Vi invio una parte del mio libro

" non abbiamo sognato "

in cui si parla dell'apertura del reparto numero 5 del manicomio femminile di Via Giulio a Torino   1969
Via Giulio -

Giancarla Ceppi.

Si aprono le porte 
In via Giulio c'era il manicomio femminile e il reparto n. 5 era diretto da un amico psichiatra.
Gli studenti alla facoltà di medicina, che erano stati tra i primi a muoversi nelle lotte studentesche, avevano deciso di fare un'assemblea pubblica proprio all'interno dell'edificio e alcuni medici interni, tra cui Annibale, avevano appoggiato l'iniziativa. L'assemblea fu dirompente, dissacratrice. Parlarono solo i medici riconosciuti come compagni. Tutti gli altri si erano imboscati o del tutto assenti. Si trasformò in una assemblea permanente in cui fu decisa l'occupazione.


Dopo l'occupazione il reparto n. 5 divenne un reparto aperto.
Con gli studenti di medicina iniziai a frequentare a turno il manicomio - pardon l'ospedale psichiatrico. C'era all'inizio un'esaltazione reciproca e un ottimismo della volontà tale da mettere a tacere, almeno momentaneamente il pessimismo della ragione.
L'ottimismo di riconoscere che la lotta aveva pagato e il pessimismo nel prevedere che tutto ciò non poteva durare, almeno nella forma dirompente in cui era iniziato. Troppe cose uguali  a prima si vedevano appena si usciva all 'esterno della porta del n.5 o anche soltanto nel reparto accanto in cui tutto rimaneva immutato.


Durante un'assemblea con i degenti conobbi Jole, la più giovane "ospite" del reparto. Aveva venti anni, di cui dieci trascorsi in un'interminabile sequela di collegi, l'ultimo dei quali era stato il Buon Pastore. Jole era arrivata al manicomio femminile di Via Giulio dopo un litigio violento con la sua vicina di stanza e dopo essersi rivoltata alla monaca di sorveglianza richiamata dalle voci concitate delle due ragazze. Appena iniziai a frequentarla, Jole mi confidò tutto il suo odio ed il rancore per la madre da cui era stata abbandonata in fasce. Un odio sotto cui covava la cenere del desiderio frustrato di un amore materno mai goduto.


Ci fu subito una forte simpatia tra noi due e ogni volta che entravo al reparto n. 5 la cercavo e lei mi veniva incontro, ma col passare del tempo mi accorsi che mi raccontava una sequela di fantasiose bugie.
"Come, non mi hai detto l'altra volta che tua madre era eretta e ora mi dici che è una donna ricca?" 
"No ma l'altra volta non parlavo di lei. .." Non si preoccupava nemmeno di accertarsi se io l'avessi creduta, andava avanti nel racconto persa in un mondo che non era mai stato suo. Era affetta da quella che in termini non soltanto psichiatrici viene chiamata mitomania.
   Il mitomane è colui che negli ambienti borghesi viene considerato stravagante o quantomeno originale - attributi che non vengono mai usati per i proletari a meno che per una fortunata combinazione non siano annoverati tra gli artisti. In tal caso come personaggi geniali, quindi diversi, si permette loro la massima libertà linguistica e di comportamento e li si accoglie
nei salotti - fiori all'occhiello di padrone di casa aperte e 'democratiche'.

Salvo poi quando non se ne può più cacciarli per sempre fuori dalla porta. Così era successo a Carlo, che ruotava nel gruppo dell'arte povera torinese, mitomane anche lui oltre che collerico e rabbioso, un giorno durante una discussione più che animata, aveva preso un coltello in mano e minacciato i presenti.   L'apertura del reparto numero cinque era stata accolta all'inizio con grande entusiasmo dalle poche giovani che come Jole erano in grado di intendere e volere, ma aveva lasciato senza segno le donne più anziane immerse in un torpore profondo dopo decine e decine di anni di coercizione e di conseguente totale rinuncia a se pur minimi bagliori di consapevolezza. Jole e le altre avevano ottenuto il permesso di uscire durante le ore del giorno -


