Liberazione
22 gennaio 1999
Giornate agitate, confuse,
impazzite, per la politica di Palazzo: una pseudo-crisi
di governo, giocata con modalità incomprensibili ai
più, gli scontri ripetuti tra Prodi-Veltroni e Cossiga,
la decisione della Corte costituzionale di ammettere il
referendum, l'aggressivo clima contro i partiti che si
respira nei media e nei talk-show. Come si colloca, in
tutto questo, Rifondazione comunista? Ne parliamo con
Fausto Bertinotti, di ritorno dall'Havana.
Come ti è
parsa l'Italia, in questi giorni, vista da Cuba?
A Cuba ho partecipato a un
importantissimo convegno sulla globalizzazione, promosso
dall'Associazione degli economisti latino-americani e
sostenuto dal gruppo dirigente cubano: c'erano studiosi e
intellettuali di tutto il mondo, personalità come
Danielle Mitterrand, uomini di cultura. Fidel Castro non
solo ha presieduto i lavori, ma è stato parte attiva di
tutte le sedute, comprese quelle notturne, per cinque
giornate di fila. Un'esperienza che, al di la del merito,
ha offerto, insieme, una riflessione sui mali del mondo e
un tentativo di risposta alta, non
contingente. Non so se riesco a comunicare davvero
l'emozione di un evento di questa natura: che poi, in
concreto, ripropone le ragioni - anche quelle drammatiche
- per le quali vale la pena di fare politica, ha senso
rilanciare questo impegno e questa sfida. È in questo
contesto che ho seguito i "rumori italiani",
gli eventi politici di questi giorni. Mi ha colpito,
prima di tutto, l'assenza di ogni contenuto sostanziale,
di riferimenti diretti alla vita delle persone: e mi è
parsa inaccettabile proprio la povertà del conflitto.
Forse, era
anche l'effetto della lontananza fisica..
Forse la lontananza acuisce un
certo tipo di sensazioni. Ma anche se così fosse, mi
pare un'occasione da cogliere. Perché, vedi, quando ci
si occupa di globalizzazione e si discute degli effetti
sul mondo delle tempeste finanziarie, quando si ragiona
sui disastri del neoliberismo, non ci si occupa affatto
di questioni astratte o di metaproblemi: parliamo
esattamente di ciò che interviene, ormai, nella realtà
di tutti i giorni, della crisi sociale, dei problemi
quotidiani di chi lavora e di chi non lavora. Possibile
che la politica si riduca a un conflitto nominalistico su
equilibri di potere o su mere strategie di gruppo?
Possibile che le sue modalità si immiseriscano fino a
questo punto? Io credo che siamo ormai a una vera alienazione
della politica, che dobbiamo
contrastare con grande forza.
Come facciamo
noi, Rifondazione comunista a sfuggire a questo destino
alienato, senza per questo privilegiare una "via di
fuga"?
Mantenendo intera la
diversità, l'alterità del nostro profilo politico noi
siamo altro, ci
sforziamo di essere gli interpreti di un'altra modalità
dell'azione politica, che ci pare infinitamente più
vicina, rispetto a quella dominante, agli interessi e ai
bisogni di massa. Nell'agone politico, entriamo distinti,
con il distacco che solo può consentire la denuncia - ma
con la determinazione di non essere semplici spettatori.
Ritorneremo su
questo punto. Intanto, però, ti domando: da dove nasce
la patologia attuale? Quali sono le sue cause
strutturali, e quali quelle più immediate?
C'è una ragione di fondo, che
abbiamo richiamato parlando di democrazia malata: il
degrado attuale della politica nasce dalla rinuncia a
esercitare un'opzione strategica di società,
dall'eclissi delle ideologie intese come "idee
forti". La progressiva adesione della sinistra
moderata al paradigma del mercato e alla ineluttabilità
delle politiche neoliberiste e sfociata nel dominio della
"governabilità": la dimensione del governo,
anzi, tende a occupare intero lo spazio della politica e
a deprimere le ragioni di fondo della contesa e del
conflitto tra le classi. Una politica così ristretta non
può che occuparsi di "chi" governa e "con
chi", "con quali schieramenti", non certo
"per che cosa".
