Libertà di critica e non violenza

FERMARE LA CATENA DI VIOLENZA E RIFLETTERE SU COSA FACCIAMO"

Terzani torna dall'Himalaya per "annusare quei dettagli che poi diventano storia" Dopo una vita trascorsa a inseguire le guerre, è stata l'ultima - quella in Afghanistan - ad indurlo a tornare dal suo ritiro himalayano per gridare il suo "no" a tutte le guerre. E' Tiziano Terzani, giornalista e scrittore, che ha spiegato così la sua scelta nel corso del dibattito su "libertà di critica e non violenza" organizzato dalla Regione Toscana. "Pur venendo da percorsi completamente diversi - ha detto Terzani - mi ritrovo adesso sulla stessa strada di molti altri. Con la guerra in Afghanistan abbiamo reagito con un'altra violenza ad una terribile violenza, con una guerra di bugie che non ci hanno fatto vedere e che serve ad eliminare il diverso e a spaventare la Cina". E lui è di nuovo in Italia per continuare a fare "l'unica cosa che so fare" cioè "annusare quei piccoli dettagli che poi diventano storia". E allora Terzani ha lanciato un invito a riscoprire l'etica nella nostra vita quotidiana e si è detto fiducioso perché incontrando gli studenti nelle scuole ha trovato "un'altra bella Italia, diversa da Berlusconi". Il giornalista ha detto di essere passato, lui uomo di sinistra, attraverso molte delusioni, sul modello cinese, su quello russo, sulla scommessa vietnamita e di essersi convinto che il motto machiavellico del fine che giustifica i mezzi sia sbagliato. "Interrompiamo - ha precisato - questa catena di violenza e fermiamoci a riflettere. Anche se diventare un parà della pace è molto più difficile che diventare un soldato, dobbiamo riuscire a vincere la violenza che è dentro ciascuno di noi". A chi gli chiedeva cosa sia il terrorismo, Terzani ha risposto che è sia il gesto di chi mette una valigia piena di esplosivo in un ristorante, sia quello di chi impone un progetto di sviluppo che fa violenza. Ha citato l'esempio della Union Carbide che alcuni anni fa provocò a Bophal in India 20.000 morti per aver costruito una fabbrica chimica che poi esplose contaminando l'ambiente. "La casa che abbiamo costruito - ha concluso Terzani lanciando un appello ai molti giovani presenti in sala - sta bruciando, ma c'è tanta gente in cammino lungo la strada di chi vuole cambiare. Cercatela e facciamo tutti insieme un piccolo passo". (tc)

Fiat, la rabbia operaia
Giornata di lotta da Torino a Termini: 50.000 in corteo nella cittadina siciliana, 15.000 nell'ex capitale dell'auto. Si estendono gli scioperi contro i licenziamenti e la dismissione
GABRIELE POLO
La risposta è arrivata, netta, precisa, rigorosa: l'hanno data migliaia di lavoratori e cittadini che da Torino a Termini Imerese sono scesi in piazza per respingere i licenziamenti che la Fiat giovedì ha ribadito di voler fare per poter vendere meglio alla General Motors ciò che poi resterà dell'industria italiana dell'auto. La risposta più forte è arrivata dalla Sicilia: a Termini, dove lo sciopero era indetto unitariamente, un corteo di 50.000 persone ha occupato la cittadina e nel comizio conclusivo i segretari di Fim, Fiom e Uilm hanno detto ancora una volta che la fabbrica non deve chiudere, che il governo deve intervenire anche sulla proprietà per rilanciare e rinnovare il settore dell'auto. Ma la protesta non è finita lì: come da settimane a questa parte gli operai continuano a presidiare giorno e notte lo stabilimento, bloccando i cancelli per impedire che ne uscissero le bisarche colme di Punto. E l'ipotesi di occupare la fabbrica si fa sempre più concreta. Dall'altra parte del paese, a Torino, lo sciopero dei metalmeccanici indetto dalla Fiom è pienamente riuscito in tutti gli stabilimenti del gruppo: un corteo di 15.000 lavoratori ha sfilato per le vie di una città stordita. Altri scioperi si sono svolti a Cassino - con blocco dell'autostrada - a Bologna - si sono fermati tutti metalmeccanici - a Brescia, Lanciano, Pomigliano, Milano. Ovunque adesioni altissime e tanta rabbia. Oggi gli operai della Fiat saranno a Firenze per portare al corteo contro la guerra la lotta per il lavoro e i suoi diritti. Intanto Fim, Fiom e Uilm - unite dall'emergenza Fiat - hanno fatto rinascere il coordinamento unitario dei delegati del gruppo, per unificare le iniziative di lotta ed estendere a tutti gli stabilimenti il blocco della produzione. Mercoledì la prima riunione, a Palermo, deciderà cosa fare per evitare il collasso produttivo, occupazionale e sociale perseguito dai vertici dell'ex colosso dell'auto.

