LA RIVINCITA POSTUMA DEL PENTITO BUSCETTA

di GIOVANNI BIANCONI

ROMA - Al di là dell’oceano, in una località segreta dello Stato della Florida, Tommaso Buscetta parlò ai giudici di Palermo il 6 aprile ’93. Parlò anche dell’omicidio di Mino Pecorelli, giornalista che navigava tra i servizi segreti e il sottobosco politico romano, fondatore e direttore della rivista «O.P.», ammazzato in una strada della capitale il 20 marzo 1979. Omicidio misterioso, che don Masino ricostruì sulla base delle confidenze ricevute fra l’80 e l’82 dai boss mafiosi Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti. «In base alla coincidente versione dei due - rivelò Buscetta -, quello di Pecorelli fu un delitto politico voluto dai cugini Salvo in quanto a loro richiesto dall’onorevole Andreotti». «Secondo quanto mi disse Badalamenti - affermò ancora Buscetta -, sembra che Pecorelli stesse appurando "cose politiche" collegate al sequestro Moro».
Da quelle dichiarazioni - successivamente corrette e «precisate» in base ai ricordi - sono trascorsi quasi dieci anni di inchieste, processi, polemiche e colpi di scena, ma alla luce del verdetto di ieri il «caso Pecorelli» si può riassumere tutto nelle poche frasi di Buscetta. In attesa delle motivazioni che spiegheranno il percorso seguito dai giudici per condannare Andreotti e Badalamenti assolvendo tutti gli altri imputati, quel che si può dire fin d’ora è che hanno creduto a Buscetta, e solo a lui. Hanno ritenuto riscontrate le sue accuse, a differenza di quelle giunte da molti altri pentiti, di mafia e non.
Don Masino è morto due anni e mezzo fa, negli Stati Uniti, dopo una lunga malattia e dopo le assoluzioni di Andreotti nei processi di primo grado - a Perugia a Palermo, dov’è imputato di associazione mafiosa - nei quali rappresentava il principale testimone d’accusa. Testimone ritenuto insufficiente, anche se non bugiardo. La sentenza di ieri rappresenta dunque una sorta di riabilitazione postuma del primo pentito di Cosa Nostra. Primo e ultimo, viene da dire oggi, visto che alla fine le condanne riguardano esclusivamente le persone «chiamate» da lui.
Non siamo alla sentenza definitiva, e nuovi ribaltoni sono possibili, ma intanto siamo a una «verità giudiziaria» incardinata sulle parole dell’uomo che decise di rivelare a Giovanni Falcone i segreti di Cosa Nostra. Fino a un certo punto però. Ci volle la strage di Capaci e la morte dello stesso Falcone (23 maggio 1992) per far riaprire il libro dei misteri mafiosi custodito da Buscetta. Dopo quell’eccidio decise di dire anche ciò che aveva taciuto al giudice divenutogli amico, mettendo a verbale le accuse contro il presunto «referente romano» di Cosa Nostra: il sette volte presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Compresa quella di essere il mandante dell’omicidio Pecorelli, eseguito da sicari inviati da don Tano Badalamenti.
Da Palermo, i verbali di Buscetta furono dirottati a Roma, dove l’inchiesta sul delitto del giornalista stava ammuffendo in archivio. Il Gran Maestro della P2 Licio Gelli e un paio di terroristi neri erano stati inquisiti e prosciolti in istruttoria, lasciando quella morte senza colpevoli. Il fascicolo fu riaperto sulla base delle dichiarazioni di Buscetta, e fu riaperto anche il «caso Moro», possibile movente del delitto. Anche l’assassinio del generale dalla Chiesa, aveva rivelato don Masino, andava ricercato nei lati oscuri del sequestro del leader democristiano rapito e ucciso dalle Brigate rosse: «Pecorelli e dalla Chiesa sono cose che s’intrecciano fra loro».
Il fondatore di
O.P. , che coi suoi articoli lanciava continui messaggi, aveva dimostrato di essere a conoscenza di parti del memoriale scritto da Moro nella «prigione del popolo» rimaste segrete nel 1978 e venute alla luce solo nel ’90. Parti che all’epoca sarebbero state occultate perché non gradite a Giulio Andreotti. Di qui la necessità di eliminare Pecorelli, per sfuggire ai suoi ricatti. Questa - in soldoni - l’accusa messa insieme dai pubblici ministeri romani che però dovettero cedere l’inchiesta ai colleghi di Perugia; un pentito della Banda della Magliana, gruppo criminale che si muoveva tra Servizi segreti, mafia, camorra e terrorismo nero come i pesci nell’acqua, aveva infatti svelato che dietro l’omicidio Pecorelli c’era il magistrato romano, poi senatore democristiano «fedelissimo» di Andreotti, Claudio Vitalone. Altri pentiti di quella stessa banda fecero i nomi dei killer: l’ex-terrorista riciclato nella criminalità comune Massimo Carminati e un siciliano arrivato per l’occasione da Palermo, tale «Angiolino il biondo», riconosciuto in fotografia nel mafioso Michelangelo La Barbera. Con in più un elemento materiale molto suggestivo, già acquisito agli atti dell’inchiesta: il proiettile che uccise Pecorelli proveniva quasi certamente da un arsenale clandestino usato da terroristi neri e Banda della Magliana.
La saldatura tra l’indicazione del killer mafioso e le dichiarazioni di Buscetta permise di costruire la catena dell’accusa da Andreotti ai sicari, attraverso una serie di anelli intermedi, tra i quali un altro «uomo d’onore» dai solidi legami romani, Pippo Calò. Accusa che però non resse al processo di primo grado: tutti assolti. Perché non c’erano prove dirette, non perché i pentiti avessero mentito. Lo stesso Don Masino, sicuro delle sue affermazioni, non era convinto del coinvolgimento di Calò e La Barbera, e lo disse. Ora i giudici d’appello hanno deciso di credergli e di considerare riscontrate solo le sue dichiarazioni, spezzando in due la catena dell’accusa. La parte romana della ricostruzione è caduta, quella siciliana è rimasta. Perché è possibile individuare i mandanti di un delitto senza arrivare agli esecutori, soprattutto quando c’è di mezzo la mafia. Quella raccontata da Tommaso Buscetta.