La nascita del
governo D'Alema-Cossiga non ha certo contribuito a
migliorare la situazione.
La scelta della sinistra
moderata della grosse Koalition, dell'alleanza
col centrodestra ha certamente aggravato la malattia.
Finché c'è stato il rapporto conflittuale tra
centro-sinistra e Rifondazione comunista, quantomeno, al
di la del compromesso che si riusciva o no a raggiungere,
l'agenda politica era occupata da problemi reali -
occupazione, 35 ore. C'è stata, fino a un certo punto,
una dialettica tra interessi del mercato e bisogni di
massa, per dirla rozzamente. Adesso, questi temi sono
scomparsi, senza neppure particolari conflitti.
Colpa vostra,
ci dicono ancora in molti. Se non aveste rotto con Prodi,
forse oggi le cose starebbero diversamente...
Se non avessimo rotto con
Prodi, saremmo semplicemente entrati, anche noi, in
questo squallido teatrino politico: questo è ciò che ci
è stato prospettato, dal centro-sinistra, dopo il
rifiuto della svolta. Non fu, da parte di Prodi, una
scelta casuale: era la definizione del rettangolo, del
recinto, nel quale, da quel momento, sarebbe stato
possibile giocare. Era la negazione del compromesso,
faticoso e difficile, sul quale eravamo riusciti ad
attestarci per due anni. Apprendo che Cossiga, adesso,
annuncia di voler fare quel che abbiamo fatto noi: ma non
può. Gli manca, appunto, la "diversità" di
prospettiva: anche lui è parte integrante del degrado
attuale della politica.
Non prendi
troppo sul serio, dunque, i guai del governo, prodotti da
Cossiga che tu stesso, del resto, avevi previsto pochi
giorni prima?
Ovviamente, non pensavo proprio
a una precipitazione degli eventi così rapida. Tuttavia,
continuo a ritenere che questo governo goda di una
rilevante stabilità: non è in pericolo insomma, il
quadro politico. Si tratta, se mi si consente l'ossimoro,
di una stabilità molto instabile, proprio
per le ragioni che dicevamo sopra. Che sono strutturali
(l'inceppo dello sviluppo) e che derivano anche
dall'eterogeneità della coalizione (vedi la scuola e le
contraddizioni che produce). E che sono anche specifiche:
la contesa che si svolge oggi sul Centro apre una
questione gigantesca nella geografia politica e proietta
sull'esecutivo fortissime onde d'urto. Questa contesa non
ha a che fare né con l'assetto della società né con i
contenuti della democrazia, e non somiglia neppure a un
classico conflitto tra destra e sinistra (che invece
sarebbe benefico): è l'effetto di due opzioni
antitetiche che convivono nella grande coalizione, una
(Cossiga) che punta su un Centro autonomo, che poi
stipula alleanze variabili, l'altra che vuole un Centro
tutto interno al centro-sinistra. Ne derivano tattiche,
culture politiche, personale del tutto diversi.
Molti hanno
interpretato le tue dichiarazioni dei giorni scorsi come
una sorta di "avance" a D'Alema, perché trovi
la forza di sottrarsi a questa tenaglia.
Non è stata né poteva essere
una proposta politica immediata: chi ha pensato che
Rifondazione comunista fosse disponibile a
"rientrare nel gioco", con intenti tattici e
con una idea "aggiuntiva" di se stessa, lo ha
fatto per scopi strumentali. Io ho parlato - e parlo -
d'altro: della necessità di riaprire un processo che
contrasti il degrado attuale della politica. Una proposta
rivolta in primo luogo a tutti coloro che vivono il
disagio e intendono opporsi al neoliberismo. Ma rivolta
anche, sia pure in termini diversi, alla sinistra
moderata: come può non accorgersi che, così
continuando, non solo rischia di essere concausa dei mali
del paese, ma di essere estromessa, nel prossimo futuro,
dal quadro di governo? Nessuna ciliegina da cogliere, per
Rifondazione comunista. Ma il bisogno di contrastare una
deriva che rischia di essere mortale, non solo per noi e
per le masse popolari.
