La guerra preventiva dello sniper di Washington
di lanfranco caminiti http://web.tiscali.it/lanfrancoonline



"Shooting people of all ages, all races, all genders": colpire gente di
ogni età, razza, genere. Nelle parole di Charles Moose, capo della
polizia della Contea di Montgomery, c'è tutta l'orribile sintesi di uno
stupore, un'impotenza, una rabbia, un dolore che non trova fili,
ragioni, metodi, modi, di fronte alla serie di omicidi che il cecchino
di Washington continua implacabilmente a eseguire. La cronaca, i
romanzi, il cinema, la televisione ci hanno abituato a morti seriali di
neri, di bambini, di donne, di ispanici, di bianchi, di gay, uccisi per
il colore della pelle, per il sesso, per la classe sociale, persino per
la taglia degli abiti o perché tifavano per i Mets o per i Dolphins. Qui
siamo di fronte a qualcosa di spaventosamente nuovo, di sistematico, di
sistematicamente spaventoso: è già successo che qualcuno sia salito sul
tetto di un edificio e si sia messo a sparare all'impazzata contro tutto
ciò che si muovesse. Ma mai quest'intenzione - colpire la vita a caso -
era diventata sistema seriale, macchina per uccidere come capita.
Lo prenderanno, speriamo. Ma qualcosa di spaventosamente nuovo è
accaduto e forse irrimediabilmente, irreversibilmente. Qualcosa che
riguarda tutti. Ci sono delitti orribili, episodi criminali che segnano
epoche storiche, che fanno da spartiacque, che vivono di quell'epoca e
la stravolgono: così, a esempio, è stato per Charles Manson e la sua
Family e la dorata e meravigliosa California degli anni sessanta, degli
hippies, dei figli dei fiori. E' l'estate del 1969. Nixon è da pochi
mesi il nuovo presidente degli Stati uniti. Mezzo milione di soldati
americani combatte in Vietnam, mentre l'immagine di Neil Armostrong che
passeggia sulla luna fa il giro delle televisioni di tutto il mondo e si
incide per sempre nei nostri occhi. Da appena una settimana è finita la
leggendaria tre giorni di Woodstock. I ragazzi di Manson entrano nella
villa di Sharon Tate e massacrano l'attrice e i suoi cinque amici, poi
uccideranno ancora e ancora. Finisce un'epoca.
Credo che lo stesso stia accadendo, accadrà con lo sniper di
Washington.  Per una volta mi viene da dire, senza sentire la venatura
ipocrita dell'intenzione, "siamo tutti americani".

Jack the Sniper
Jack the Sniper è anche un serial killer e un terrorista, eppure
propriamente non è un serial killer né un terrorista. Non è Jeff Dahmer,
il cannibale di Milwaukee e della sua casa degli orrori, non è David
Berkowitz, il "Son of Sam" che nel 1997 terrorizzò New York, e non è
Theo Kaczynski, l'ex professore universitario Unabomber che per 17 anni
mandò in giro dalla sua casetta sperduta nel Montana pacchi bomba mirati
a scienziati e tecnici, uccidendoli o ferendoli, in nome della sua lotta
contro la tecnologia disumanizzante. Jack the Sniper viene dopo l'11
settembre, dopo il più terribile atto terrorista della storia in cui
hanno perso la vita uomini, donne, neri, ispanici, ebrei, manager,
broker, analisti e personale delle pulizie, senza riguardo per l'età, la
razza, il sesso: colpevoli solo d'essere lì, americani. Proprio come le
vittime del cecchino: colpevoli solo d'essere lì, americani. In questo
senso, le ripetute osservazioni della gente comune ma anche di
opinionisti e tecnici sulla possibilità che il cecchino sia propriamente
un terrorista [o un gruppo di terroristi] esprime ben più che una paura:
è una consapevolezza. Qualcosa che non si riesce neppure a dire, a
definire con esattezza: il killer seriale ha rotto gli argini delle sue
patologie e ossessioni private per uccidere pubblicamente, per uccidere
socialmente. Per uccidere politicamente. La sua patologia è diventata
cosa pubblica, la sua patologia è diventata politica. Un uomo solo sta
paralizzando la più grande potenza del mondo, della storia, sta
ossessionando i sonni e i pensieri dei potenti e della gente qualunque,
sta condizionando gli atti d'un impero, la vita quotidiana d'un impero:
la viabilità, gli uffici, le scuole, le poste. Sta interrogando un
impero. Come non è riuscito a fare bin Laden. Forse - ammesso non sia
apocrifo - l'espressione più vicina al senso di quello che sta accadendo
si trova in quel biglietto ritrovato vicino uno dei luoghi dove il
cecchino ha colpito: "Ehi, poliziotto, io sono Dio".

