Liberazione 22 gennaio 1999

Giornate agitate, confuse, impazzite, per la politica di Palazzo: una pseudo-crisi di governo, giocata con modalità incomprensibili ai più, gli scontri ripetuti tra Prodi-Veltroni e Cossiga, la decisione della Corte costituzionale di ammettere il referendum, l'aggressivo clima contro i partiti che si respira nei media e nei talk-show. Come si colloca, in tutto questo, Rifondazione comunista? Ne parliamo con Fausto Bertinotti, di ritorno dall'Havana.

Come ti è parsa l'Italia, in questi giorni, vista da Cuba?

A Cuba ho partecipato a un importantissimo convegno sulla globalizzazione, promosso dall'Associazione degli economisti latino-americani e sostenuto dal gruppo dirigente cubano: c'erano studiosi e intellettuali di tutto il mondo, personalità come Danielle Mitterrand, uomini di cultura. Fidel Castro non solo ha presieduto i lavori, ma è stato parte attiva di tutte le sedute, comprese quelle notturne, per cinque giornate di fila. Un'esperienza che, al di la del merito, ha offerto, insieme, una riflessione sui mali del mondo e un tentativo di risposta alta, non contingente. Non so se riesco a comunicare davvero l'emozione di un evento di questa natura: che poi, in concreto, ripropone le ragioni - anche quelle drammatiche - per le quali vale la pena di fare politica, ha senso rilanciare questo impegno e questa sfida. È in questo contesto che ho seguito i "rumori italiani", gli eventi politici di questi giorni. Mi ha colpito, prima di tutto, l'assenza di ogni contenuto sostanziale, di riferimenti diretti alla vita delle persone: e mi è parsa inaccettabile proprio la povertà del conflitto.

Forse, era anche l'effetto della lontananza fisica..

Forse la lontananza acuisce un certo tipo di sensazioni. Ma anche se così fosse, mi pare un'occasione da cogliere. Perché, vedi, quando ci si occupa di globalizzazione e si discute degli effetti sul mondo delle tempeste finanziarie, quando si ragiona sui disastri del neoliberismo, non ci si occupa affatto di questioni astratte o di metaproblemi: parliamo esattamente di ciò che interviene, ormai, nella realtà di tutti i giorni, della crisi sociale, dei problemi quotidiani di chi lavora e di chi non lavora. Possibile che la politica si riduca a un conflitto nominalistico su equilibri di potere o su mere strategie di gruppo? Possibile che le sue modalità si immiseriscano fino a questo punto? Io credo che siamo ormai a una vera alienazione della politica, che dobbiamo contrastare con grande forza.

Come facciamo noi, Rifondazione comunista a sfuggire a questo destino alienato, senza per questo privilegiare una "via di fuga"?

Mantenendo intera la diversità, l'alterità del nostro profilo politico noi siamo altro, ci sforziamo di essere gli interpreti di un'altra modalità dell'azione politica, che ci pare infinitamente più vicina, rispetto a quella dominante, agli interessi e ai bisogni di massa. Nell'agone politico, entriamo distinti, con il distacco che solo può consentire la denuncia - ma con la determinazione di non essere semplici spettatori.

Ritorneremo su questo punto. Intanto, però, ti domando: da dove nasce la patologia attuale? Quali sono le sue cause strutturali, e quali quelle più immediate?

C'è una ragione di fondo, che abbiamo richiamato parlando di democrazia malata: il degrado attuale della politica nasce dalla rinuncia a esercitare un'opzione strategica di società, dall'eclissi delle ideologie intese come "idee forti". La progressiva adesione della sinistra moderata al paradigma del mercato e alla ineluttabilità delle politiche neoliberiste e sfociata nel dominio della "governabilità": la dimensione del governo, anzi, tende a occupare intero lo spazio della politica e a deprimere le ragioni di fondo della contesa e del conflitto tra le classi. Una politica così ristretta non può che occuparsi di "chi" governa e "con chi", "con quali schieramenti", non certo "per che cosa".

La nascita del governo D'Alema-Cossiga non ha certo contribuito a migliorare la situazione.

La scelta della sinistra moderata della grosse Koalition, dell'alleanza col centrodestra ha certamente aggravato la malattia. Finché c'è stato il rapporto conflittuale tra centro-sinistra e Rifondazione comunista, quantomeno, al di la del compromesso che si riusciva o no a raggiungere, l'agenda politica era occupata da problemi reali - occupazione, 35 ore. C'è stata, fino a un certo punto, una dialettica tra interessi del mercato e bisogni di massa, per dirla rozzamente. Adesso, questi temi sono scomparsi, senza neppure particolari conflitti.

