Globale, non globale. Materiale virtuale
di Furio Colombo

Fare una manifestazione in favore della globalizzazione è come organizzare una marcia a sostegno del terremoto. Entrambi i fenomeni avvengono comunque, sono inarrestabili e cambiano drasticamente la vita di tanti. Ma non di tutti. Alcuni sono più al sicuro degli altri. E quelli non al sicuro mettono su le tende, si ostinano a restare sul posto e a discutere il problema, anche quando gli altri se ne sono andati. Del resto non è fuori luogo, e forse non è neppure un caso, che «Il Foglio» di lunedì 4 novembre abbia citato Lucrezio Caro in un «elogio del terremoto».

Molti giudicano anti americana l'ansietà sul globalismo. Il pregiudizio anti-americano, infatti, circola a destra e a sinistra di coloro che si oppongono. Ma il vento furioso del cambiamento detto globalizzazione ha soffiato prima di tutto sulle praterie americane, ha cambiato vita, abitudini, città, ha spazzato interi settori della classe media, interi blocchi di lavoro. Ci sono città come Detroit che sono dei veri parchi archeologici di lavori e di produzioni finite. Ci sono metropoli, come New York, in cui è scomparsa l'intera fascia intermedia dei cittadini, fra i ricchi e i poveri. Ci sono libri e film che hanno profetizzato, annunciato e poi narrato la grande trasformazione in cui qualcuno è protetto e qualcuno è lasciato fuori per sempre.

La più straordinaria profezia del globalismo è del 1943, è il celebre romanzo «The Fountainhead» di Ayn Rand. Sentite come lo riassume la Columbia Encyclopedia: «Il libro celebra la razionalità dell'interesse personale contro l'impulso delle tendenze altruistiche».

E infatti è la rappresentazione quasi ascetica di un architetto-costruttore che travolge ogni riguardo ai dettagli di vita degli altri esseri umani per realizzare un suo sogno su vasta scala, una scala che agli altri appare disumana. Nel Paese delle casette bianche con il prato verde davanti, il nostro eroe costruisce grattacieli. Per costruire deve distruggere, e niente lo fermerà, ed è vero che qualcuno nei grattacieli vivrà meglio. Il fatto è che non importa ciò che desideri, o la scelta a cui vorresti partecipare.

Al tempo in cui Ayn Rand era una grande scrittrice e il suo libro un best seller, l'obiezione (per esempio di Arthur Schlessinger senior, storico e padre dello storico con lo stesso nome) era: «Quale è il rapporto di un simile modo di volere, concepire, decidere la vita degli altri con la democrazia? Che rapporto c'è fra potenza e libertà?».

Come si vede il dibattito comincia presto. E si capisce subito che la globalizzazione cresce in due modi. È orizzontale, perché si espande rapida e occupa e cambia e cancella e inaugura modi diversi di vita. In parti diverse del mondo. Nascono tecnologie mai viste, nascono tecniche di riproduzione e moltiplicazione, nasce la produzione di massa che abbatte i costi di ogni singolo pezzo e fa in modo che tanti abbiano ciò che prima era inaccessibile. È verticale. Perché, prima lentamente e poi vorticosamente, si allarga lo spazio fra alto e basso, fra il tetto e la base della vita sociale.

Un film americano, fra tanti, narra e celebra il momento in cui esplode dentro l'America il vorticoso distacco. Ricordate? È «Wall Street». Il protagonista (Michael Douglas) lavora in Borsa, partecipa a un gioco immenso, intravede e tocca ricchezza non immaginabili, prima. Il padre è un operaio. Faceva un lavoro che non c'è più. Guarda incredulo, mette in guardia, vede il pericolo di quel vortice. Ma né il giovane globalista della ricchezza incontrollabile, né l'anziano operaio a suo modo no global, possono farci niente. La spinta che li travolge è troppo forte. Lo ha raccontato bene Tom Wolfe nel «Falò della Vanità»: «È come un ascensore. Sali, sali sali. Non sai dove finisce in alto e non sai dove finisce in basso».

E lo ha detto bene Bill Clinton, in campagna elettorale e da presidente: «Siamo tutti più ricchi. Siamo tutti più poveri». È stata certo una fortuna per tanti ingegneri indiani, che tutto il sistema di controllo della TWA fosse dislocato a Bombay, dove costava meno e dove la TWA non volava nemmeno. Ma quando quella compagnia aerea scompare, inghiottita dalle sane forze del mercato, chi lo dice a chi, chi si incontra con chi, chi media e chi spiega che cosa?

