L'articolo che segue
riesce in qualche modo a rendere conto di ciò
che è
accaduto. Non è assurdo l'evento, ma il pensare
che nulla potrebbe
accadere nello scenario prospettato. Piagnucolare
ora sulle 20.000
vittime è ipocrita (tuttavia è bene chiarire
che non è il terrorismo che
va condiviso). I responsabili, veri criminali,
sono i vari Bush, i
governi, i poteri economici che sistematicamente,
scientificamente e con
cognizione calpestano la libertà e la vita di
miliardi di persone nel
solo perseguimento dei loro interessi predatori.
Si parla di ordine
mondiale, ma l'equilibrio mondiale è fondato sul
nulla, o forse meglio
sulla prepotenza di pochi, lo sbandierare i
valori di giustizia e di
pace come fanno le democrazie borghesi di tutto
il mondo è puramente
ideologico. Occorre fare i conti con questo.
Mentre gli obiettivi dichiarati sono il benessere
e la conciliazione,
nella realtà le potenze mondiali lavorano per
rinforzare le difese
militari, gli armamenti e gli strumenti di
offesa. Nessuna solidarietà è
dunque possibile con i criminali che hanno
portato il mondo sulla soglia
della catastrofe, e che si sia giunti ad un punto
di svolta nella storia
della civiltà capitalistica non è idiota e
irragionevole pensarlo. I
segnali esistono.Resistere alla barbarie deve
significare, per chi vuole cambiare
l'esistente, resistere al capitale globale e ai
poteri di qualunque tipo
essi siano.Da oggi non sarà più lo stesso? Chi
manifesta contro questo sistema sarà
giudicato unicamente un terrorista?
Paquola
negli usa un governo da guerra fredda La nuova
strategia imperiale [LE MONDE diplomatique -
Luglio 2001]
Nel giugno scorso, il presidente americano George
W. Bush, in Europa per la sua prima visita
ufficiale all'estero, ha deliberatamente scelto
di non fermarsi a Londra, né a Parigi, né a
Berlino. Da qualche mese, le relazioni tra le due
sponde dell'Atlantico si sono raffreddate:
marcato disaccordo sulla pena di morte e sulla
politica ambientale (protocollo di Kyoto),
tiepido disaccordo sul rilancio da parte
dell'amministrazione repubblicana di una
iniziativa di «difesa» strategica che
rimetterebbe in causa i trattati
di disarmo conclusi con Mosca. Ma la defezione di
un senatore ha fatto perdere ai
repubblicani la strettissima maggioranza di cui
potevano disporre in questa assemblea, che svolge
un ruolo importante nella definizione della
politica
estera. Su un punto, tuttavia, tutti sembrano
d'accordo: mentre le spese pubbliche
americane subiranno presto il contraccolpo del
rallentamento della crescita e del
gigantesco taglio fiscale approvato a giugno, il
bilancio militare continuerà inesorabilmente ad
aumentare.
dal nostro inviato speciale PHILIP S. GOLUB
«Siamo al centro», proclamava il senatore Jesse
Helms nel 1996, «e al centro dobbiamo restare
(...) Gli Stati uniti devono guidare il mondo,
tenendo alta la fiaccola morale, politica e
militare del diritto e della forza, e proporsi
come esempio a tutti i popoli della terra (1)»
Pochi anni dopo, il neo-conservatore Charles
Krauthammer scriveva, con altrettanta immodestia:
«L'America scavalca il mondo come un gigante
(...) Da quando
Roma distrusse Cartagine, nessun'altra grande
potenza si è innalzata al culmine cui siamo
giunti noi (2)». Il «momento unipolare»,
diceva profetico, durerà «almeno un'altra
generazione». E, proiettandosi ancora più in
là nel futuro, un altro autore ha
potuto affermare: «Il XVIII secolo è stato
francese, il XIX inglese ed il XX americano. Il
prossimo sarà un altro secolo americano (3)».