Colpa vostra, ci dicono ancora in molti. Se non aveste rotto con Prodi, forse oggi le cose starebbero diversamente...

Se non avessimo rotto con Prodi, saremmo semplicemente entrati, anche noi, in questo squallido teatrino politico: questo è ciò che ci è stato prospettato, dal centro-sinistra, dopo il rifiuto della svolta. Non fu, da parte di Prodi, una scelta casuale: era la definizione del rettangolo, del recinto, nel quale, da quel momento, sarebbe stato possibile giocare. Era la negazione del compromesso, faticoso e difficile, sul quale eravamo riusciti ad attestarci per due anni. Apprendo che Cossiga, adesso, annuncia di voler fare quel che abbiamo fatto noi: ma non può. Gli manca, appunto, la "diversità" di prospettiva: anche lui è parte integrante del degrado attuale della politica.

Non prendi troppo sul serio, dunque, i guai del governo, prodotti da Cossiga che tu stesso, del resto, avevi previsto pochi giorni prima?

Ovviamente, non pensavo proprio a una precipitazione degli eventi così rapida. Tuttavia, continuo a ritenere che questo governo goda di una rilevante stabilità: non è in pericolo insomma, il quadro politico. Si tratta, se mi si consente l'ossimoro, di una stabilità molto instabile, proprio per le ragioni che dicevamo sopra. Che sono strutturali (l'inceppo dello sviluppo) e che derivano anche dall'eterogeneità della coalizione (vedi la scuola e le contraddizioni che produce). E che sono anche specifiche: la contesa che si svolge oggi sul Centro apre una questione gigantesca nella geografia politica e proietta sull'esecutivo fortissime onde d'urto. Questa contesa non ha a che fare né con l'assetto della società né con i contenuti della democrazia, e non somiglia neppure a un classico conflitto tra destra e sinistra (che invece sarebbe benefico): è l'effetto di due opzioni antitetiche che convivono nella grande coalizione, una (Cossiga) che punta su un Centro autonomo, che poi stipula alleanze variabili, l'altra che vuole un Centro tutto interno al centro-sinistra. Ne derivano tattiche, culture politiche, personale del tutto diversi.

Molti hanno interpretato le tue dichiarazioni dei giorni scorsi come una sorta di "avance" a D'Alema, perché trovi la forza di sottrarsi a questa tenaglia.

Non è stata né poteva essere una proposta politica immediata: chi ha pensato che Rifondazione comunista fosse disponibile a "rientrare nel gioco", con intenti tattici e con una idea "aggiuntiva" di se stessa, lo ha fatto per scopi strumentali. Io ho parlato - e parlo - d'altro: della necessità di riaprire un processo che contrasti il degrado attuale della politica. Una proposta rivolta in primo luogo a tutti coloro che vivono il disagio e intendono opporsi al neoliberismo. Ma rivolta anche, sia pure in termini diversi, alla sinistra moderata: come può non accorgersi che, così continuando, non solo rischia di essere concausa dei mali del paese, ma di essere estromessa, nel prossimo futuro, dal quadro di governo? Nessuna ciliegina da cogliere, per Rifondazione comunista. Ma il bisogno di contrastare una deriva che rischia di essere mortale, non solo per noi e per le masse popolari.

In ultimo, non certo per importanza, la questione del referendum. Come ci dobbiamo muovere?

Intanto, dobbiamo denunciare con forza la minaccia costituita dal contenuto del referendum: che è il suggello della pessima politica oggi dominante, la stabilizzazione dell'Italia di oggi. Esso nasce, insomma, da un'ipotesi intimamente conservatrice. Al di la delle obiezioni di legittimità costituzionale, che pure potrebbero essere avanzate, ora che il referendum c'è dobbiamo soprattutto combattere - evitando in ogni modo di dare l'impressione di voler sfuggire a un pronunciamento popolare. Si tratta di armare di argomenti sostanziosi e importanti la campagna del No: non è solo un No a un quesito e a una legge elettorale, ma a questo degrado della politica, alla malattia democratica di cui soffre il paese, alle logiche del mercato e dell'impresa contro il lavoro. Allo stesso tempo, dobbiamo lavorare perché il fronte del No (e dei No) sia il più largo possibile, e coinvolga le più ampie forze possibili, comprese quelle da noi molto lontane.

