Melville racconta di cosa siano le dead letters, parlandone in un suo piccolo capolavoro, noto al mondo come: Bartleby, lo scrivano. Un racconto molto particolare dominato da una ritornello celebre: «Preferirei di no», col quale tale Bartleby rifiuta ogni compito a lui molesto. Riporto per integro il finale di questo breve racconto, nel quale Melville spiega con un flashback i precedenti (vitali) dello scrivano di testi notarili o copista d’avvocato. Se Bartleby è oggi l’uomo che abbiamo veduto (e non posso che rimandarvi al testo di Melville), forse buoni motivi risiedono nel suo precedente lavoro.

« A questo punto pare superflua ogni altra aggiunta. L’immaginazione la più modesta potrà facilmente fornire lo squallido racconto del seppellimento del povero Bartleby. Ma, prima di congedarmi dal lettore, se questo breve racconto l’ha interessato tanto da fargli desiderare di sapere chi fosse Bartleby, e quale esistenza avesse condotto fino al giorno in cui venne a contatto col suo attuale cronista, vorrei dirgli che condivido pienamente la sua curiosità, ma che non sono in grado di soddisfarla. Eppure non so se non dovrei riferire una voce, che giunse al mio orecchio pochi mesi dopo la morte del povero scrivano. Quale fondamento avesse non fui in grado di stabilire, e pertanto non posso precisare quanto sia vera. Ma siccome questa vaga voce, per triste che sia, non mi è parsa priva di suggestione, e può darsi che anche ad altri si riveli tale, così io la esporrò in poche parole. L’informazione era la seguente: che Bartleby sarebbe stato un impiegato subalterno nell’ufficio delle lettere smarrite [dead letters], a Washington, e che era stato improvvisamente licenziato per un cambiamento di amministrazione. Quando vi penso, non riesco quasi a esprimere le strane emozioni che si destano in me. Lettere smarrite… lettere morte… non vi fanno pensare a uomini morti? Immaginate l’uomo che, per natura o sue sventure, sia incline a una squallida disperazione; quale altro lavoro potrà confermarlo in cotal sua inclinazione meglio che il maneggiare ogni giorno quelle lettere smarrite, e prepararle per le fiamme? Perché ogni anno se ne bruciano a carrate. Talvolta dalle pieghe del foglio il pallido impiegato estrae un anello, e il dito cui era destinato forse già imputridisce in una tomba; un biglietto di banca inviato con tutta urgenza, e colui che avrebbe ricevuto giovamento ormai non mangia più, non soffre più la fame; un perdono per quelli che morirono tra i rimorsi; una speranza per quelli che morirono disperati; buone notizie per quelli che si spensero annientati dalle sventure. Messaggere di vita, queste lettere precipitano nella morte.

O Bartleby! O umanità!». Herman Melville, Bartleby, the scrivener, trad. it. di Enzo Giachino, Bartleby lo scrivano, Einaudi, Torino 1994.

Così, uno dei migliori scrittori del novecento, fissa la propria attenzione alle parole mai giunte, ai messaggi che non giungeranno oramai più, al mito di Mercurio infranto. La lettura, di una lettera, di altro, di parole, o lettere fino a comporre una parola, chiedono l’ausilio di una particolare disciplina, l’ermeneutica filosofica, che deve il nome ad Hermes, Mercurio, il messaggero degli dei. Quando però i messaggi degli dei non giungono, siamo assenti ad un cielo vuoto. Non arrivano i messaggi degli imperatori, seminati lungo la muraglia cinese (Kafka), e riecheggiano parole hölderliniane:

«Ma tardi, amico,giungiamo. Vivono certo gli Dei,

ma sopra il nostro capo, in un diverso mondo.

(…)

Verranno come il tuono. Ma spesso penso

che è meglio dormire che essere senza compagni

e attendere. E non so intanto che dire e che fare

e perché i poeti in tempi di privazione?»

(Friedrich Hölderlin, Brot und Wein, trad. it. Pane e vino)

La freccia di Zenone non giunge alla meta, perché ogni misura si moltiplica infinitamente, frantumandosi infinitesimalmente, come le nostre identità, rotte, perse. Nei rapporti che non si toccano, negli abbracci che non raccolgano, negli occhi della tv che non vedono, simili ai nostri. Eppure in questa domanda, fiducia di arrivare, toccare, si imprime la poesia che si stacca dalla bocca, si fa parola, lettera, per poi perdersi.

Rispondere a queste lettere smarrite (ed in qualche misura tutte le parole sono lettere smarrite lungo un desiderio ad aprire una via) è un po’ ricercarle, raccoglierle, trovarle misteriosamente fra le mani (dopo tempo lungo di smarrimento, smarriti del ritrovamento) per pensarsi i suoi destinatari, e così provare a far parte di una vita, poeticamente.

E tutto sorprende.