In ultimo, non
certo per importanza, la questione del referendum. Come
ci dobbiamo muovere?
Intanto, dobbiamo denunciare
con forza la minaccia costituita dal contenuto del
referendum: che è il suggello della pessima politica
oggi dominante, la stabilizzazione dell'Italia di oggi.
Esso nasce, insomma, da un'ipotesi intimamente
conservatrice. Al di la delle obiezioni di legittimità
costituzionale, che pure potrebbero essere avanzate, ora
che il referendum c'è dobbiamo soprattutto combattere -
evitando in ogni modo di dare l'impressione di voler
sfuggire a un pronunciamento popolare. Si tratta di
armare di argomenti sostanziosi e importanti la campagna
del No: non è solo un No a un quesito e a una legge
elettorale, ma a questo degrado della politica, alla
malattia democratica di cui soffre il paese, alle logiche
del mercato e dell'impresa contro il lavoro. Allo stesso
tempo, dobbiamo lavorare perché il fronte del No (e dei
No) sia il più largo possibile, e coinvolga le più
ampie forze possibili, comprese quelle da noi molto
lontane.
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Pubblichiamo
l'intervista rilasciata dal segretario del Prc,
Fausto
Bertinotti, al quotidiano l'Unità.
«Accantoniamo le differenze per dare tutti assieme una
risposta forte al berlusconismo». In unintervista
a "lUnità", Fausto Bertinotti propone
unassemblea di tutti i parlamentari
dellopposizione.
A una settimana dalla manifestazione unitaria del 23
marzo, che sarà la conclusione di un mese e mezzo di
mobilitazioni in tuttItalia, e che preparerà lo
sciopero generale, Fausto Bertinotti rompe un po
gli schemi e si fa avanti con una proposta unitaria.
Rivolta allUlivo. Cosa che non aveva mai fatto
negli ultimi quattro anni. Propone una convergenza tra
quelle che lui chiama, al plurale, «le opposizioni».
Per dare sponda politica e parlamentare al movimento di
lotta e alle battaglie sindacali. La proposta è
abbastanza precisa: una assemblea dei parlamentari di
tutti i partiti del centro sinistra e della sinistra, da
tenere prestissimo, per vedere se si trovano dei punti
comuni sui quali lavorare insieme. Senza pretendere di
annullare le differenze che dividono «le due sinistre».
Ma accantonandole, per dare insieme una risposta forte al
«berlusconismo». Del resto, anche sulle differenze tra
le due sinistre, Bertinotti crede che siano in corso
molti cambiamenti, che i confini siano diventati più
fluidi, più frastagliati e un po più labili
rispetto a un anno fa.
D.
Bertinotti, quali possono essere i punti comuni sui quali
convergere?
R.«Vedo la necessità di una azione su tre piani. Il
piano parlamentare, quello programmatico e quello
politico. Sul piano parlamentare la mia proposta è
semplicissima: organizzare lostruzionismo contro la
legge per la modifica dellarticolo 18. Io credo che
le sinistre debbano dare sponda al movimento sindacale.
Senza strumentalizzarlo, senza forzarlo. Per carità,
quello sarebbe un errore gravissimo. Per esempio se noi
cercassimo di presentare lo sciopero generale come uno
sciopero politico, uno sciopero per mandare via
Berlusconi, faremmo una sciocchezza.. Però si devono
trovare delle sinergie tra lotta sindacale e lotta di
opposizione in Parlamento. Lostruzionismo penso che
sia lidea giusta».
D.
E sul piano del programma?