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Pubblichiamo l'intervista rilasciata dal segretario del Prc,

Fausto Bertinotti, al quotidiano l'Unità.

«Accantoniamo le differenze per dare tutti assieme una risposta forte al berlusconismo». In un’intervista a "l’Unità", Fausto Bertinotti propone un’assemblea di tutti i parlamentari dell’opposizione.


A una settimana dalla manifestazione unitaria del 23 marzo, che sarà la conclusione di un mese e mezzo di mobilitazioni in tutt’Italia, e che preparerà lo sciopero generale, Fausto Bertinotti rompe un po’ gli schemi e si fa avanti con una proposta unitaria. Rivolta all’Ulivo. Cosa che non aveva mai fatto negli ultimi quattro anni. Propone una convergenza tra quelle che lui chiama, al plurale, «le opposizioni». Per dare sponda politica e parlamentare al movimento di lotta e alle battaglie sindacali. La proposta è abbastanza precisa: una assemblea dei parlamentari di tutti i partiti del centro sinistra e della sinistra, da tenere prestissimo, per vedere se si trovano dei punti comuni sui quali lavorare insieme. Senza pretendere di annullare le differenze che dividono «le due sinistre». Ma accantonandole, per dare insieme una risposta forte al «berlusconismo». Del resto, anche sulle differenze tra le due sinistre, Bertinotti crede che siano in corso molti cambiamenti, che i confini siano diventati più fluidi, più frastagliati e un po’ più labili rispetto a un anno fa.

D. Bertinotti, quali possono essere i punti comuni sui quali convergere?


R.«Vedo la necessità di una azione su tre piani. Il piano parlamentare, quello programmatico e quello politico. Sul piano parlamentare la mia proposta è semplicissima: organizzare l’ostruzionismo contro la legge per la modifica dell’articolo 18. Io credo che le sinistre debbano dare sponda al movimento sindacale. Senza strumentalizzarlo, senza forzarlo. Per carità, quello sarebbe un errore gravissimo. Per esempio se noi cercassimo di presentare lo sciopero generale come uno sciopero politico, uno sciopero per mandare via Berlusconi, faremmo una sciocchezza.. Però si devono trovare delle sinergie tra lotta sindacale e lotta di opposizione in Parlamento. L’ostruzionismo penso che sia l’idea giusta».

D. E sul piano del programma?


R.«Dobbiamo trovare una piattaforma comune. Che ci permetta di essere efficaci sui temi fondamentali. Io credo che potremmo decidere una vera e propria stagione referendaria. Non solo per difenderci dall’attacco della destra, ma per contrattaccare. Il primo referendum secondo me dovrebbe essere per ottenere l’allargamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (cioè del divieto di licenziamento senza giusta causa) anche alle aziende con meno di 15 dipendenti. Io faccio questo ragionamento: il fatto che l’articolo 18 protegga solo una parte della classe lavoratrice è il punto debole. Infatti la destra attacca qui. Cerca di fomentare la divisione sociale. E’ qui che deve passare la controffensiva. Partendo da una ovvietà: in questi anni è cambiata la struttura industriale e produttiva. E’ cambiato il rapporto quantitativo tra grande impresa e impresa medio-piccola. Nei primi anni ’70, quando fu varato lo Statuto, le aziende sotto i 15 dipendenti non erano la spina dorsale del sistema».

D. Tu dici una stagione di referendum...


R.«Sì, credo che dovremmo promuoverne tanti, usarli come strumento di lotta: sulle rogatorie, sul conflitto di interessi (se loro insisteranno sulla legge-beffa) e poi anche su temi più generali, magari non strettamente legati alle battaglie di politica interna. Per esempio sulla Tobin Tax. E partire da qui per trovare convergenze tra Ulivo e sinistra radicale anche sul piano politico. Nel senso che credo che dobbiamo lavorare per costruire dialogo, convergenze e azioni comuni coi grandi movimenti che sono in campo. Il movimento che viene chiamato no-global, il movimento sindacale e anche tutto il movimento dei girotondi che ha smosso nell’ultimo mese le acque del centro-sinistra».

D. Che giudizio dai su questi movimenti e su come stanno "strattonando" la politica italiana?


R.«Il movimento no-global non solo ha portato nella nostra politica nuove idee e nuova linfa. Ma ha avuto un effetto "moltiplicatore" per molti altri protagonismi. E’ come se avesse fertilizzato il terreno, e su questo terreno chiunque butta un buon seme lo vede germogliare in fretta, mentre fino a qualche tempo fa il seme moriva bruciato. E così abbiamo visto la ripresa vigorosa del conflitto sociale, abbiamo visto uno dopo l’altro nascere nuove organizzazioni e nuovi movimenti democratici che vengono dalla società civile, abbiamo visto persino il centro sinistra tornare in piazza».

