A volte viene il felice sospetto.

Che quel che s’è fatto, s’è fatto invano

E forse, una possibilità, felice, è data.

Perché se il corpo nella notte rovesciasse il pensiero e l’anima buia, quella che solitamente è nera, potesse parlare, forse direbbe tutto il contrario, e saprebbe, scopriremmo che saprebbe ben più di quel che s’è voluto fare, provare tentare. Perché un attimo vale più d’una vita. E forse vegliando un corpo morto, sentiremmo dire: quanta distanza, quanta lontananza… E che un battito, sì un battito, di farfalla ha tenuto alto in volo una vita intera, e niente niente dico niente, tante parole per niente.

e lo sproposito di fermarci un attimo e ascoltare, ci fa sentire che, che.. Che non abbiamo niente a che fare con la vita.

Fra questa parole ed altre c’è lo spazio d’un gesto qualunque. Allora si può provare ad immaginare che delle parole, per il totale di una lettera, queste lettere, per una parola, siano in realtà - false. Contraddittorie con la realtà, semplicemente, il rigetto, che fa tanto schifo, d’un cibo saporito, che è il "malgma", l’equivalente, della materia sommersa che parla per nome del vulcano, poco prima della fine, d’una fine qualunque. E sputa. Vomita. E in un vomito che è pianto, va a finire tanto faticoso ed inutile incespicare, tanto dire ridire e stradire… stramaledire… Siamo un centimetro lontani. Sarebbe sufficiente per ballare e per la libertà, se solo non facessimo di tutto per superarlo, e cancellarlo, con la lucidità, la maledizione che ci è propria. Perché sarebbe sempre il caso ci preparassimo a capire che la verità un giorno sarà un’altra.

???????

Ho provato ad immaginare che questa parole pronunciate da una madre verso il figlio, Fuser, scritte da Roberto Vecchioni in una sua canzone, fossero in realtà - false. Mi riferisco a Celia de la Cerna (nome della madre di Ernesto Che Guevara), in El bandolero stanco, EMI 1997.

Ho risposto a questa madre, nelle vesti del figlio, sospesa fra l’effettività e l’irrealtà, immaginando che la realtà fosse tutt’altra, o simile, ma ugualmente fossero queste le parole della mamma. Mi sono così concessa una grande libertà, vaneggiando suo pari, quasi, per nulla purtroppo.

Per rispondere a questa donna, volendo esprimere le parole del figlio, non avete che da inviare le vostre lettere al medesimo indirizzo: lettereparole@tiscali.it <mailto:lettereparole@tiscali.it> e saranno qui esposte.

Abbiamo le parole con cui Vecchioni stesso immagina che Fuser risponda, poiché la canzone è strutturata nella forma di dialogo (a distanza, in lontananza), così, di fronte alle parole della donna abbiamo quelle dell’uomo. In un colloquio senza interazione. Troverete oltre, la "lettera", i pensieri della madre, ma subito qui, quelle che per Vecchioni sono le parole del figlio.

«"Oh madre madre che infinito immenso cielo

sarebbe il mondo se assomigliasse a te

uomini e sogni

come le tue parole

la terra e il grano

come i capelli tuoi"

"Oh madre madre se sapessi che dolore

non è quel mondo che mi cantavi tu

tu guarda fuori

tu guarda fuori sempre

e spera sempre di non vedermi mai

sarò quel figlio che ami veramente

soltanto e solo finché non mi vedrai"»

???????

A Fuser, 1997.

«"Non scrivi più

e non ti sento più

so quel che fai

ho un po’ paura sai

son senza sogni le strade di Rosario

fa male al cuore avere un figlio straordinario

saperti là

sono orgogliosa e sola

ma dimenticare è una parola

Bambino mio

chicco di sale

sei sempre stato

un po’ speciale

col tuo pallone

nero di lividi e di botte

e quella tosse amore

che non passava mai la notte

e scamiciato

davanti al fiume ore e ore

chiudendo gli occhi

appeso al cuore"

"Tu sei il mio canto

la mia memoria

non c’è nient’altro

nella mia storia

a volte sai

mi sembra di sentire la potarosa

accesa nel cortile

e guardo fuori Fuser

Fuser è ritornato

e guardo fuori e c’è solo il prato"»

(Roberto Vecchioni)

???????

Alla madre, 29 agosto 2002.