R.«Dobbiamo trovare una piattaforma comune. Che ci
permetta di essere efficaci sui temi fondamentali. Io
credo che potremmo decidere una vera e propria stagione
referendaria. Non solo per difenderci dallattacco
della destra, ma per contrattaccare. Il primo referendum
secondo me dovrebbe essere per ottenere
lallargamento dellarticolo 18 dello Statuto
dei lavoratori (cioè del divieto di licenziamento senza
giusta causa) anche alle aziende con meno di 15
dipendenti. Io faccio questo ragionamento: il fatto che
larticolo 18 protegga solo una parte della classe
lavoratrice è il punto debole. Infatti la destra attacca
qui. Cerca di fomentare la divisione sociale. E qui
che deve passare la controffensiva. Partendo da una
ovvietà: in questi anni è cambiata la struttura
industriale e produttiva. E cambiato il rapporto
quantitativo tra grande impresa e impresa medio-piccola.
Nei primi anni 70, quando fu varato lo Statuto, le
aziende sotto i 15 dipendenti non erano la spina dorsale
del sistema».
D.
Tu dici una stagione di referendum...
R.«Sì, credo che dovremmo promuoverne tanti, usarli
come strumento di lotta: sulle rogatorie, sul conflitto
di interessi (se loro insisteranno sulla legge-beffa) e
poi anche su temi più generali, magari non strettamente
legati alle battaglie di politica interna. Per esempio
sulla Tobin Tax. E partire da qui per trovare convergenze
tra Ulivo e sinistra radicale anche sul piano politico.
Nel senso che credo che dobbiamo lavorare per costruire
dialogo, convergenze e azioni comuni coi grandi movimenti
che sono in campo. Il movimento che viene chiamato
no-global, il movimento sindacale e anche tutto il
movimento dei girotondi che ha smosso nellultimo
mese le acque del centro-sinistra».
D.
Che giudizio dai su questi movimenti e su come stanno
"strattonando" la politica italiana?
R.«Il movimento no-global non solo ha portato nella
nostra politica nuove idee e nuova linfa. Ma ha avuto un
effetto "moltiplicatore" per molti altri
protagonismi. E come se avesse fertilizzato il
terreno, e su questo terreno chiunque butta un buon seme
lo vede germogliare in fretta, mentre fino a qualche
tempo fa il seme moriva bruciato. E così abbiamo visto
la ripresa vigorosa del conflitto sociale, abbiamo visto
uno dopo laltro nascere nuove organizzazioni e
nuovi movimenti democratici che vengono dalla società
civile, abbiamo visto persino il centro sinistra tornare
in piazza».
D.
Ma tu dici che le sinistre restano due. Non ti pare una
cosa innaturale? «Poteva essere logico che fossero due
quando una era al governo e laltra aveva scelto
lopposizione. Ora sono tutte e due
allopposizione, che senso a dividersi?
R.«Il fatto che una delle due sinistre governasse e
laltra no era un leffetto della divisione,
non era la causa. La ragione della divisione era il
giudizio che si da su questa globalizzazione. Il
centro-sinistra (non solo quello italiano, il
centro-sinistra di tutto il mondo) ha pensato che questa
globalizzazione potesse essere utilizzata come fattore
progressista. Cioè che avesse in se un nucleo vitale, di
modernizzazione, e che valorizzando questo nucleo si
potessero temperare le politiche liberali e governare da
sinistra la modernizzazione. Laltra sinistra,
chiamiamola radicale - della quale noi facciamo parte -
ha pensato che questa globalizzazione fosse contro la
modernità, e fosse qualcosa che trasformava
leccezionale potenziale innovativo di cui si
dispone, anziché in progresso in arretramento sociale.
Fino alla demolizione del compromesso sociale e
democratico che era stato la base della vita politica in
occidente nella seconda metà del 900. Vedi, non parlo di
due sinistre per un capriccio. La divisione è molto
netta e molto politica».
D.
Da qualche mese però mi pare che su tutti questi temi la
discussione si sia riaperta a 360 gradi. Non è così?