Lo sniper e il kamikaze
L'idea della potenza devastante del proprio corpo come macchina per
uccidere incondizionatamente è propria dello "shahid", del martire
islamico che imbottisce la sua pancia di tritolo e si va a far saltare
dove la gente si affolla. Un delirio di devastazione motivato
soprattutto religiosamente: il martire restituisce a Dio - solo
"padrone" del suo corpo e in nome del quale il suo corpo agisce - il
potere sulla vita e sulla morte. E' stato un pensiero che ha
attraversato per lungo tempo il movimento degli oppressi, dei reietti:
il martire politico, il bombarolo, il narodniki, il terrorista, il
pugnalatore di re e principi, motivava soprattutto politicamente il suo
destino di distruzione e autodistruzione facendo delle sue proprie
membra la "longa manus" d'un corpo sociale che si vendicava d'un
sopruso, d'una strage, d'una condizione insopportabile. Il martire
politico sottraeva il proprio corpo al potere - d'un sovrano, d'un
sistema - e lo restituiva al "popolo".
Per il kamikaze non ci sono innocenti, tutti sono colpevoli, sono suoi
nemici, per il solo fatto di appartenere a qualcosa d'altro, a qualcosa
che lui combatte, contro cui il suo popolo e la sua religione stanno
schierati. Il martire è guerriero d'una guerra supposta e combatte altri
guerrieri supposti: la sua guerra è una guerra senza "vittime", solo
nemici.
Lo sniper sembra invece voler colpire ciascuno e tutti proprio "in
quanto" innocenti, in quanto pura e semplice vita, pura "forma di vita".
Un serial killer rende colpa pubblica un carattere privato, un "male
pubblico" di cui si è inconsapevoli portatori solo nella sua ossessione
patologica, l'essere gay, l'essere donna e disponibile al mondo,
l'essere giovane. Lo sniper è indifferente ai suoi nemici, alle sue
vittime: è il suo mirino di cannocchiale che sceglie sulla base d'una
maglietta ben visibile, d'una posizione favorevole, d'una luce che si
proietta in un angolo, d'un cappellino che si inquadra facilmente. Non
c'è alcuna relazione affettiva, sentimentale, passionale, carica d'odio
con il bersaglio. Il cecchino dell'immaginario collettivo - quello delle
guerre e delle loro efferatezze -, quello che al riparo d'una fessura
inquadrava e mirava contro i nemici nella sua guerra di trincea - e fino
a poco tempo fa, in Bosnia, in Kosovo -, aveva un mostruoso alone d'arte
dell'uccidere. Ma se non eri nell'altra trincea, se non eri dalla parte
sbagliata del fucile, non eri un suo bersaglio. Qui, invece, siamo tutti
bersagli. Lo sniper di Washington è pura serialità, semplice sistema di
annientamento preventivo.
La guerra preventiva dello sniper contro la vita qualunque, contro
qualunque vita, sembra aver introiettato il gesto terrorista all'ammasso
e la guerra preventiva di Bush e del suo staff di consiglieri - quella
che ha rotto l'argine del biblico "richiederai vita per vita, occhio per
occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, ustione per
ustione, ferita per ferita, lividura per lividura" [Esodo, 21,24]:
laddove ogni forma di politica, d'una leadership, d'uno Stato, d'un
gruppo sociale, può minacciare l'esistenza dell'impero e va colpito,
abbattuto "prima", perché è già pericolo, nella follia di Jack the
Sniper ogni forma di vita va preventivamente abbattuta, singolarmente
abbattuta. Jack the Sniper combatte la sua guerra preventiva contro la
vita, qualunque vita. Qualunque vita gli è ostile, nemica: "people of
all ages, all races, all genders". Siamo tutti bersagli. "Ehi, io sono
Dio".

The Hyper Sniper
C'è stato - e c'è tuttora - un diffuso convincimento che esistano
delitti "europei" e delitti "americani", come a rispecchiare le
insistite differenze di storia, di cultura, di vita quotidiana, di
patologie. Per molti versi, si è guardato - e si continua a guardare -
ai delitti "europei" come a uno stato precedente, in una catena
evolutiva, quello dei delitti "americani", considerando questi come una
esasperazione - sociale, economica, patologica - attuale e futuristica
insieme di contraddizioni che qui nel vecchio continente non assumono
quella forma. E nello stesso tempo, i delitti "americani" sono sembrati
spesso una chiave di lettura per qualcosa che in Europa appariva qui e
là, che incubava, quindi anche un destino ineluttabile che avrebbe
accompagnato l'ineluttabilità delle similitudini di sistema, di vita.