«Potrei anche tornare, sono certo tu mi aspetti, ma mamma, lo sai, non sono mai partito. E non saprei che direzione prendere e da quale lato arrivarti. Perché il cielo ha un panorama infinito e il tuo cuore mi stringe in cerchi sempre più piccoli. Potrei anche tornare, ma questa notte è buio per partire. Ho gli occhi di talpa, ed il mio coraggio che vantavi ha la stessa fisionomia della bocca - la linea - che non so baciare, che pavento come fosse identica alla mia. Fa paura veder perso fuori, cadente come la goccia che sta per staccarsi, di sangue, che macchia, il cuore.

Ha tutto così perfettamente piccolo, che penso mi appunterei gli occhi e mi farei ferino per cercare nelle mie mani d’oro le sue ciglia, vibranti mi illuminano in ogni dove, come sabbia. Ma portandomi lontano, di granello in granello, fino a smarrire tutte le mie mosse.

Sì, lo so dov’è lei.

Solo è così piccola.

E se fra la vita e un incubo c’è la tua differenza, non la mia

ed io sacrifico le mie notti ad un dolore più lento che è l’attesa

di morire prima della luce e prima che faccia buio

E se non c’è altra certezza che tutto a poco a poco vada

Beh, te l’ho detto, io sono fra coloro che non partono, e restano,

e non torneranno.

Se un poco mi vedi e poi non mi vedi,

non è paura di morire, io la notte dormo più di te.

Ma non mi presto ai solstizi non faccio giorno a lungo e certi silenzi sono più veri di quella spacciata vita, quella finita morte, che è morire un poco.

Ogni notte non credi sconto.

Un po’ tutta la rabbia del tuo cristallo infranto di occhi dolci, piccoli di bambino?

Ho così perso tutte le tasche.

Il mio fazzoletto d’uomo in amore, il cappello a cilindro, il garofano variopinto, tutto riposto, tutto posato, una ad una in tasca. Tasca. Tasca. Tasca Tasca Tasca TascaTasca.

I miei occhi tasche, pieni fino a vacillare, in piedi sulla punta dei piedi.

E tu, se senti male, chiudi gli occhi e dormi, sono solo incubi, fino a morire, e svegliati nuovo, pulito, con un cuore di plastica.

Mamma, ti abbraccio fino a non poterne più di abbracciarti. Ti abbraccio e sono sveglio, coi gendarmi sulla linea nemica ma il mio polso libero di batterti i suoi piccoli e lenti soffi, caldi nel petto. Mamma, butta giù la persiana.

È più autentica questa notte che non finisce, tutt’intorno al mio volto, o il taglio obliquo dei miei occhi scombinati, delle mani rattrappite, il sorriso guasto, e quant’altro di falso conduco su degno falso asfalto?

Mi muovo, dolente minaccia, facua inappariscente, e se faccio piano nessuno s’accorge di questo battito rovesciato, della mia vita che lentamente s’inoltra dietro le facce forti di chi vive e piano piano faccio finta che tutto questo non sia.

Non c’è niente di vero se non che tutto è vero, tranne questo punto guasto che non sente, questo punto guasto che piano piano si nasconde. Che fa’ parole che facciano sentire qualcun altro, se ci riescono, bravi, io, per me, vedi mamma, non parto.

Mamma. Sai dirmi cos’è il dolore? Non riesco a sentirlo, non vorrei dopotutto morire, ma mi sfuggono i motivi, e sono una stretta meschinità.

Dove vuoi che vada, ti ho implorato mandami a morire, a vivere la vita di qualcun altro, perché questa mia, beh, più che qualche "beh", e qualche altro segno, e la cupidigia, e l’invidia, e la meschinità di stare assolutamente e assurdamente a mandare questo qualcosa di mio… questa mia, fa male a tutti, e a me non fa bene.

Mamma, c’è una linea sottilissima, incandescente che gira e gira e non so dove va a finire, ma è diritta, diritta e fa deserta la pelle dell’uccello…

È un segno, e sto mordendo la mia gola da cane marcio, perché vorrei non aver scelta: vivere. Nascere ancora, non piangere mamma, se ho intrappolato la vita in una coda di topo e non sono felice abbastanza.

Tu piangi mamma di struggimento, ed io vorrei esser là, dove finiscono tutte le tue lacrime. In quell’acquerello felice, intarsiato fra le date dell’esistenza, e lievemente crocifisso. Ma sono perenne, perenne vibrante e palpitante, fra mani che non sanno chiudersi.

Quando la vita si sbottona, gli occhielli fino alla bocca, e la possibilità di tapparci sotto un cuscino, una coperta, un ventaglio che cambi quest’aria oramai irrespirabile.