R.«Ci sono delle notevoli novità per via
dellaffermarsi del movimento no-global. Questo
movimento ha fatto saltare tutti gli schemi. Ha messo in
circolazione unenorme quantità di politica. Ha
rotto i confini, le linee di contrasto tra le due
sinistre. O almeno le ha molto fluidificate. Anche
perché è un movimento che raccoglie culture politiche
lontane tra loro, e certamente non tutte interne allo
schema della sinistra radicale. Il movimento ha fatto
irruzione anche dentro quella che io chiamo
"sinistra liberale", ha riaperto la
discussione, il dialogo. Diciamo che le sinistre restano
due, ma che sono molto aumentate le possibilità di
dialogo. Il movimento no-global ha posto due
discriminanti. Il no alla guerra e il no al neoliberismo.
Sono la coordinata e lascissa: dentro cè una
gigantesca tavola cartesiana dentro la quale la sinistra
può ricostruirsi».
D.
Che giudizio dai sulla destra?
R.«Mi sembra che
la linea scelta sullarticolo 18 costituisca una
novità. Cambia il panorama. O almeno ci fornisce
elementi di giudizio di cui prima non disponevamo. Non
era, per me, così prevedibile la decisone del governo -
dopo le mezze aperture dei giorni scorsi - di confermare
la linea dura sullarticolo 18. Io mi aspettava
quella che a scacchi si chiama la "mossa del
cavallo". E cioè un colpo di teatro che
scompaginasse gli oppositori e permettesse alla
maggioranza di transitare lungo una linea ambigua. E
invece, quando aveva sul piatto anche la possibilità di
dividere i sindacati, di ottenere risultati politici di
un certo rilievo, Berlusconi ha scelto la via dello
scontro frontale. Anche a costo di ricompattare i
sindacati e gli oppositori. E a costo di schierare le
truppe su un fronte che non ammette armistizi o pareggi:
i vince il governo o vincono i sindacati. Perché?, mi
chiedo. Per tenere fede alle promesse verso la
Confindustria? Non credo: anche la Confindustria era
divisa. E allora? Io vedo una ragione di fondo:
lidea di importare il thatcherismo in Italia. Con
tre obiettivi, legati luno allaltro
Sconfiggere i lavoratori è il primo. Il secondo è
sconfiggere i sindacati, demolirli. Perché il progetto
di relazioni industriali non prevede la presenza pesante
dei sindacati. Il terzo obiettivo è quello di rimettere
in discussione tutto il sistema contrattuale italiano.
Romperlo. Passando per labolizione del contratto
nazionale di categoria, cioè dellultimo baluardo
che aveva resistito tutti questi anni. E questa la
sfida. Altrimenti non si spiegherebbe tanto
accanimento».
D.
Vengono in mente i primi anni della Thatcher e di Reagan.
Anche la Thatcher e Reagan iniziarono con una sfida. La
Thatcher ai minatori, Reagan ai controllori di volo. E
vinsero.
R.«E inutile negarlo, il rischio cè. Il
rischio della sconfitta. Bisogna esserne consapevoli. Per
questo credo che sia necessario unire le forze e
contrattaccare. Uscire dalla rassegnazione, dalla
subalternità. Dare sponda alla forza dei movimenti, e
giocare anche noi tutto, per vincere la battaglia».
Piero Sansonetti
(sabato 16 marzo 2002)
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Corriere
della Sera, 13 maggio 02
INTERVISTA A BERTINOTTI
Non mi
affido alla speranza, ma alla creazione di una realtà
inedita: potrebbe chiamarsi "Sinistra
alternativa"» Bertinotti: Rifondazione pronta a far
parte di un nuovo soggetto politico
ROMA - E' difficile definire
Fausto Bertinotti un ingeneroso oligarca. Ma, se il
vestito cucito da Sergio Cofferati mal gli si attaglia, a
quali leader della sinistra va a pennello?
«Per prima cosa - risponde il segretario di Rifondazione
Comunista - bisogna precisare che di sinistre ce ne sono
almeno due. Altrimenti si fa una gran confusione e tutti
i gatti sono grigi».
Qual è la
differenza di fondo?