Firenze oggi è capitale di pace
Oggi la grande manifestazione contro la guerra all'Iraq e contro tutte le guerre. Previste 200.000 persone. Con il movimento, in piazza tutta la sinistra e la Cgil. E già ci si dà appuntamento al 10 dicembre, con Emergency
COSIMO ROSSI
INVIATO A FIRENZE


Perfino il fatto che Social forum europeo si svolga in una Fortezza in fondo non riesce a suonare stonato. Perché il destino ha voluto che la Fortezza da Basso di Firenze - una delle più complete cittadelle militari del XVI secolo, fatta costruire da Alessandro dei Medici a tempo di record nel 1534 - non fosse mai utilizzata per la difesa di Firenze, tramandandola perciò intatta. E per un movimento di movimenti uniti in primo luogo dal rifiuto della guerra, la riconversione della cittadella fiorentina è tutt'altro che una metafora. Ad essere asserragliato, anche militarmente, in questi giorni è stato in primo luogo chi si trovava fuori dalle mura medicee. Nei 60 mila metri quadri della Fortezza ieri i partecipanti hanno invece superato quota 60 mila. Fino a intasare per tutta la giornata anche gli spazi all'aperto tra assemblee volanti, voltantinaggi (l'abuso di carta, il 30% del totale dei rifiuto registrati da Legambiente, è una delle note dolenti), banchetti informativi, picnic, canne, stretching. Un formicaio, ma così ordinato e diligente che per prendere il caffè si staziona pazientemente in «fila longobarda» (di una persona). E che oggi pomeriggio si riverserà in città per la grande manifestazione contro una guerra che sembra di ora in ora più imminente.

La guerra, anzi la pace, del resto è stato per tutto il meeting in
leit motiv che ha attraversato ogni tipo di discussione: dalla natura della costituzione europea ai diritti sociali e civili, dall'allargamento a est alla necessità per l'Europa di proiettarsi anche a sud. Perché la guerra, anzi la pace, è il l'aminoacido che permette l'iterconnessione genetica di una costellazione di sigle e individualità che va dalle più cocciute formazioni gruppettare all'associazionismo diffuso, dai comunisti ai cattolici, passando per le altre religioni e i sindacati.

La guerra, anzi il suo rifiuto, è ciò che viene maggiormente applaudito dalle oceaniche platee che assistono alle assise. Come quando, ieri mattina, Rossana Rossanda ha commosso quattromila persone, in quasi totalità giovani, affermando che «la guerra va rifiutata, mi terrorizza, ci deve terrorizzare l'idea della guerra infinita, con uno stato che si fa egemone e decide dove e quando muovere guerra ad altre nazioni». A partire da questo Rossanda ha chiesto alla platea del Social forum che dal fondo non la vedeva di «non disperdersi». E quando ha aggiunto sussurrando «la speranza, perché l'età è quella che è, a rivedervi ancora e spesso», è salito un applauso di dieci minuti.

E se la pace è la scintilla che fa muovere le 60 mila persone che si sono date appuntamento da tutta Europa a Firenze, anche per la città che si è chiusa fuori dalla Fortezza è man mano sempre più difficile mantenere la diffidenza spaventata indotta da mesi di campagna allarmistica. Tanto è vero che va sempre più crescendo il numero dei fiorentini che vuole scendere in piazza e che hanno risposto all'appello dei radiocronisti mettendo a disposizione le finestre e i telefoni delle case affacciate sul percorso per consentire i resoconti altrimenti oscurati dal sicuro black out per sovraffolamento della rete di telefonia mobile. Del resto, anche il grido di battaglia dei Disobbedienti parla chiaro: «Fiorentini, venite alla manifestazione per poter dire c'ero anch'io».