Come sorprenderà la lettera che segue, scritta da un giovane scrittore americano, anzi da un cane, anzi da… provate a leggerla ed indovinare chi la scrive, ma tenete presente che voi siete i destinatari.

Quindi per cortesia, rispondete.

L’indirizzo di posta elettronica cui inviare le vostre lettere, le vostre risposte a Steven, o, se preferite, a Daniel O’Mara, è:

lettereparole@tiscali.it

Estratto da Dave Eggers, Lettere di Steven, un cane, ad alcuni capitani d’industria, in A.A.V.V. Burned Children of America, minimum fax, Roma 2001.

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All’Amministratore Delegato, 5 agosto 2000.

«Robert G. Miller

Amministratore Delegato

Rite Aid

30 Hunter Lane

17011 Camp Hill, Pennsylvania

Gentile signor Miller,

Lei non mi conosce e quanto sto per scriverle non la riguarda personalmente, ma nondimeno necessito della sua piena attenzione. Ho preso, ormai da qualche settimana, a scrivere lettere a persone come lei - però dal punto di vista di una cane di nome Steven. Ecco una lettera di questa fatta, per lei:

Mi chiamo Steven e sono nato subito dopo che i bambini sono tornati da scuola. Ho passato giorni ad abbaiare pur non sapendo perché stessi abbaiando. In quei giorni abbaiavo, abbaiavo, fino a diventare rauco e stanco, sapendo di non sapere perché abbaiassi, e tuttavia pensando per tutto il tempo che in un secondo momento sarei riuscito a capirlo. Ieri correvo sotto cento altissimi olmi, piantati in fila. Correvo verso una spianata dove l’erba sotto il sole era verdolina e soffice e mentre correvo con gli occhi vitrei per l’aria fredda ho pensato a mia sorella, che mi fu portata via tutti quegli anni fa, prima che le si aprissero gli occhi. Il mio pelo sembra carta vetrata, ma a toccarlo è magnifico. Ancora non so perché abbaio. In questo momento, dopo che è stato nuvoloso più o meno per una settimana, mi sento bene, mi sento riposato, come se non volessi abbaiare mai più. Ma so che ben presto mi ritroverò ad abbaiare, abbaiare finché non mi viene la voce roca, incapace di smettere di abbaiare oh mio Dio la gente mi fissa come se dovessi morire da un momento all’altro, per quanto sto abbaiando.

Be’, ora penso che sia tempo che lei torni al suo lavoro, signor Miller.

D.

Daniel O’Mara

5811 Mesa Drive, # 216

78731 Austin, Texas»

 

(Dave Eggers)

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A Daniel O’Mara, 14 luglio 2002.

«Daniel O’Mara

5811 Mesa Drive, # 216

78731 Austin, Texas

Qua l’osso, Steven!

Mi scusi, non so come parlarle, ma visto lei si presenta come un cane, non vorrei mancare di rispetto, e le parlo come ad un cane. Certo lei sa, quali e quanti impegni io abbia da svolgere, vista la posizione ed il ruolo che qui rivesto. Ma sa, in fondo, sono una persona disgraziata, perché non mi muovo con grazia, e la mia vita manca davvero di grazia. Ma certi giorni, so, con assoluta certezza, che sono la persona più fortunata al mondo.

Lo so quando scopro quanti amori ho perso al mondo. E mi muovo fra i muri di questa città, come da un porto, al prossimo, con la vedova e la fanciulla ad attendermi in ogni cantone, coi sorrisi e gli occhi sulla mattonella e lungo il sogno di un palo del semaforo. Ho donne lungo l’intera stringa della scarpa, e cammino e inciampo, col cuore marrone accomodato sulla suola, che è felice. Sa, scivolo… corro… pattino, resuscito su questo asfalto, navigo, perché ogni passo mi apre e si richiude, ed ho addosso i gesti passati e futuri e il mondo intero mi tocca dalla nuca ai fianchi. Non importa sa, se i bambini sono tornati da scuola, se il mondo è solo… non importa. Lasci stare, lasci perdere… Lo so, come si può reggere? Non erano mai tornati prima, e nessuno lo vede. Nessuno festeggia, nessuno piange. Nessuno ha mai visto nulla.

Se vuole, può continuare a festeggiare, a chiamarli, a chiamar gente ed a ringhiare, a recensire il suo puzzo ed il suo territorio, può proteggere la terra ancora a lungo, e si protegga gli occhi non glieli strappino; ma credo il vuoto resterà tale. Io gliel’ho detto, ho troppi impegni, fra me e lo schermo di questo studio. Per stare ancora a parlarle, Steven. Lo so non sta morendo. Lo so non sta morendo, abbai meno, è un bel nome Steven.

L’Amministratore Delegato

Robert G. Miller

Robert G. Miller

Amministratore Delegato

Rite Aid

30 Hunter Lane

17011 Camp Hill, Pennsylvania»

(elisa santucci)