Giovanni Bianconi

Cossiga: da oggi in Italia è più prudente stare a casa

«Mi auguro che sia istituita una bicamerale per le riforme del sistema giudiziario»

ROMA - Due mesi fa non aveva nascosto l’indignazione, definendo la richiesta dei pm «un’autentica e smisurata vergogna». Ieri, un attimo dopo la notizia della condanna, una valutazione ulteriore, scandita e ripetuta più volte: «Da oggi in Italia è più prudente tacere». Francesco Cossiga esterna sgomento, irritazione, preoccupazione. Ma soprattutto, come sempre, condisce la denuncia con il proverbiale sarcasmo. La «protervia» dei pubblici ministeri, a settembre, era la riprova «dell’assoluta necessità di una revisione radicale dell’ordinamento giudiziario». Oggi, «anche se da questo momento è più prudente tacere e non voglio essere arrestato», un motivo in più per reiterare un’idea che l’ex presidente della Repubblica coltiva da tempo: «Mi auguro che il mio appello per l’istituzione di una commissione bicamerale per le riforme in materia di giustizia sia finalmente accolto, altrimenti forse sarà più prudente lasciare il nostro Paese».


Nessuna fiducia in questa magistratura?


«Il nostro sistema di giustizia, come anche di recente ha affermato il signor presidente della Repubblica, è un sistema in cui tutti gli italiani devono avere piena e completa fiducia. Attendo con serenità una nuova pastorale del capo dello Stato».


Lei però non fa parte degli italiani, sembra di capire.


«Attendo solo le parole sagge, come sul fumo e sul pecorino sardo, del capo dello Stato. Io ho solo fiducia nella magistratura, nel capo dello Stato e nella consorte del capo dello Stato. Attendo con trepidazione una nuova pastorale del capo dello Stato, questa volta sulla giustizia».


Perché Ciampi dovrebbe intervenire?


«Perché interviene su tutto, non vedo perché non anche su questo».


Cosa dovrebbe dire?


«Un largo plauso ai magistrati della corte di Assise di Perugia per esprimergli il proprio compiacimento per il sereno coraggio dimostrato».


Agli stessi magistrati che secondo lei vanno temuti?


«E che c’entra, mica io sono capo dello Stato».


Secondo lei...


«No guardi, io ho 74 anni, lei può andare tranquillamente in galera, io no. Quindi sto zitto, da oggi in Italia è più prudente stare a casa».


Nient’altro?


«Una cosa sola: credo che di questo primo effetto del loro atto debbano essere contenti i soci del club dei girondini, detto altrimenti Libertà e Giustizia, costituita con alla guida il famoso giustizialista Galante Garrone che questa sera ha tutti i motivi per brindare, ma che mi auguro, a motivo della sua età, lo faccia in modo parco... Vorrei però ricordare ai nostri girondini che dopo di loro venne il Terrore, che neanche loro risparmiò».