«La divaricazione radicale si è prodotta rispetto alla
nuova scena post novecento, successiva al crollo dei
regimi dell?Est, occupata da quella fase del capitalismo
che chiamiamo globalizzazione. Le scelte sono state
profondamente diverse. Da una parte c?è stata la terza
via, da Clinton a Blair passando per il centrosinistra
italiano, dall?altra una sinistra critica che non non ha
ritenuto che si dovesse essere più moderati ma anzi più
radicali e alternativi».
Torniamo agli
oligarchi...
«E? un problema che
esiste, come si vede dalla formazione, priva di qualsiasi
procedura democratica e partecipativa, delle candidature
alle amministrative e delle leadership. Ma è un effetto,
non una causa della crisi del centrosinistra».
In che senso?
«E? l?effetto combinato
di due fattori. Il primo, e più importante, riguarda
l'alienazione da parte del centrosinistra dell'idea,
secondo la quale la politica nasce nella società, nel
rapporto con i movimenti e con la dinamica del conflitto
di classe, per nulla scomparso, ma che si declina su un
terreno nuovo e persino inedito. Il centrosinistra è
stata l'idea ultima, sfibrata, dell'autonomia della
politica».
I politici
chiusi in una torre d'avorio?
«I politici chiusi
nelle loro istituzioni, separate dalle società che
diventano sempre meno democratiche perché divorate dalla
globalizzazione che alloca diversamente i centri
decisionali portandoli nelle segrete stanze del Wto o del
G8. E' la rinuncia a un punto di vista critico della
società e della rivoluzione capitalistica.
Sei divorato da quest'ultima e ridotto a un'appendice
della stessa che è a-democratica e produttrice della
morte della politica. Sei oligarchico perché aderisci a
una rivoluzione regressiva che trasforma tutte le
democrazie in oligarchie e quindi ne subisci la sorte».
Questo è il
primo dei due fattori di crisi cui accennava. L'altro?
«Il centrosinistra ha
accettato la tesi politicistica dello sblocco del sistema
politico. Ha creduto alla fine del fattore K. Non si è
reso conto che era una bufala. Hanno pensato che, se si
faceva il maggioritario e si costruiva l'alternanza,
siccome il centrosinistra era il maggiore interprete di
questa modernizzazione, sarebbe stato il candidato
vincente. In questa logica ha accettato fino in fondo la
spettacolarizzazione della politica, il leaderismo, la
personalizzazione dell'alternanza, il carattere
prevalentemente televisivo del confronto, questo contro
quello, non programma contro programma, blocco sociale
contro blocco sociale. Pasolini diceva del Pci che era un
Paese nel Paese. Il centrosinistra, al contrario, non è
vissuto nel Paese. Ecco l?oligarchia».
I girotondi
hanno dato la sveglia?
«Sono stati una
manifestazione interessante, anche se criticabile per la
cultura politica prevalente. Ma non si possono vedere
come fenomeno separato, come un fungo nato
all'improvviso. L'humus è un lungo disgelo sociale nel
quale c'è stata una semina. Il pacifismo, il femminismo,
lo zapatismo, il nuovo ambientalismo, il risveglio del
conflitto sociale. Nuove generazioni che cercano nuove
strade per fare politica. E tutti questi semi hanno dato
vita a una pianta straordinaria, il movimento dei
movimenti, da Seattle a Porto Alegre, passando per
Genova. E? incredibile quanto questo fatto sia stato
nuovo e importante, tanto che segnerà tutto il nostro
futuro, e quanto invece il centrosinistra non l'abbia
capito e l'abbia incontrato solo tardivamente: a Genova i
Ds non c'erano e non c'era nemmeno la Cgil di
Cofferati».
Ora pensa che
Cofferati diventi un interlocutore privilegiato?
«L'unico interlocutore
privilegiato è il movimento. Non contano le persone,
contano le collocazioni di ognuno rispetto a questi
movimenti emergenti e alla rifondazione della politica.
Todos caballeros».
Propugna un
ritorno a Rosa Luxemburg, allo spontaneismo, al rifiuto
della forma partito?