Più che i «sicuri atti vandalici» paventati da Silvio Berlusconi, «qui ci sono giovani che vengono da tutta Europa che pongono domande», rileva dunque al suo arrivo il segretario generale della Cgil Gugliemo Epifani: «C'è un dibattito in corso. E c'è chi è interessato a dare risposte precise su temi importanti come i diritti, la pace, la nuova Europa. Un dibattito che dovrebbe essere seguito con grande attenzione dalle forze sociali, politiche, dai mezzi di informazione e dal mondo della cultura». E ci sono «forze di cui si può avere fiducia», aggiunge il ds Fabio Mussi. Forze che «sono in gran parte estere ai partiti storici» e che «avranno sempre più peso nella politica internazionale». Qui sta la sfida vera, il lavoro che comincia da quando la Fortezza chiuderà i battenti.

A cominciare proprio dalla pace. Perché «La guerra è obbligatoria per il neo liberismo», osserva il leader di Attac Italia Marco Bersani, che mette in agenda non solo il rifiuto della guerra di per sé, ma anche la battaglia «perché non ci sia nessun sostegno dei governi europei di quello italiano a questa follia militare che si va a perpetuare un'altra volta». Invece quella contro l'Iraq è «una guerra già decisa da tempo da Bush che, ormai, sembra aver già convinto anche Berlusconi», osserva Alex Zanotelli.

Domani a manifestare contro la guerra non ci saranno i leader dell'Ulivo, non Francesco Rutelli né Piero Fassino. Ci saranno però migliaia di elettori dell'Ulivo e dei Ds, insieme alla minoranza della Quercia schierata al gran completo. Ci sarà Rifondazione comunista forse più di quanto non riesca a fare quando manifesta da sola. Ci saranno i Verdi e il Pdci. Ci sarà la Cgil che annuncia almeno 40 mila partecipanti. E soprattutto ci saranno le associazioni e i singoli, i partiti e le organizzazioni sindacali che hanno animato tre giorni di Social forum europeo. Poi il movimento si darà appuntamento per ritrovasi a Saint Denis, nella periferia di Parigi. E per una mobilitazione europea per la pace. Mentre in Italia l'appuntamento è già fissato da Emergency, che ha raccolto oltre 300 mila adesioni al suo appello: «Il 10 dicembre - dice Gino Strada - ci sarà una grande mobilitazione in tutta Italia contro la guerra». Ci si rivede là.

Retorica vergognosa
di EUGENIO SCALFARI

LA RETORICA di Oriana Fallaci è spontanea, autocreativa. Il suo caso non è certo unico ma è raro: fino a un secolo fa la retorica si studiava ancora in certe scuole e fino al Settecento era materia d'obbligo in tutta Europa per chi volesse addottorarsi in diritto, filosofia, teologia. Oriana però non ha avuto bisogno di nessun retroterra accademico, la sua retorica promana dai flussi di adrenalina che debbono essere miracolosamente efficaci se producono i frutti che conosciamo dai suoi articoli, dalle sue interviste e da almeno qualcuno dei suoi libri.

Come tutti i fenomeni rari del linguaggio, la sua sintassi, il montaggio delle frasi, la concatenazione dei periodi, degli aggettivi, dei tempi verbali meritano attenzione e analisi. L'argomento cui si applica importa fino a un certo punto, di solito è un pretesto che serve da stimolante; una volta che lo stimolante sia entrato in azione i risultati sono quasi sempre quelli attesi che si possono riassumere in una sorta di dichiarazione di guerra di Oriana contro il resto del mondo. Il resto del mondo si materializza in un personaggio che ovviamente deve avere statura planetaria; oppure in uno specifico gruppo politico, anch'esso di dimensioni globali, se no che guerra sarebbe? Oriana non è pulzella da guerricciole.

Un altro elemento della sua retorica che bisogna tenere in conto: la Nostra non sopporta alleati, la guerra è la sua e lei deve esser la sola a combatterla; perciò mentre attacca il nemico mondiale non manca mai di riservare qualche trafelato periodo anche ai suoi potenziali amici, soggettivi o oggettivi che siano, affinché si guardino bene dall'intervenire accanto a lei. Lei è l'Unica, riassume in sé tutto il Bene del mondo in lotta contro il Male.

