? Io ero stata
a infuriare le vene? Hannah,
stamani avevo paura, di non averti accanto, ed ancora
più che tu fossi sempre qui, accanto a me, e che
il letto colasse. Ti racconto i bei momenti. Sono passato da te a me, da me a te senza sapere cosa fosse un corpo, senza sapere cosa significhi camminare. Hannah ho
un sogno, di scrivere un giorno una storia, di un
ombrellaio bohemien che porta umilmente e nobile le
persone per strada quando piove, un tassista di pochi
mezzi, che va incontro o si lascia chiamare
dallacqua e dal vento quando cadono le prime gocce
e scivola sulle strade umide, planando fra le piste delle
corse e degli occhi lucidi. Sì, nulla più che uno
strano tassista. Fermo agli angoli di via, impermeabile
di profilo che sta esile e solo dove le ragazze si
arressano, coi pacchi sulla testa, la borsetta fradicia,
guardandosi la punta dei piedi, per vedere se si sono
sporcate. Poi civettano fra loro, anziane signore,
qualche uomo, e i bambini. Questo mio personaggio non si
scompone, ed anzi si inchina ed offre il braccio terso,
lombrello. Guarda spesso le persone, forse senza
capire, attende, e poi se vuole, mi tenga la porto, e
conduce la persona dove lei vuole. Non è una trama
ricca, ma questuomo è triste. E trasparente come
lacqua. Per ora è solo un abbozzo ma ti prometto
che scriverò molto. Questuomo ha da qualche parte
un puzzle che laspetta. Unaltra cosa poi. Non
è più un bambino. E lui non sa cosè la paura, il
vetro tagliente e limpido dellesistenza lha
sezionato come un cristallo. Per spiegarmi ti dico che lo
sto pensando sempre meglio come quando mi sono guardato
delle mie foto di qualche giorno fa, poco più, si tratta
di tre, quattro anni, e mi è stato chiaro su quegli
occhi che non sono ti garantisco quelli
dello specchio, come il turbamento del mio intestino
malessere danima non sia che il malumore profondo
di questo volgersi via di occhi. Bambina, quegli occhi
non sono più i miei. Mi hanno ricacciato nel profondo
mare, dove tutto importa allo stesso modo, dove non hai
che primordiali bisogni, la fame, e sono così lontano da
pensare che una ciglia mi porti a largo. Ma ho fatto voli
di sapone, un tempo, a bordo dun soffio. Forse il
sogno ti dirà qualcosa, che le mie necessità si son
prese i capelli, il cuore, lo sguardo, e non ti lasciano
che un molo di carne. Che geme
quando salpi, prendi il volo e mi torni sopra, colomba. Ecco, ti ho
detto il mio racconto. Lombrellaio? Il
taxiumbrella? suona così ridicolo. Dimmi se ti viene in
mente un nome carino. Sono stato tanto bene a pensare a
questo, il giorno scorso, e sarà un motivo come questo,
che mi fa distratto per la via, e ecco le ciglia belle,
mi sfuggono. Ma tu sei bella, sono io un po troppo
vecchio. Idee come questa mi tengono eccitato, il
racconto, dico anche sessualmente. Sono stanco. Ho sudato
lanima e quando mi sono alzato avevo unaltra
gioia in cambio». (elisa santucci) |