D. Ma tu dici che le sinistre restano due. Non ti pare una cosa innaturale? «Poteva essere logico che fossero due quando una era al governo e l’altra aveva scelto l’opposizione. Ora sono tutte e due all’opposizione, che senso a dividersi?


R.«Il fatto che una delle due sinistre governasse e l’altra no era un l’effetto della divisione, non era la causa. La ragione della divisione era il giudizio che si da su questa globalizzazione. Il centro-sinistra (non solo quello italiano, il centro-sinistra di tutto il mondo) ha pensato che questa globalizzazione potesse essere utilizzata come fattore progressista. Cioè che avesse in se un nucleo vitale, di modernizzazione, e che valorizzando questo nucleo si potessero temperare le politiche liberali e governare da sinistra la modernizzazione. L’altra sinistra, chiamiamola radicale - della quale noi facciamo parte - ha pensato che questa globalizzazione fosse contro la modernità, e fosse qualcosa che trasformava l’eccezionale potenziale innovativo di cui si dispone, anziché in progresso in arretramento sociale. Fino alla demolizione del compromesso sociale e democratico che era stato la base della vita politica in occidente nella seconda metà del 900. Vedi, non parlo di due sinistre per un capriccio. La divisione è molto netta e molto politica».

D. Da qualche mese però mi pare che su tutti questi temi la discussione si sia riaperta a 360 gradi. Non è così?


R.«Ci sono delle notevoli novità per via dell’affermarsi del movimento no-global. Questo movimento ha fatto saltare tutti gli schemi. Ha messo in circolazione un’enorme quantità di politica. Ha rotto i confini, le linee di contrasto tra le due sinistre. O almeno le ha molto fluidificate. Anche perché è un movimento che raccoglie culture politiche lontane tra loro, e certamente non tutte interne allo schema della sinistra radicale. Il movimento ha fatto irruzione anche dentro quella che io chiamo "sinistra liberale", ha riaperto la discussione, il dialogo. Diciamo che le sinistre restano due, ma che sono molto aumentate le possibilità di dialogo. Il movimento no-global ha posto due discriminanti. Il no alla guerra e il no al neoliberismo. Sono la coordinata e l’ascissa: dentro c’è una gigantesca tavola cartesiana dentro la quale la sinistra può ricostruirsi».

D. Che giudizio dai sulla destra?


R.«Mi sembra che la linea scelta sull’articolo 18 costituisca una novità. Cambia il panorama. O almeno ci fornisce elementi di giudizio di cui prima non disponevamo. Non era, per me, così prevedibile la decisone del governo - dopo le mezze aperture dei giorni scorsi - di confermare la linea dura sull’articolo 18. Io mi aspettava quella che a scacchi si chiama la "mossa del cavallo". E cioè un colpo di teatro che scompaginasse gli oppositori e permettesse alla maggioranza di transitare lungo una linea ambigua. E invece, quando aveva sul piatto anche la possibilità di dividere i sindacati, di ottenere risultati politici di un certo rilievo, Berlusconi ha scelto la via dello scontro frontale. Anche a costo di ricompattare i sindacati e gli oppositori. E a costo di schierare le truppe su un fronte che non ammette armistizi o pareggi: i vince il governo o vincono i sindacati. Perché?, mi chiedo. Per tenere fede alle promesse verso la Confindustria? Non credo: anche la Confindustria era divisa. E allora? Io vedo una ragione di fondo: l’idea di importare il thatcherismo in Italia. Con tre obiettivi, legati l’uno all’altro Sconfiggere i lavoratori è il primo. Il secondo è sconfiggere i sindacati, demolirli. Perché il progetto di relazioni industriali non prevede la presenza pesante dei sindacati. Il terzo obiettivo è quello di rimettere in discussione tutto il sistema contrattuale italiano. Romperlo. Passando per l’abolizione del contratto nazionale di categoria, cioè dell’ultimo baluardo che aveva resistito tutti questi anni. E’ questa la sfida. Altrimenti non si spiegherebbe tanto accanimento».

D. Vengono in mente i primi anni della Thatcher e di Reagan. Anche la Thatcher e Reagan iniziarono con una sfida. La Thatcher ai minatori, Reagan ai controllori di volo. E vinsero.