"Ma certo che puoi dire quello che vuoi, ma tu te ne vai di qui e hai una casa, io invece quando ho girato tutto il giorno per di più senza soldi, la sera me ne devo sempre tornare in questo posto di merda! " Così Jole un giorno aveva definito il confine, la sostanziale diversità tra noi due .
Poi c'era il problema del sesso. E' convinzione diffusa che i cosiddetti pazzi siano il più delle volte anche maniaci sessuali e sembrano confermarlo episodi di violenze che sono usciti con le malelingue dalle robuste mura dei manicomi. D'altro canto rimanere chiusi per anni, in un luogo dove la promiscuità è legge porterebbe a comportamenti maniacali immaginabili e non e il sesso è tra questi è dominante.
"C'ho una voglia di chiavare... " sentii dire un giorno da una ragazza con le trecce brune, mentre saliva le scale che portano al reparto n. 5 "eppure, dove posso andare? Non posso mica andare in corso Massimo...C'ho una voglia"- e la sua voce usciva dal profondo dei visceri: quella
voglia voleva dire voglia di tutto, voglia di ossigeno, di libertà, di avere rapporti con le proprie coetanee, voglia di altro. ..


E Jole, insieme ad un'altra amica, con l'aiuto di due complici esterni, un giorno scappò. All'assemblea che seguì dopo il fattaccio - ogni due giorni c'era un'assemblea congiunta tra i medici del reparto, infermieri, i malati e noi coadiuvanti esterni - Annibale fece un intervento molto duro, accusando le due ragazze non tanto per la fuga quanto per non aver capito che quella era una vera comunità' " in una comunità se ci sono dei problemi, bisogna esporli a tutti noh? "C'era nel suo discorso in sintesi l'ambiguità degli interventi di tipo riformistico, pur con tutta la tensione utopistica che all ' inizio è molto presente.


Furono interpellati i presenti all'assemblea con un giro di opinioni per esprimere un verdetto e tutti espressero  sia pure con parole diverse sempre la stessa accusa: tradimento della comunità.  Tutti meno la ragazza con le trecce brune - Mara - "Invece io ce l'ho con lei perché non me l'ha detto, se l'avessi saputo sarei scappata anch'io. "
 Sull'onda del suo intervento dissi che chiamare quella una comunità voleva dire avere una visione parziale e limitatissima di cosa si parla . Dov'erano gli uomini, i bambini, dove le strutture abitative che rendono possibile questa realtà comunitaria ?  Che forse cambiare nome all'edificio e da manicomio farlo diventare ospedale psichiatrico voleva dire trasformare i presenti in comunità? E quella che negli anni per non dire nei secoli era stata un'istituzione totale come il carcere e dai cui muri se pur ridipinti trasudava ancora della grida sofferenti di migliaia di creature, poteva essere la sede di una comunità? Meglio evitare le definizioni, piuttosto che usare termini troppo carichi di significati alternativi.


Il mio intervento, sottolineato dal sorriso della complice Mara, raggelò all'istante l'atmosfera e l'amicizia di Annibale nei miei confronti. In seguito quando ebbi occasione di appoggiare troppo apertamente le proteste delle infermiere contro i dottori che a loro si rimproverava il ritardo alle riunioni mentre i dottori erano sempre giustificati, - il collega di Annibale mi prese da parte e mi disse che non c'era più bisogno del mio aiuto.
Abbandonai il sociale, anzi ne fui allontanata, espulsa , che allora pur senza una piena consapevolezza avevo la sensazione della insanabile contraddizione tra interventi riformatori anche avanzatissimi portati avanti in istituzioni più o meno totali e la realtà esterna di una società che rimane invariata.


Non per questo l'apertura dei manicomi non si doveva fare che entrare dentro il reparto numero cinque del manicomio femminile è stato un evento dirompente e liberatorio . Chi come noi ha visto tutte quelle creature seminude e accartocciate su se stesse ridotte a uno stato subumano che ci venivano incontro e uscivano dal lager  cercando un contatto alla ricerca di una sigaretta o di qualcosa di dolce non può né deve dimenticare. Indietro non si torna!! e  chiunque faccia proclami dichiarando che  i malati stavano meglio prima costui non ha né ha avuto occhi per vedere o cuore umano per sentire.


 Tuttavia gli psichiatri, quelli democratici e quelli che non si chiamano Basaglia o Cooper, oggi più che mai dopo quasi dieci anni anche nei comuni ' rossi ' , provano sulla propria  pelle quotidianamente la lacerante contraddizione tra il distribuire psicofarmaci allo psicotico di quartiere- perché ci sono gli psicotici di quartiere come prima c'erano i matti nel manicomio- e  l'inadeguatezza della cura e delle strutture di una società che proprio perché malata,
marcia, fatiscente non può certo curare nessuno.