Questi inni trionfali ci danno la misura
dell'euforia imperiale che dilaga nella destra
americana dopo la fine della guerra fredda, e
della distanza immane che ci separa dagli anni
'80, quando autori del calibro di Paul Kennedy
credevano di intravedere i segni strutturali di
un appannamento dell'egemonia americana. Ma,
invece di rallentare il passo, gli Stati uniti a
partire dal 1991 occupano una posizione unica,
senza precedenti nella storia moderna. A
differenza dell'impero britannico che, alla fine
del XIX secolo, doveva affrontare l'ascesa del
rivale prussiano, gli Usa non vedono di fronte a
sé nessun avversario strategico in grado di
rimettere in discussione i grandi equilibri
planetari in un futuro prevedibile. Come se non
bastasse, i loro principali concorrenti
economici, europei e giapponesi, sono anche i
loro alleati strategici. Sul piano politico, gli
Usa hanno visto ampliarsi la sfera della loro
sovranità ed aumentare i loro margini di
manovra. Sul piano economico, sono sempre loro a
stabilire le regole, le norme ed i vincoli del
sistema internazionale (4). Conservare questo
status quo favorevole è dal 1991 l'obiettivo
precipuo e costante della politica estera
americana. Una finalità che si coniuga in vario
modo, secondo il carattere alternativamente più
o meno cooperativo, più o meno coercitivo delle
iniziative della Casa bianca. L'amministrazione
Clinton aveva privilegiato la diplomazia
economica e, entro certi limiti, la cooperazione
multilaterale, mentre la nuova amministrazione si
rivela sensibile alla tentazione della forza e
dell'azione unilaterale di allargare sempre più
i confini dell'egemonia americana. Al potere da
appena sei mesi, George W. Bush e la sua squadra
di
governo hanno irrigidito notevolmente le
relazioni bilaterali con la Cina;
rimesso in discussione il trattato Abm del 1972
con la loro decisione di mettere a punto il
sistema di difesa antimissile Nmd; annunciato la
loro intenzione di militarizzare lo spazio;
bocciato il protocollo di Kyoto sull'ambiente;
silurato il lavoro dell'Organizzazione per la
cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) sul
controllo dei paradisi fiscali; fatto capire
senza tante perifrasi che, nel contenzioso con
l'Unione europea sulla fiscalità offshore delle
imprese americane, sono pronti a sfidare le
decisioni dell'Organizzazione mondiale del
commercio (Omc) e del suo braccio disciplinare
(Ord), l'Ufficio per la composizione delle
controversie, qualora
venissero comminate sanzioni a loro danno (5).
Infine, l'amministrazione Bush si sta
adoperando per dare scacco alla Corte penale
internazionale (Cpi) che aveva ricevuto
dopo lunghe esitazioni l'adesione del presidente
Clinton (6). Un giorno dopo l'altro, si allunga
la lista di questi «atti piromani», secondo la
felice espressione coniata da Stanley Hoffman,
della Harvard University: atti che manifestano la
volontà costante di privilegiare l'azione
unilaterale, ed il concomitante rifiuto
dell'eventualità che i trattati multilaterali ed
il diritto internazionale possano circoscrivere,
per quanto marginalmente, la sovranità degli
Stati uniti. Al punto che John Bolton, da
poco nominato assistente di Colin Powell agli
Affari esteri, avrebbe affermato in privato che
«il diritto internazionale non esiste». Occorre
fare un passo indietro, per comprendere questa
deriva verso l'unilateralismo. Dopo lo
smembramento dell'Unione sovietica, gli Stati
uniti potevano scegliere fra numerose grandi
opzioni strategiche. Semplificando, possiamo
ridurle a tre. In primo luogo, privilegiare la
cooperazione ed il multilateralismo in una
prospettiva di cogestione di un sistema
mondiale in via di multipolarizzazione e di
pacificazione (fra gli stati
principali). In secondo luogo, adottare una
politica classica di equilibrio delle forze,
ispirandosi all'esempio della Gran Bretagna
nell'Europa del XIX secolo. Infine, perpetuare
l'unipolarità attuando una «strategia di
primato», secondo i desideri del senatore Helms
e dei suoi amici. Le prime due opzioni consentono
alcune possibilità combinatorie, come si è
visto dall'attento dosaggio di cooperazione e di
vincoli introdotto fin dal 1989 nella gestione
delle relazioni bilaterali con la Cina. Ma la
grammatica della forza e dei vincoli non lascia
alternative alla terza opzione
strategica. La cosiddetta «strategia di
primato» è stata elaborata dal Pentagono nel
1992 in un documento riservato, Defense Policy
Guidance 1992-1994 (Dpg). Scritto a quattro mani