«Non nego un?ascendenza
culturale. Ma il problema, come dimostrano anche le
elezioni francesi, non è quello di un maquillage, di un
correttivo della politica esistente ma di una
rifondazione della politica. Non basta
spostare l'asse a sinistra. Vanno ricostruite le forme di
organizzazione, di vita, di cultura politica».
Ma intanto vince
il centrodestra.
«Per trovare il bandolo
della matassa è fondamentale il nesso tra la
quotidianità e la prospettiva. Un tempo l'appartenenza
al partito o al sindacato svolgeva un ruolo forte. Anche
se non eri soddisfatto dei risultati della lotta,
l'appartenenza e la prospettiva globale te li facevano
accettare e anche valorizzare. Era la tappa di un lungo
cammino. Oggi bisogna ritrovare quel nesso. E allora è
essenziale vincere nella difesa dell'articolo 18 dello
Statuto dei lavoratori».
Ecco di nuovo il
ruolo di Cofferati. E gli altri leader del
centrosinistra? Li giudica irrimediabilmente oligarchi?
«Irrimediabilmente non
vale mai per niente e per nessuno. La politica comprende
sempre la possibilità di redimersi dai propri peccati. E
non c'è nemmeno bisogno della confessione, basta il
cambiamento. Purtroppo, anche nelle ultime dichiarazioni
di Massimo D'Alema, vedo la conferma di una politica
neocentrista».
Quindi non spera
in una redenzione?
«La provvidenza rossa
non ha limiti. In ogni caso non mi affido alla speranza,
ma alla creazione di un nuovo soggetto politico in Italia
e in Europa».
E come dovrebbe
chiamarsi?
«Mi piacerebbe
"sinistra alternativa", con dentro, a pieno
titolo, Rifondazione Comunista».
Marco Cianca
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Bertinotti:
"Fiat, salvare loccupazione non
lautomobile"
Alla Fiat oggi più che partire
dalla salvaguardia del gruppo e dellautomobile si
deve partire dalla difesa dei posti di lavoro e
delloccupazione. Di questo problema deve essere
innanzitutto responsabilizzata lazienda torinese
che finora ha goduto di un generoso intervento pubblico e
che, tuttavia, è arrivata a questo punto. Quel che sta
avvenendo in questi giorni alla Fiat indica il fallimento
di unintera politica industriale Nella lotta
interna al mercato globalizzato, la strategia della
aziende torinese ha perso. La sua utilitaria
"globalizzata" prodotta e venduta in quelle
aree del mondo dove i poveri che non avevano
lautomobile lavrebbero finalmente acquistata
non ha avuto successo per un motivo tanto drammatico
quanto semplice. Quei paesi sono diventati più poveri,
la globalizzazione capitalistica ha ridotto il reddito
dei loro abitanti che non hanno potuto contribuire
allauspicato allargamento del mercato. Il
fallimento di oggi quindi tocca lavoro e occupazione, ma
parla dello scacco di una intera politica industriale
fondata sul finanziamento delle imprese, sulla
privatizzazione e sulla cancellazione
dellintervento pubblico nelleconomia. La Fiat
crolla, ma in Italia è la grande impresa che scompare. E
sappiamo bene quanto questa sia importante per contare
nei punti alti della divisione internazionale del lavoro.
Linternazionalizzazione per quanto ci riguarda è a
senso unico. I gruppi stranieri acquistano le grandi
imprese italiane queste vendono e si vendono. Non
cè più investimento nella ricerca né nelle
imprese pubbliche né in quelle private. La flessibilità
la possibilità di licenziamenti facili hanno impigrito
le aziende che hanno la possibilità di arricchirsi senza
fare nuovi investimenti per il futuro. Per queste ragioni
oggi riteniamo indispensabile uninchiesta
parlamentare sullo stato dellindustria italiana e
dei grandi gruppi. Essa può essere la base di partenza
per ricostruire una politica industriale in Italia e in
Europa.
da rifondazione comunista http://www.clorofilla.it/salastampa/comunicato.asp?comunicato=3282
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