R.«E’ inutile negarlo, il rischio c’è. Il rischio della sconfitta. Bisogna esserne consapevoli. Per questo credo che sia necessario unire le forze e contrattaccare. Uscire dalla rassegnazione, dalla subalternità. Dare sponda alla forza dei movimenti, e giocare anche noi tutto, per vincere la battaglia».

Piero Sansonetti (sabato 16 marzo 2002)

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Corriere della Sera, 13 maggio 02
INTERVISTA A BERTINOTTI


Non mi affido alla speranza, ma alla creazione di una realtà inedita: potrebbe chiamarsi "Sinistra alternativa"» Bertinotti: Rifondazione pronta a far parte di un nuovo soggetto politico

ROMA - E' difficile definire Fausto Bertinotti un ingeneroso oligarca. Ma, se il vestito cucito da Sergio Cofferati mal gli si attaglia, a quali leader della sinistra va a pennello?
«Per prima cosa - risponde il segretario di Rifondazione Comunista - bisogna precisare che di sinistre ce ne sono almeno due. Altrimenti si fa una gran confusione e tutti i gatti sono grigi».

Qual è la differenza di fondo?


«La divaricazione radicale si è prodotta rispetto alla nuova scena post novecento, successiva al crollo dei regimi dell?Est, occupata da quella fase del capitalismo che chiamiamo globalizzazione. Le scelte sono state profondamente diverse. Da una parte c?è stata la terza via, da Clinton a Blair passando per il centrosinistra italiano, dall?altra una sinistra critica che non non ha ritenuto che si dovesse essere più moderati ma anzi più radicali e alternativi».

Torniamo agli oligarchi...


«E? un problema che esiste, come si vede dalla formazione, priva di qualsiasi procedura democratica e partecipativa, delle candidature alle amministrative e delle leadership. Ma è un effetto, non una causa della crisi del centrosinistra».

In che senso?


«E? l?effetto combinato di due fattori. Il primo, e più importante, riguarda l'alienazione da parte del centrosinistra dell'idea, secondo la quale la politica nasce nella società, nel rapporto con i movimenti e con la dinamica del conflitto di classe, per nulla scomparso, ma che si declina su un terreno nuovo e persino inedito. Il centrosinistra è stata l'idea ultima, sfibrata, dell'autonomia della politica».

I politici chiusi in una torre d'avorio?


«I politici chiusi nelle loro istituzioni, separate dalle società che diventano sempre meno democratiche perché divorate dalla globalizzazione che alloca diversamente i centri decisionali portandoli nelle segrete stanze del Wto o del G8. E' la rinuncia a un punto di vista critico della società e della rivoluzione capitalistica.
Sei divorato da quest'ultima e ridotto a un'appendice della stessa che è a-democratica e produttrice della morte della politica. Sei oligarchico perché aderisci a una rivoluzione regressiva che trasforma tutte le democrazie in oligarchie e quindi ne subisci la sorte».

Questo è il primo dei due fattori di crisi cui accennava. L'altro?


«Il centrosinistra ha accettato la tesi politicistica dello sblocco del sistema politico. Ha creduto alla fine del fattore K. Non si è reso conto che era una bufala. Hanno pensato che, se si faceva il maggioritario e si costruiva l'alternanza, siccome il centrosinistra era il maggiore interprete di questa modernizzazione, sarebbe stato il candidato vincente. In questa logica ha accettato fino in fondo la spettacolarizzazione della politica, il leaderismo, la personalizzazione dell'alternanza, il carattere prevalentemente televisivo del confronto, questo contro quello, non programma contro programma, blocco sociale contro blocco sociale. Pasolini diceva del Pci che era un Paese nel Paese. Il centrosinistra, al contrario, non è vissuto nel Paese. Ecco l?oligarchia».

I girotondi hanno dato la sveglia?


«Sono stati una manifestazione interessante, anche se criticabile per la cultura politica prevalente. Ma non si possono vedere come fenomeno separato, come un fungo nato all'improvviso. L'humus è un lungo disgelo sociale nel quale c'è stata una semina. Il pacifismo, il femminismo, lo zapatismo, il nuovo ambientalismo, il risveglio del conflitto sociale. Nuove generazioni che cercano nuove strade per fare politica. E tutti questi semi hanno dato vita a una pianta straordinaria, il movimento dei movimenti, da Seattle a Porto Alegre, passando per Genova. E? incredibile quanto questo fatto sia stato nuovo e importante, tanto che segnerà tutto il nostro futuro, e quanto invece il centrosinistra non l'abbia capito e l'abbia incontrato solo tardivamente: a Genova i Ds non c'erano e non c'era nemmeno la Cgil di Cofferati».