da Paul Wolfowitz e I. Lewis Libby, oggi
segretario aggiunto alla difesa l'uno e
consigliere per la sicurezza del vicepresidente
Dick Cheney l'altro, il
documento esortava decisamente a «impedire a
qualsiasi potenza ostile il dominio di
regioni le cui risorse le consentirebbero di
accedere allo status di grande potenza»,
a«dissuadere i paesi industriali avanzati da
qualsiasi tentativo che miri a contestare
la nostra leadership o a ribaltare l'ordine
politico ed economico costituito» e a
«impedire l'ascesa di un futuro concorrente
globale (7)». Tutte queste raccomandazioni sono
state scritte all'apice del «momento
unipolare», poco dopo il crollo dell'Urss e la
guerra contro l'Iraq. È un dettaglio storico
significativo, perché la guerra del Golfo ha
avuto un peso decisivo nella rimobilitazione
delle forze armate americane. Ha giustificato
anni di bilanci militari elevati e legittimato la
continuità nell'esistenza dell'arcipelago
militare planetario degli Stati uniti, la rete
mondiale delle loro forze armate, contro quegli
«stati canaglia» in grado di minacciare gli
equilibri strategici regionali. Nel Febbraio 1991
Cheney, allora segretario alla difesa,
considerava la guerra del Golfo la
«prefigurazione tipica del genere di conflitto
che potremmo conoscere nella nuova era [...].
Oltre che nel sud-ovest asiatico, abbiamo
interessi importanti in Europa, in Asia, nel
Pacifico, in America latina e in America
centrale. Dobbiamo configurare le nostre linee
politiche e le nostre forze in modo tale da
essere dissuasive o comunque sconfiggere
rapidamente simili minacce regionali future
(8)». A ben guardare, quindi, la guerra (del
Golfo) ha salvato un
Pentagono ed un complesso militare-industriale
fortemente preoccupati di fronte alla
prospettiva di una vasta smobilitazione, in
seguito alla scomparsa dell'Unione sovietica. Ma,
come hanno osservato all'epoca Robert Tucker e
David Hendrickson, «dimostrando che la potenza
militare conservava inalterata tutta la sua
importanza nelle relazioni fra Stati», tale
guerra è stata anche «percepita negli Stati
uniti come un duro colpo, forse un colpo mortale,
inferto alla concezione di un mondo
multipolare». Già concorrenti economici
scarsamente autonomi, tedeschi e giapponesi
durante il conflitto si erano rivelati «più che
mai subalterni rispetto alla potenza militare
americana» (9). La «strategia di primato» è
stata accantonata durante la presidenza Clinton,
che ha privilegiato il consolidamento degli
interessi nazionali tramite
le istituzioni multilaterali (dominate dagli
Stati uniti, sia detto per inciso) e l'attuazione
di una strategia internazionalista liberale
imperniata sulla globalizzazione - con un certo
successo, a giudicare dai risultati ottenuti. La
smobilitazione di Clinton Se È vero che, a
partire dal 1945, tutti i capi di Stato
americani, da Harry Truman a George Bush (padre)
sono stati «presidenti di guerra», come li
definiva lo storico Ronald Steel, Clinton aveva
invece la possibilità di agire diversamente. Ed
effettivamente durante la sua presidenza il
centro di gravità del potere si è spostato, in
qualche misura, dagli apparati di sicurezza
nazionale verso il Ministero delle finanze ed il
nuovo Consiglio di sicurezza economica alla Casa
bianca. I grandi
finanzieri come Robert Rubin si sono imposti
sulla scena politica
mondiale, orchestrando la globalizzazione e
gestendone le crisi. D'altronde, il presidente
aveva annunziato già nel 1992, prima ancora
della sua investitura, che la liberalizzazione
economica e gli scambi commerciali sarebbero
stati in futuro gli strumenti privilegiati della
diplomazia americana. Una scelta che si è
concretizzata negli accordi di libero scambio
stipulati col Messico ed il Canada nel 1993, la
ratifica dell'Omc nel 1994, la liberalizzazione
finanziaria nell'est asiatico e la politica di
engagement con la Cina e la Russia. Era una
scelta logica privilegiare il fattore economico
rispetto a quello strategico: se lo scontro
bipolare aveva giustificato quarant'anni di
mobilitazione militare, la sua scomparsa creava
le premesse per un capovolgimento delle
priorità. Le formed'intervento dello Stato
dovevano modificarsi, per accompagnare e
valorizzare appieno l'apertura della Cina, lo
sviluppo folgorante delle economie emergenti
nell'est asiatico, e la fase di transizione
nell'Europa centrale e orientale. Lo Stato di
sicurezza nazionale doveva in qualche modo cedere
il passo allo «Stato globalizzatore».