Fai cielo, fattici cielo, fa’ cielo!

Sotto quale arcobaleno perderò la mano, la faccia, dopo la pioggia tutto il mio sudore. E sarò fanciullo pulito, lavato, nudo, pronto per il tuo sogno, che andrà lontano. Ed avrai un buon motivo per aspettarmi, ma qui giochiamo a rimpiattino. Qui faccio finta di qualcosa ma mancano buoni motivi per farmi pensare che valga qualche cosa questa vita che è questa che vorrei vivere ma non so cosa.

Se scomparisco, ho già pianto le tue lacrime e non una me ne è rimasta per questa vita che si finge mia. Che voglio - lo confesso - senza un valido motivo per giustificare quest’insana malattia che è l’intarsio di diversi incubi. Non so quali i miei. La vita. Dove finiscono i miei per dare inizio ai tuoi.

Perché se muovo troppo il piede ti sveglio, così se il lenzuolo si sposta, e mando all’aria i tuoi mostri, e potrei deluderti facessi spicinio di angeli. Un cielo vuoto, hai presente? come questo che vedo, e non tarda a compiersi sempre uguale, dietro al mondo dei tuoi occhi. Scusa se piango, e non mi fermo a lungo, e scivolo quando i desideri mi cascano senza prendere la via che porta alla bocca. Perché davanti a te scivolo, camminando lievemente su un mantello di monti che non so dove stia, ed arrampicarti, lo dimentico. Vedi come tutto va in questa grande piana dove gli abeti sono canguri, e fra i funghi e i semafori intercorre il passo del maratoneta o qualche diavoleria. Un gioco.

Quanti siamo al tavolo? Due ci consumiamo, perché se io ti do tutto, e tu mi dai tutto, non ci resta niente, poi, da dirci, con affabilità e la buona prospettiva di tempo. Tutti, i dadi, ci cascano addosso, picchiati dai numeri, è uno strano caso, una pioggia, il destino, ci tinge di blu, se nell’alto spaccano i barattoli. Gli angeli piangono. E noi ci mascheriamo per il carnevale pazzo. chi soffre? Chi si strappa i capelli? Chi vuole urlare? Tu ridi? ma devi ridere fino a farti male dentro, lasciare una pelle, la prima e più sottile, questa è la data condizione. Rendere tutto. Altrimenti non è una danza valida, non è un ballo che fa bene; non fa caldo. Qui fa freddo, maledettamente, anche se suda pure il carrello del macellaio, quando pendono giù lastre di colli depennati, deprezzati ganci dalle zampe rosse.

Potrei chiederti di parlarmi fino in fondo per un intero pezzo di strada, e facciamo piazza, di una tua espressione. Per esaurirtela questo fine settimana, così domenica prossima mi racconteresti un altro volo, un altro frutto, arrovellato e denudato con la tua sapiente lama giro giro, a farmi l’avventura.

Bene mamma, è giunta l’ora.

Ti scrivo, oggi, che è domenica, per cortesia, per dirti per favore, che puoi smettere, davvero di attendere dalla porta, le curve con cui il vento la muove sul prato, dal tavolo della cucina con ombre ed odori, al denso effluvio di farfalle e primavere, cala l’autunno.

Questo niente che è mio deve essere perso e ritrovato, almeno mille volte, per dirmi - niente e ancora niente.

Perché io ho scelto il niente.

Ho svoltolato, la curva del mio ultimo osso, fragile come la "Y" del pollo, ma è il destino, e oggi m’è caduto di mano, ed indica l’acqua.

Quindi no, niente ricordi, niente fumo né mantello e segnali da indiano, non mi dire niente, perché lo giro come il cucchiaio nel brodo. Oggi voglio una strada sterrata stremata che non conosca, sorda e muta, dalla quale farmi donare tutto, quel corredo da ufficiale o marinaio, o bello sposo, da indossare bene, col tovagliolo alla bocca (le maniche sporche di sugo) se mi gonfia la pancia per i troppi spaghetti, che tu mamma, ancora non m’hai dato.

In tanti anni di assenza, hai solo brigato per scucire lentamente e tenere sotto gli occhi come borse isteriche gomitoli colorati.

Ma la mia divisa, il mio abito mamma?

Capisco, l’ufficio, babbo, eh sì, gli impegni…

poi tutto il resto…

ma ma.

Sta bene, ora è tardi, il quadrante indica l’ora senza resti e sta bene, partirò nudo.

Ma allora, non mi attendere.

Farò come niente. Non aver pena.

Fuser»

(elisa santucci)