L'apparire di episodi sempre più similari ha però fortemente incrinato
questa linea di distinzione: così è per i suicidi collettivi di sette
esoteriche [i 912 membri della setta del "Tempio del Popolo" fondata del
reverendo Jim Jones che si suicidano in Guayana equivalgono i 54 adepti
della setta del "Tempio del Sole" rinvenuti morti o carbonizzati in uno
chalet in Svizzera e in un altro nei pressi di Grenoble e questi, a loro
volta, equivalgono le 39 persone, che appartenevano alla "Porta del
Paradiso" e si suicidano in una villa di San Diego, in California.
sostenendo di essere angeli scesi sulla Terra da un altro pianeta, dove
avevano deciso di far ritorno]. Così è anche per i serial killer e le
stragi senza senso in scuole o luoghi pubblici, e per lo stesso scambio
di competenze e ritrovati tecnici per le indagini. Suonerebbe come una
battuta volgare dire d'una globalizzazione del delitto: in realtà, poi,
la globalizzazione del crimine è qualcosa che è sempre esistita da
quando il crimine ha assunto i caratteri della modernità: qualsiasi
organizzazione criminale [dalla mafia alla triade cinese, dai cartelli
colombiani della droga alle speculazioni finanziarie] ha sempre avuto i
caratteri dell'esportabilità e nello stesso tempo della differenza,
della specificità. Ma ora, ovviamente, si parla di qualcosa d'altro,
qualcosa legato all'esplosione della follia individuale, al passaggio da
una patologia accumulata lentamente verso forme quotidiane, improvvise o
resistenti, di delittuosità.
Non è tanto l'efferatezza il carattere distintivo tra un luogo e
l'altro, tra una società e l'altra: la casa degli orrori di Rochester
non è poi molto diversa da quella di Milwaukee e da quella di Andrei
Chikatilo, il cannibale russo, e la saponificatrice di Correggio
preparerà biscottini all'inferno per Jeff Dahmer e per Charles Manson e
l'inglesissimo dottore Harold Shipman scambierà opinioni tra le fiamme
sulle sue 297 vittime con il nazistissimo Mengele o qualcuna delle
infermiere svizzere, austriache o comasche che hanno operato in proprio,
saltando il giuramento di Ippocrate.
E però è anche vero che almeno finora nella cronaca, nella letteratura,
nel cinema, nell'immaginario e nella realtà - anche quella operativa
delle investigazioni di polizia -, il delitto "europeo" è legato alla
personalizzazione del rapporto tra vittima e assassino e il delitto
"americano" è più legato a un carattere impersonale - pur se non
direttamente sociale - della relazione. Sempre in riferimento
all'immaginario - ma anche nella realtà - l'investigatore europeo ha
dalla sua l'accumulazione d'esperienza minuta e l'intuito come arma
formidabile nelle indagini, mentre l'investigazione americana lavora
soprattutto sugli elementi scientifici - e non solo sulle straordinarie
tecnologie -, quanto proprio su un metodo ordinativo che si oppone alla
serialità casuale, che individua e costruisce ordine nella follia.
La vera efferatezza del crimine europeo è sempre stata storicamente la
guerra: non c'è cannibalismo paragonabile a quello che ha attraversato -
e ancora attraversa - il suolo e il sangue dell'Europa, dove fratelli
d'un giorno prima diventano carnefici e vittime del giorno dopo.
L'efferatezza del crimine americano [il suo gigantismo, la sua quantità]
si manifesta invece nella quotidianità sociale. Accade ora, a me sembra,
che se per un verso assistiamo a una sorta di "americanizzazione del
delitto europeo" [la serialità, l'impersonalità del rapporto fra
carnefice e vittima], per un altro verso, forse, c'è una sorta di
"europeizzazione del delitto americano", ovvero l'interiorizzazzione del
carattere della guerra, il "nemico interno". Ne sono stati segnali
inquietanti, prima dello sniper di Washington, la diffusione
dell'antrace via posta [questione senza soluzione investigativa, almeno
pubblicamente nota] e la consegna di tubi di dinamite dentro le cassette
postali di sperduti paesini della Sun Belt [acciuffato l'autore].
Non credo sia irrilevante in questo il fatto che le terribili immagini
dell'11 settembre - del suolo americano colpito - siano anche similili a
uno dei tanti orribili atti di guerra che hanno costellato la storia
europea  [Dresda? Coventry?]. La consapevolezza della guerra come cosa
vicina, quotidiana, vissuta accanto. La fine d'ogni cintura protettiva.
La consapevolezza del terrorismo come atto moderno di guerra che uccide
indiscriminatamente. La consapevolezza della risposta di guerra che
bombarda ciecamente considerando qualunque cosa si muova su quel
territorio nemico come un nemico.
Jack the Sniper è la prima figura "trasversale": è un serial killer, è
un terrorista, è un guerriero, è uno qualunque: è europeo e americano.
E' quantitativamente eccessivo, hyper, è qualitativamente eccessivo,
connettendo guerra e assassinio, di qua e di là, è hyper. E' the hyper
sniper.
Speriamo lo prendano presto. Non so se tireremo un sospiro di sollievo o
inizierà una nuova angoscia.