Marco Galluzzo

«La sentenza non mi sorprende Provati i rapporti con la mafia»

«No, la condanna di Andreotti non mi sorprende: l’assoluzione, quella sì mi aveva sorpreso, soprattutto per le motivazioni che hanno considerato provati i suoi rapporti con i boss mafiosi e con i politici di Cosa Nostra. Chi ha studiato le sentenze di Perugia e Palermo, se è onesto, può scandalizzarsi per un solo processo: quello di beatificazione politica di Andreotti». Nicola Tranfaglia è lo storico torinese che, al senatore a vita imputato, ha dedicato un saggio che trascrive per intero «le conclusioni dei giudici di Palermo»: «Lo stesso tribunale che ha assolto Andreotti per insufficienza di prove - spiega - lo accusa di aver mentito sui suoi rapporti con Salvo Lima, Nino e Ignazio Salvo, Vito Ciancimino e perfino con Bontade e Badalamenti. Sono fatti di gravità eccezionale, purtroppo pochissimi cittadini ne sono stati informati. E la stessa sentenza di Palermo considera storicamente accertato che Pecorelli, con la famosa copertina sugli "assegni del presidente", stava per pubblicare una verità molto scomoda: il mafioso Ciancimino scalò davvero la Dc di Palermo con un pacchetto di tessere finanziate da Andreotti; ed erano proprio gli assegni delle tangenti versate dai palazzinari romani al suo braccio destro Evangelisti... In un Paese civile, sarebbe bastato questo a zittire Andreotti, in Italia la stessa sentenza è servita a santificarlo. A troppi politici, dopo Mani pulite, le sentenze piacciono solo se favorevoli». Sul futuro del processo Pecorelli, però, Tranfaglia è scettico: «Non c’è nulla di definitivo. E la Cassazione ha già assolto Carnevale, anche se per farlo ha dovuto cambiare giurisprudenza sulle testimonianze dei giudici».

P. B.

Ligotti: la Cupola non c’entra, uccisero per fare un favore.

MILANO - «Questa sentenza non è un terremoto. E’ soltanto una "correzione", che rende giustizia in modo definitivo a Tommaso Buscetta». La voce stanca dell’avvocato Luigi Ligotti, difensore storico del più importante pentito di mafia, lascia trapelare anche un filo di mestizia per una persona che non c’è più.


Per essere una «correzione, farà molto rumore.


«I giudici d’Appello si sono limitati a riequilibrare la chiave di lettura di Cosa Nostra».


In che modo?


«In primo grado, era stato sancito il ridimensionamento delle regole fondanti della mafia, quelle che erano alla base anche del maxi-processo istruito da Falcone e Borsellino».


Qual è la regola fondante?


«Un uomo d’onore non può mentire a un altro uomo d’onore. Il fatto di avere negato questo in primo grado, significava smantellare almeno due decenni di storia di Cosa Nostra, così come la conosciamo».


In sintesi: Badalamenti non può avere mentito a Buscetta.


«Esatto. Un mafioso di quella importanza, che mente a un altro boss, è fuori dalla storia di Cosa Nostra. Accettare questa tesi, significava dire che la mafia è un’associazione senza regole interne, facendo crollare tutto quello che finora conosciamo».


Quindi secondo lei, questa sentenza non capovolge la prima.


«Dà soltanto una diversa valutazione dell’impianto probatorio. Badalamenti non fece millantato credito con Buscetta, ma disse la verità. Un dettaglio che cambia molto».


L’omicidio Pecorelli fu un delitto di mafia?


«Questo è il punto chiave della nuova sentenza: non fu un delitto di mafia, ma della mafia. Distinzione importante».


La chiarisca.


«La contemporanea assoluzione di Pippo Calò e Michelangelo La Barbera dimostra che la "Cupola" non centra. Di fatto, disancora il delitto da Cosa Nostra. Fu un delitto eseguito da alcuni, nell’interesse di altri, per fare un favore a terzi».


Questa sentenza può «condizionare» il processo d’Appello contro Andreotti a Palermo?


«Non credo. Tecnicamente non ci sarebbe nessun automatismo, proprio perché ieri è stato stabilito che il delitto Pecorelli non fu un delitto di mafia. Quindi, si tratta di due terreni diversi».


Ma ugualmente scottanti, per un mare di ragioni.


«Anche la lettura della sentenza di primo grado, così come quella di Palermo, indipendentemente dalle formule assolutorie sulle quali tutti si sono concentrati, avrebbe dovuto provocare un terremoto».

 

Marco Imarisio