Proponendo di ribaltare le priorità, Clinton
«poneva in discussione la ragion d'essere del
Pentagono e della struttura di sicurezza
nazionale di guerra fredda», fa rilevare Steve
Clemons, direttore del Japan Policy Research
Institute. Favorevole ad una smobilitazione
militare su larga scala, Clinton «ha avuto fin
dall'inizio rapporti esecrabili con i generali».
Già nel 1993, per bocca del suo segretario alla
difesa, Les Aspin, Clinton aveva annunziato la
sua intenzione di rivedere due elementi chiave
della politica militare dei suoi predecessori: la
dottrina della base force di Colin Powell - la
capacità di combattere contemporaneamente due
grandi guerre regionali - ed il programma di
sviluppo di armi antibalistiche avviato ai suoi
tempi di Ronald Reagan. Aspin aveva addirittura
auspicato la «fine dell'era delle guerre
stellari». Queste iniziative hanno fatto ben
poca strada. Di fronte alla resistenza
implacabile del complesso militare-industriale,
che gli era fortemente ostile a priori, in
particolare a causa del suo attivismo giovanile
contro la guerra del Vietnam quando studiava a
Londra, Clinton avrebbe ceduto nel volgere di
pochi mesi. La debolezza politica si è sommata a
quella personale per fargli perdere le prime due
prove di forza con il Pentagono: la sua proposta
di accettare i gay nell'esercito è morta e
sepolta, mentre la dottrina della base force è
viva e vegeta (anche se, ironia della storia,
adesso la mettono in discussione proprio i
repubblicani che l'avevano voluta a suo tempo).
È stato «in quel momento preciso» spiega
Lawrence Korb del Council on
Foreign Relations (Cfr), «che Clinton ha deciso
di allisciare il pelo ai generali del
Pentagono». Il bilancio della difesa nel 1994 è
rimasto fermo a 280 miliardi di dollari, cioè
l'88% della media degli anni di guerra fredda dal
1975 al 1989 e nel 1998 è stato votato un
aumento di 112 miliardi di dollari in sei anni,
fortemente voluto dal Congresso, in cui i
repubblicani erano in maggioranza in entrambi i
rami fin dal
1994. Una concessione dopo l'altra, Clinton ha
ceduto al Pentagono praticamente su tutta la
linea - il che non gli ha risparmiato le feroci
polemiche degli «esperti» repubblicani nei
confronti della sua politica di sicurezza e di
difesa. Spalleggiati dopo il 1994 dalla
maggioranza del Congresso, i repubblicani hanno
condotto una
campagna all'insegna del rancore e
dell'ipocrisia, accusando il presidente di aver
messo a repentaglio la «sicurezza nazionale».
Un esempio fra tanti, l'attuale consigliere di
Bush per la sicurezza nazionale, Condoleezza
Rice, ha potuto dire di Clinton che aveva
trasformato le forze armate americane in
«operatori sociali» e le aveva ridotte ad un
livello d'impotenza paragonabile al 1940! (10)
Altro fatto inquietante, troviamo proprio una
funzionaria civile del Pentagono, Linda Tripp,
all'origine del caso Lewinsky, bollato da Hillary
Clinton come «una congiura dell'estrema
destra». Se Clinton non aveva saputo o potuto
rimettere in riga il Pentagono, con George W.