Fin qui l'Oriana che noi - suoi colleghi in giornalismo - abbiamo conosciuta. Negli ultimi tempi c'è qualche tono in più. Forse dipende dal correr del tempo che rende alcuni un poco più saggi, altri un poco più cinici, altri ancora più rabbiosi di prima. Per Oriana dev'essere stato difficile superarsi nella rabbia, eppure c'è riuscita egregiamente; non a caso titolò "La rabbia e l'orgoglio" il suo primo pamphlet contro l'Islam pubblicato dal Corriere della Sera qualche mese fa. Il titolo fece effetto, il testo anche: se incitate la gente ad esser rabbiosa e orgogliosa di esserlo, se siete capaci di esprimervi con una retorica adeguata e adeguatamente infuocata e se infine disponete d'una tribuna e d'un altoparlante di buona potenza, otterrete una moltitudine di consensi. La moneta cattiva ha sempre scacciato la buona dal mercato, non è vero? Oriana contro l'Islam è una contrapposizione un po' comica ma funziona per le menti semplici. E così la tenzone è proseguita in varie puntate ma poi si è in qualche modo illanguidita: quando stanno per entrare in campo le bombe e i cannoni veri lo spazio per gli sbandieratori si riduce. Per fortuna (di Oriana) si è presentata un'altra occasione: Firenze minacciata, Firenze stuprata violentata intimidita terrorizzata. La sua Firenze (di Oriana). La città-simbolo, la città-scrigno, la città del mondo. Minacciata da chi? Da Agnoletto? Da Casarini? Dal sindaco Domenici? Dal presidente della Regione, Martini? Da un corteo pacifista? Avversari ridicoli, nemici inesistenti. Ma se dietro le maschere di Agnoletto, di Casarini, di Domenici, dietro la complicità di Fassino, dietro le ipocrisie di Berlusconi, dietro l'ignavia di Ciampi (ed ecco che le dimensioni del nemico cominciano già ad ingrossarsi); se dietro a questi modesti bersagli si profilano anche le ombre di Bin Laden, di Saddam Hussein, di tutto il terrorismo internazionale, allora sì, ci siamo di nuovo, lo schema Oriana contro il resto del mondo riprende quota, torna a volare alto, manda di nuovo il grido dell'aquila dalle colonne del Corriere della Sera.

L'aquila difende Firenze, altrimenti inerme e preda della violenza barbarica. Ma Firenze deve fare anch'essa la sua parte: deve chiudere per cinque giorni tutti i negozi (anche quelli alimentari), tutti i cinematografi, tutti i teatri, tutte le discoteche, tutte le chiese, tutte le scuole. Su ogni portone sbarrato deve appendere il cartello "chiuso per lutto". E con questo silenzio spettrale deve accogliere le orde dei barbari che certamente dilagheranno, bruceranno, romperanno, insozzeranno. Li accolga il gelo del silenzio e quella sarà la loro Beresina. C'è anche il caso che la violenza materiale dei barbari non abbia luogo perché anche i barbari si sono fatti furbi. Ma resterà pur sempre la violenza morale che hanno esercitato sulla città e questo deve bastare.


Questa l'Oriana del 6 novembre. Si direbbe che a lei piaccia che quelle violenze materiali ci siano veramente. Con l'articolo di ieri ha fatto quanto poteva per provocarle e attizzarle. Da Giovanna d'Arco si è trasformata in provocatrice seriale, "picador" e "matador" d'un toro che rischia di esser diventato remissivo e di mandare a monte lo spettacolo. Mi permetto di dire che questo tipo di retorica è vergognoso.