Ora pensa che Cofferati diventi un interlocutore privilegiato?


«L'unico interlocutore privilegiato è il movimento. Non contano le persone, contano le collocazioni di ognuno rispetto a questi movimenti emergenti e alla rifondazione della politica. Todos caballeros».

Propugna un ritorno a Rosa Luxemburg, allo spontaneismo, al rifiuto della forma partito?


«Non nego un?ascendenza culturale. Ma il problema, come dimostrano anche le elezioni francesi, non è quello di un maquillage, di un correttivo della politica esistente ma di una rifondazione della politica. Non basta
spostare l'asse a sinistra. Vanno ricostruite le forme di organizzazione, di vita, di cultura politica».

Ma intanto vince il centrodestra.


«Per trovare il bandolo della matassa è fondamentale il nesso tra la quotidianità e la prospettiva. Un tempo l'appartenenza al partito o al sindacato svolgeva un ruolo forte. Anche se non eri soddisfatto dei risultati della lotta, l'appartenenza e la prospettiva globale te li facevano accettare e anche valorizzare. Era la tappa di un lungo cammino. Oggi bisogna ritrovare quel nesso. E allora è essenziale vincere nella difesa dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori».

Ecco di nuovo il ruolo di Cofferati. E gli altri leader del centrosinistra? Li giudica irrimediabilmente oligarchi?


«Irrimediabilmente non vale mai per niente e per nessuno. La politica comprende sempre la possibilità di redimersi dai propri peccati. E non c'è nemmeno bisogno della confessione, basta il cambiamento. Purtroppo, anche nelle ultime dichiarazioni di Massimo D'Alema, vedo la conferma di una politica neocentrista».

Quindi non spera in una redenzione?


«La provvidenza rossa non ha limiti. In ogni caso non mi affido alla speranza, ma alla creazione di un nuovo soggetto politico in Italia e in Europa».

E come dovrebbe chiamarsi?


«Mi piacerebbe "sinistra alternativa", con dentro, a pieno titolo, Rifondazione Comunista».

Marco Cianca

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Bertinotti: "Fiat, salvare l’occupazione non l’automobile"

Alla Fiat oggi più che partire dalla salvaguardia del gruppo e dell’automobile si deve partire dalla difesa dei posti di lavoro e dell’occupazione. Di questo problema deve essere innanzitutto responsabilizzata l’azienda torinese che finora ha goduto di un generoso intervento pubblico e che, tuttavia, è arrivata a questo punto. Quel che sta avvenendo in questi giorni alla Fiat indica il fallimento di un’intera politica industriale Nella lotta interna al mercato globalizzato, la strategia della aziende torinese ha perso. La sua utilitaria "globalizzata" prodotta e venduta in quelle aree del mondo dove i poveri che non avevano l’automobile l’avrebbero finalmente acquistata non ha avuto successo per un motivo tanto drammatico quanto semplice. Quei paesi sono diventati più poveri, la globalizzazione capitalistica ha ridotto il reddito dei loro abitanti che non hanno potuto contribuire all’auspicato allargamento del mercato. Il fallimento di oggi quindi tocca lavoro e occupazione, ma parla dello scacco di una intera politica industriale fondata sul finanziamento delle imprese, sulla privatizzazione e sulla cancellazione dell’intervento pubblico nell’economia. La Fiat crolla, ma in Italia è la grande impresa che scompare. E sappiamo bene quanto questa sia importante per contare nei punti alti della divisione internazionale del lavoro. L’internazionalizzazione per quanto ci riguarda è a senso unico. I gruppi stranieri acquistano le grandi imprese italiane queste vendono e si vendono. Non c’è più investimento nella ricerca né nelle imprese pubbliche né in quelle private. La flessibilità la possibilità di licenziamenti facili hanno impigrito le aziende che hanno la possibilità di arricchirsi senza fare nuovi investimenti per il futuro. Per queste ragioni oggi riteniamo indispensabile un’inchiesta parlamentare sullo stato dell’industria italiana e dei grandi gruppi. Essa può essere la base di partenza per ricostruire una politica industriale in Italia e in Europa.

da rifondazione comunista http://www.clorofilla.it/salastampa/comunicato.asp?comunicato=3282