Bush assistiamo al ritorno in auge dello Stato di
sicurezza nazionale. Contrariamente ai tempi di
Clinton, adesso le cariche decisive sono
appannaggio di famosi guerrieri e strateghi
civili e militari. Dick Cheney, Colin Powell,
Donald Rumsfeld, Paul Wolfowitz, Richard
Armitage, James Kelley, I. Lewis Libby, John
Negroponte (11), tra gli altri hanno avuto tutti
funzione di primo piano nella difesa e nei
servizi di informazione durante la guerra fredda
e/o al momento della transizione sovietica e
della guerra contro l'Iraq. Negroponte, tanto per
cominciare è stato una figura chiave nella
guerra «segreta» contro i sandinisti in
Nicaragua. James Kelley era in Marina. Richard
Armitage al ministero della difesa. Paul
Wolfowitz e I. Lewis Libby hanno formulato la
teoria unipolare durante la presidenza di Bush
padre. Donald Rumseld, poi, supervisore della
«seconda guerra
fredda» (1975-1989), è l'uomo che ha cancellato
la parola «distensione» dal linguaggio
ufficiale e che ha passato gli anni '80 e '90 a
portare avanti il progetto di «guerre stellari»
e a tuonare contro la politica dei democratici.
Per farla breve, è un governo di guerra fredda
senza guerra fredda. I suoi atti e la sua
composizione rispecchiano una visione ed una
scelta ben precise: la visione di un sistema
mondiale regolato esclusivamente dal gioco dei
rapporti di forza, e la scelta di perseguire
obiettivi di ricchezza e di potenza stabiliti in
base ad una definizione molto ristretta
dell'interesse nazionale. Ieri l'Iraq, oggi
l'ipotetica «minaccia cinese» sono il pretesto
per una mobilitazione militare high-tech che
dovrebbe portare il bilancio del Pentagono a 320
miliardi di dollari all'anno, una cifra superiore
alla somma dei bilanci militari di tutti i
potenziali «avversari» degli Stati uniti - in
un periodo di drastico ridimensionamento della
spesa pubblica, ed in particolare della spesa
sociale. Anche ammesso che voglia farlo, la Cina
non è in grado di ribaltare gli equilibri
nell'est asiatico, e tanto meno a livello
mondiale - il che non esclude, intendiamoci bene,
che un nazionalismo cinese aggressivo non possa
avere un ruolo destabilizzante nell'Asia del
futuro. Ma non è questo il punto. Riconoscendo
alla Cina lo status di«avversario strategico»
durante la campagna elettorale,e poi di
«concorrente strategico» quando è divenuto
l'inquilino della Casa bianca, Bush sta
costruendo un
passo dopo l'altro la realtà che pretende di
descrivere. Il primo maggio scorso il presidente
annunciava la sua decisione di procedere a ritmo
accelerato alla realizzazione di un sistema di
difesa antimissile. Poi, l'8 maggio, il
segretario alla difesa Donald Rumsfeld
annunciava, senza quantificarlo, un forte aumento
dell'impegno americano nella difesa spaziale.
Allo spazio, dichiarava Rumsfeld, spettava ormai
un ruolo prioritario nella pianificazione
strategica americana. Per affermare appieno la
portata di tale iniziativa, è opportuno
rileggere le conclusioni della Commissione
presieduta dallo stesso Rumsfeld, non ancora
ministro. Il rapporto Rumsfeld, divulgato l'11
gennaio, sottolinea la «crescente vulnerabilità
degli Stati
uniti» ad una «Pearl Harbor» spaziale e
propone di porvi rimedio «dando al presidente la
possibilità di disporre di armi spaziali come
deterrente di eventuali minacce, se necessario,
per difendere gli interessi americani da attacchi
nemici».
Pear Harbor? Crescente vulnerabilità? Ma è
esattamente l'opposto, il mondo che stanno
costruendo Rumsfeld e la Rice. Chi potrebbe
sfidare gli Stati uniti nello spazio o nelle
profondità del mare, altro tema di riflessione
di viva attualitàal Pentagono? Forse la Russia,
che recluta turisti americani danarosi, per
finanziare i suoi voli spaziali? O la Cina, che
verosimilmente ha bisogno di vent'anni di pace
per
stabilizzare la situazione economica e sociale
interna? O l'Europa? Ma chi, allora? Senza tema
del ridicolo, la Commissione Rumsfeld afferma che
la minaccia proviene da «gente come Osama bin
Laden che potrebbe forse entrare in possesso di
mezzi satellitari». Rumsfeld non ha ritenuto
opportuno riesumare questa giustificazione
risibile, nel discorso dell'8 maggio. Non ha
addotto giustificazioni di sorta, per il semplice
fatto che non ce n'è neanche una. Dietro tutto
questo lavorio, si intuisce una mobilitazione
scientifica e tecnologica imponente. Andrei
Marshall, un ottuagenario incaricato dal
Pentagono di elaborare la nuova strategia
militare, coltiva sogni di aerei stratosferici,
di sottomarini giganti, di laser spaziali, di
sistemi d'arma teleguidati.... Ottime notizie,
per la Lockheed-Martin, la Raytheon e la Boeing.