La leggenda del santo tornitore
di Sergio Cofferati

Ignacio era un tornitore, militava nella formazione giovanile del Partito des Trabajadores, insieme ad un altro giovane: Enrique Cardoso. Poi le loro strade si divisero, Ignacio restò il radicale rappresentante dei lavoratori metalmeccanici della Cut e poi divenne il (radicale) leader del P.T. Cardoso invece si moderò, spostò la sua collocazione verso il centro politico, divenne riferimento della borghesia e degli imprenditori brasiliani ed ancor di più delle multinazionali americane ed europee. Le loro strade tornarono ad incrociarsi quando si contesero il consenso popolare per l’elezione a Presidente del Brasile. Vinse Cardoso, la prima volta, con il sostegno delle forze economiche brasiliane (e con quello più decisivo degli Stati Uniti). Il tornitore li spaventava. Nei primi anni della Presidenza Cardoso incominciò (e proseguirà nel secondo mandato) il più rilevante spostamento di ricchezza immaginabile tra le classi sociali brasiliane.
I due ex compagni di partito si scontrarono di nuovo, per la seconda volta, alla scadenza del primo mandato presidenziale di Cardoso. Rivinse lui, il blocco di interessi che aveva cementato era granitico. E il tornitore faceva paura, così radicale e sanguigno.
Uscito di scena Cardoso, dopo otto anni, il tornitore Ignacio ci ha riprovato e ha convinto una precentuale altissima di suoi connazionali che lo hanno votato. Perché Ignacio non fa più paura?
Chissà. O forse la paura non è sufficiente a condizionare la volontà di tanti brasiliani? Difficile dirlo, ma non si può escludere che il bisogno di rilanciare l’economia brasiliana per evitare un disastro immane dopo quello argentino valga il «sacrificio» di accettare Ignacio il tornitore da parte della finanza internazionale (e di conserva, di quella brasiliana).
È lecito anche pensare che il popolo brasiliano si sia stancato (o forse di più) delle politiche economiche e sociali dei moderati. Che le disuguaglianze abbiano spinto molti a reagire, a non accettare più il condizionamento della propaganda dei centri di potere finanziario. E ritenere che forse è meglio tentare di cambiare con l’esperienza e l’entusiasmo dell’ex sindacalista piuttosto che sottostare a condizioni sempre meno vivibili con la pallida ombra del candidato di Cardoso (e del Fmi). Ignacio ora deve tranquillizzare tutti, ma lo farà con saggezza, come già si vede. Spiegherà con fermezza agli uomini di finanza e agli imprenditori che conviene a tutti risanare e contemporaneamente far crescere l’economia. Produrre, consumare (tre pasti al giorno) per poter anche esportare. Il tutto riconoscendo priorità e diritti ai più poveri. Ignacio è di sinistra e non se lo è mai scordato, in nessuno dei suoi quattro tentativi.
La sinistra italiana lo ha calorosamente salutato (dopo la vittoria). Prima aveva preferito accreditare Cardoso come «riformista» (ricordate Firenze tre anni fa?). Ora, forse, forse, forse spira un altro timido venticello.
08.11.2002 Cristiani e pacifisti: che c'entra Pol Pot?