      1970
Ancora non era trascorso un anno dalla fine della lotta nel manicomio femminile, eppure ritrovandomi nello stesso quartiere con un gruppo di intervento sociale avevo l'impressione che fosse passato molto più tempo. Abbandonate le illusioni riformistiche, sentivo il bisogno di tradurre in pratica tutto ciò che avevo imparato in quei mesi.
Il manicomio femminile era diventato un edificio vuoto e gli spazi intorno non usati . Ci si riuniva in un locale messo a disposizione dalla parrocchia e l'obiettivo era quello di ottenere lo spazio verde per i giochi dei bambini della zona. Gli abitanti del quartiere ci dimostrarono la loro fiducia quando alla manifestazione conclusiva non era intervenuti direttamente ma ci avevano affidato i loro bambini.
Sembrava un corteo in miniatura che innalzava scritte di protesta vergate con grafia infantile. Ci fu una subitanea eco nella stampa e questo allora ci bastò .


In seguito passando davanti all'ex manicomio, a quelle mura secolari simbolo dell'oppressione e delle istituzioni totali mi sembrava di sentire l'eco delle voci di quei bambini. Le mura sono state demolite, si vedono spazi aperti lasciati liberi - così come avevamo chiesto per il parco giochi e dalla strada si intravedeva un murales-opera di un collettivo tenuto da animatori di quartiere, novelli sacerdoti laici, frutto di ideologie partecipative social-democratiche.
  Luglio '79   Jo come Jole
Giuseppa - detta Jo - ha vent'anni, lunghi capelli biondi, due occhi azzurri un po' spenti, ha un figlio di cinque anni e fa la prostituta per procurarsi la droga.


" Perché quei giovani ricchi che si drogano hanno i soldi, mentre io sono nata a Messina e sono una poveretta ripete mentre l'accompagnano nella Via Giulio ora occupata dal movimento delle donne di Torino. È notte e i ricordi sono più vicini. Non ero più stata dentro queste mura in cui mi assale lo stesso odore nauseabondo del piscio di generazioni di rinchiuse e del disinfettante al fenicolo, negli stanzoni a volte alte  con le finestre a ogiva lassù in alto che non sia possibile vedere cosa succede fuori nel mondo dei vivi. La figura di Jo si sovrappone a quella di Jole e non è allucinazione la mia. Jo e Jole sono accomunate nella loro vita disperata di emarginate - dannate della terra. Jole chiusa in un manicomio per la devianza e Jo che vive ai margini di un ospedale dove di volta in volta se la sballottano da un medico all'infermiere di turno che la riempiono di metadone. Poi non sapendo più dove mandarla per liberarsi la coscienza le hanno dato questo indirizzo di via Giulio.


Ora l'edificio non serve come manicomio, i matti reclusi non ci sono più , ora sulle pareti ci sono le scritte dissacranti del movimento delle donne: scritte rosse, improvvisate, contraddittorie, come contraddittorio è il movimento delle donne.
" La mia devianza è la mia forza' sta scritto sul muro. Forse la mia, la tua, compagna sconosciuta, ma non è la forza di Giuseppa detta Jo che poi non è nemmeno il suo nome. Anche lei ci ha raccontato delle storie: Queste bende sul braccio sono una medicazione perché mi sono fatta male rompendo dei vetri' Ma i suoi occhi un po' spenti e diffidenti si animano di curiosità quando, girando per i grandi saloni vuoti abbandonati del reparto, legge l'appello di tre disoccupate in cerca di compagne per costruire una comune agricola sulla collina di Torino. "Queste sono disgraziate come me, datemi un foglio che mi scrivo il numero di telefono. "


C'è un caos vitale nelle stanze dove una volta c'erano i letti delle malate, le squallide tavolate della mensa e i lettini di contenzione. Il movimento delle donne è riuscito a entrare dentro dando  qualche preoccupazione al sindaco poiché l'edificio dev'essere ristrutturato e destinato a più munifici servizi, per questo hanno convinto le occupanti ad andarsene da un'altra parte a far la casa della donna.
Ma non era solo questo che volevamo. Noi allora volevamo che non potesse più accadere che la devianza di tutte quelle come Jole come Giuseppa, o come Nori, le rendesse così spacciate, così emarginate, così disperate. Lottavamo affinché almeno potessero essere come noi. Noi che possiamo affermare con tenacia  convinzione coscienza ed orgoglio: la devianza è la nostra forza.