Ma, come dice giustamente Seymour Melman, critico
della prima ora del complesso militare
industriale, «l'obiettivo strategico di questo
grande sforzo è assicurarsi l'egemonia mondiale.
È un'aritmetica del potere». Resta da capire
quali saranno veramente, negli anni a venire, i
margini di manovra di un'amministrazione la cui
arroganza è inversamente proporzionale alla
legittimazione popolare. A fine maggio, i
repubblicani hanno perso il controllo del Senato,
e rischiano di ritrovarsi in minoranza alla
Camera dei rappresentanti dopo le legislative del
2002. Supponendo che i democratici facciano
prevalere la loro posizione, il programma di
rimilitarizzazione di Bush subirebbe una battuta
d'arresto. Nell'attesa, il resto del mondo dovrà
affrontare in qualche modo il nuovo nazionalismo
americano. A giudicare dalle reazioni iniziali in
Europa e Asia, la «strategia di primato» del
Pentagono viene recepita con forte ostilità.
L'amministrazione
Bush può anche ignorarlo, ma il paradosso delle
strategie egemoniche fondato sulla forza è che
generano inevitabilmente forze loro contrarie. E
allora, la ricerca di un primato assoluto e
incontrastato porterà forse come conseguenza ad
accelerare il
cammino verso un mondo multipolare.
note:
(1) Jesse Helms, «Entering the Pacific
Century», Heritage
Foundation, Washington D.C., 1996.
(2) «The Second American Century», Time
Magazine, New York, 27
dicembre 1999. Si veda anche Charles
Krauthammer, «The Unipolar Moment», Foreign
Affairs, vol. 70,
n.1°, New York, 1990-1991.
(3) Mortimer Zuckerman, «A Second American
Century», Foreign
Affairs, maggio-giugno 1998.
(4) Vedere Noëlle Burgi e Philip S. Golub, «Il
falso mito dello
stato postnazionale», Le Monde diplomatique/il
manifesto, aprile 2000.
(5) Il rappresentante speciale per il commercio
Robert Zoellick,
ha avvertito l'Unione europea il 15 maggio che
l'attuazione delle sanzioni contro gli Stati
uniti nel caso delle
«Foreign Sales Corporations» avrebbe avuto
l'effetto «di un'esplosione atomica nelle
relazioni commerciali
bilaterali».
(6) La Camera dei rappresentanti ha votato l'8
maggio un progetto
di legge che pone i cittadini americani al
riparo da qualsiasi eventuale imputazione mossa
dalla Cpi. Una
conferma da parte del Senato segnerebbe la fine
della Cpi.
(7) Si legga Paul-Mariede la Gorce, «Washington
et la maîtrise du
monde», Le Monde diplomatique, aprile
1992.
(8) Dichiarazione resa dinanzi alla Commissione
difesa del Senato
il 21 febbraio 1991.
(9) Robert Tucker e Frederick Hendrickson, «The
Imperial
Temptation», Council on Foreign Relations, New
York, 1992, pp. 9 e 10.
(10) Condoleezza Rice, «Promoting the National
Interest», Foreign
Affairs, gennaio-febbraio 2000.
(11) Si tratta, nell'ordine, del vice-presidente,
del segretario
di stato, del segretario alla difesa, del vice
segretario alla difesa, del vice segretario di
stato incaricato
del Sud est asiatico e dell'area del Pacifico,
del
consigliere per la sicurezza di Dick Cheney,
dell'ambasciatore in
attesa di conferma all'Onu.
(Traduzione di R. I.)
REDAZIONE
NAMIR -
condivide il geniale articolo. |
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