di Piero Sansonetti

Padre Tonio Dell'Olio è il direttore di Pax Christi. Cioè è al vertice di un'organizzazione cristiana molto seria, impegnata, alla quale - in Italia - aderiscono diverse di migliaia di persone, e che ha associazioni in tutto il mondo. Il presidente è il vescovo di Gerusalemme. Ieri, a un certo punto, padre Dell'Olio si è messo a gridare nel microfono con tutto il fiato che aveva in corpo. Chiedeva: «Che cazzarola c'entro io con Pol Pot?». Ce l'aveva con una trasmissione tv del giorno prima - seconda rete, Tv pubblica - nella quale si erano paragonati i no-global di Firenze ai massacri del dittatore cambogiano. Padre Dell'Olio dice che dopo la trasmissione gli ha telefonato la madre, che è una signora anziana, era preoccupata. Gli detto: «Figlio mio, ma cosa state facendo a Firenze? Ci sono dei massacri?». Padre Dell'Olio è pugliese e ha un'oratoria trascinante. Molto ironica, tagliente. È stato travolto dagli applausi. Anche quando ha attaccato la polizia per Genova, i giornali per le menzogne e l'incapacità di capire il movimento (ha proposto il boicottaggio dei giornali di destra e del "Riformista"), e i capitalisti - anzi l'«impero - che ci teme non perché sfasciamo le vetrine ma perché siamo tanti e siamo seri». Questo per spiegare bene che chi cerca le voragini che dividono il movimento tra buoni e cattivi, anarchici e cattolici, preti e comunisti, ghibellini e guelfi, cerca voragini che non ci sono. Giovedì, ad ascoltare l'assemblea sulla pace che si è svolta nel primo pomeriggio al Palacongressi gremito fino all'inverosimile (almeno duemila persone stipate, più altrettante che non sono riuscite ad entrare), si capiva bene che il "radicalismo", per usare una parola semplice, che caratterizza questo movimento, è molto vasto, e il mondo cattolico ci sta dentro fino al collo. L'assemblea sulla pace è stata una delle più importanti. È durata tre ore, ci sono stati 32 interventi. Hanno parlato laici, cattolici, scout, preti, medici ed economisti. Ha parlato anche una signora americana che ha perso il fratello, Bill, che lavorava al centoseiesimo piano della Torre nord di New York. L'assemblea si è svolta in un clima di grande entusiasmo ma la discussione è stata molto seria. Don Ciotti, Gino Strada e padre Zanotelli sono i tre che hanno suscitato le ovazioni più grandi. Però quello che colpiva di più è che tutti i discorsi, anche quelli di oratori poco conosciuti, sono stati ascoltati in silenzio perfetto: coi taccuini degli appunti in mano e senza che neanche una persona lasciasse la sala prima della fine. La seconda giornata dei dibattiti e dei seminari è stata caratterizzata dall'aumento della partecipazione. Che alla fine ha portato vicino al collasso l'organizzazione, che pure è fortissima. Nessuno però si aspettava un'affluenza così grande. Ci saranno cinquantamila persone. Alle sei di sera le cinque aule dei dibattiti principali erano tutte strapiene, e la gente restava fuori, non poteva entrare. Sono sale-capannone, lunghe settanta-ottanta metri e larghe quaranta , contengono migliaia di persone. Poi ci sono le aule più piccole, circa una ventina. Anche quelle piene zeppe. La mattina c'era stato l'arrivo di Epifani, che è stato accolto con molto calore e si è fermato a parlare coi giornalisti pronunciando parole di affetto verso i no-global. Ci sono anche molti dirigenti dei Ds, alcuni impegnati nei dibattiti (come il sindaco dei Ds Domenici), altri - per esempio Gianni Cuperlo, uno degli uomini più vicini a D'Alema e a Fassino - che ascoltano e seguono con grande attenzione i vari seminari e le assemblee plenarie. Oggi al corteo dovrebbe essere presente gran parte del gruppo dirigente della sinistra Ds, ma ci sarà anche una delegazione della segreteria e probabilmente ci sarà Cofferati. Sarà interessante vedere che accoglienza riceverà. Per il momento l'uomo politico più popolare è sicuramente Bertinotti. Giovedì ha parlato al dibattito su partiti e movimenti, ma prima ancora che parlasse, appena è entrato nella sala, ha ricevuto una standing ovation di diversi minuti. La gente applaudiva e cantava "Bella Ciao". Il suo discorso è stato interrotto decine di volte da applausi scroscianti. Bertinotti ha parlato della necessità di fare politica, «politica come azione durevole» (citazione di Che Guevara) e ha detto che la grandiosità di questo movimento è proprio quella di avere rimesso in moto la politica che era scomparsa dalla scena. Poco prima, all'interno della Fortezza, alla conclusione di uno dei seminari del primo pomeriggio, al quale tra gli altri c'era Luca Casarini, si è formato un corteo di inglesi, quelli di "Globalize resistence", che il governo aveva segnalato tra i "cattivi". Invece sono stati buonissimi, anche se ritmavano uno slogan un po' eversivo: «A- Anti- Anti-capi-talism». Il seminario sulla pace è stato particolarmente importante perché è avvenuto mentre l'Onu deliberava l'ultimatum a Saddam, e dopo le elezioni in Usa i tamburi di guerra rullano forte. Luigi Bobba, presidente delle Acli - non sospettabile di far parte del blocco nero - ha detto che le notizie che vengono dall'America sono pessime notizie e che lui non ha paura di essere considerato anti-americano, e che l'Italia deve rispettare l'articolo 11 della costituzione, quello che ripudia la guerra. Anche Strada, Ciotti, Zanotelli, Flavio Lotti (che presiedeva il dibattito) e quasi tutti gli altri hanno insistito sull'articolo 11. Zanotelli ha criticato D'Alema per averlo messo in discussione. Zanotelli ha attaccato in modo durissimo Bossi e Fini per la legge anti-immigrati. Ha detto che Bossi vorrebbe rendere obbligatorio a scuola il «crocifisso morto» e poi sparare ai «crocifissi vivi», cioè agli extracomunitari. Ha dato delle cifre. 50 miliardi di dollari all'anno che i paesi poveri danno ai ricchi come interessi sul debito («non solo noi non li aiutiamo, sono loro che aiutano noi...»); 750 miliardi di dollari all'anno che Europa e Usa spendono per armarsi; 13 miliardi all'anno (venti volte meno delle spese militari) che basterebbero per debellare la fame nel mondo. Zanotelli è stato applaudito per tre minuti. Si è commosso e imbarazzato. Ha messo la testa tra le mani, l'ha piegata sul tavolo ed è rimasto immobile. Gino Strada ha parlato quasi per ultimo. Ha attaccato i giornali (i «giornali spazzatura» i «giornalisti penne vedute») ce l'aveva particolarmente col "Corriere della Sera". Ha detto che nella classifica della libertà di stampa l'Italia risulta quarantesima, subito dopo il Mali. Ha preso in giro i giornalisti che dicono che lui vuol fare un partito. Ha detto: «in politica lo scontro non è tra i partiti, è tra chi ha i principi e chi ha i soldi».

06.11.2002