Enron e Worldcom erano certamente grandi aziende globalizzate del mondo, con grandi bilanci. Se quei bilanci sono stati a volte falsificati, è perché non è facile stabilire dove è, in un mondo vasto e aperto e attraversato da venti fortissimi di creazione e di distruzione, il punto di controllo, e quello di responsabilità. Adesso milioni di azionisti rimasti del tutto a mani vuote dicono che non si fidano.

E lo dicono anche le folle di giovani che viaggiano di città in città attraverso il mondo, per incontrarsi e discutere i misteri del global e fare qualcosa di umano come stare insieme, con qualche fastidio dei cittadini visitati, che vorrebbero rimanere esclusivamente locali.

Il fatto è che nel mondo globalizzato viaggia splendidamente il danaro. Tempo fa c'è stata una bella pubblicità televisiva in cui si vedevano due coniugi che vanno a portare il loro danaro lontano. Non sanno dove, ma sono ansiosi e felici dell'espediente. Qualcuno, altrove, tratterà bene quel danaro, lo farà rendere. Viaggiano bene le merci, in grandi containers che qualche volta, solo per sbaglio, contengono esseri umani che in genere giungono sul posto morti o avariati. Tutti gli altri li chiamiamo turisti (da restituire ai loro posti di provenienza subito dopo avergli fatto pagare certe somme per il passaggio); e clandestini, da ricercare, inseguire, perseguitare, arrestare, rimandare indietro, o lasciar morire sulle spiagge.

Viaggiano bene, per esempio, le valvole cardiache. Ma poiché il punto in cui sono prodotte e quello in cui sono «indossate» sono lontani, può accadere che a volte quelle valvole si rompano. Se la distribuzione è bene organizzata attraversa tutto il mondo, ci saranno al massimo dieci casi da perseguire in un dato luogo, e uno o due medici da arrestare, e tutto finisce lì.

E intanto fabbricazione e distribuzione continuano senza disturbo. E non è la fine del mondo, perché è vero che c'è molto di creativo e di nuovo e di mai accaduto, in tutti i sensi, nel mondo globalizzato. Ma per adesso la globalizzazione non è «andata e ritorno», come la democrazia. È «One way» direzione unica, dal centro alla periferia. Per questo la periferia è un po' in tumulto.

Ed è naturale che la folla di coloro che dicono «Fatemi capire come avviene tutto ciò e chi decide e garantisce e controlla e dove è andato a finire il mio voto?» sia fatalmente più grande, molto più grande, di coloro che in qualche punto lontano, che non si vede, mandano in giro ordini (nel senso commerciale) ordini (nel senso bancario) ordini (nel senso militare) ordini, nel senso di nuovo ordine negli scaffali del mondo.

Non è che tutto ciò sia inaudito. Accade, come il terremoto. E c'era infatti a Larino un operaio con la casa lesionata che diceva al Tg3, l'altra sera: «Prima succede quel che succede alla Fiat, e poi questo terremoto».
Ma non ci eravamo lasciati con l'idea dei diritti individuali, dei diritti umani, dei diritti civili, dei diritti sociali? Adesso, in molti stanno cercando i percorsi e i fili tra questi diritti, che sono il fondamento di ciò che chiamavamo democrazia, e i punti di decisione del mondo.

Hanno la pretesa ostinata di vedere, spiegare, capire, discutere. E magari, quando si è in tanti e si è insieme e le cose nascono da un voto, anche di decidere.

07.11.2002

08.11.2002
La grande minaccia delle privatizzazioni
di Antonella Marrone

Secondo giorno. Il Forum sociale Europeo sta entrando nel vivo della sua «storia». Avrete capito che qui si discute molto, anzi, qualcuno potrebbe dire che si «chiacchera» molto. Eppure - forse più difficili da raccontare che non il «colore» del Social forum - ci sono anche molti fatti. Dalle parole alle proposte, alle campagne. Ne scegliamo una. Ci proviamo. Titolo: il Gats, un accordo sconosciuto eppure determinante per la vita di tutti noi, ignari cittadini di un mondo che vive, da Nord a Sud, da Est a Ovest, le stesse distorsioni, le stesse imposizioni. Dalla critica all'Accordo Generale sul Commercio dei Servizi (Gats, appunto) verrà lanciata una campagna di pressione contro le privatizzazioni. È un accordo firmato nel 1994 che tende a liberalizzare tutti i servizi a livello mondiale. Per capire il pericolo che incombe su di noi dovete sapere che per l’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto)i servizi sono tutto ciò che è immateriale: banche e turismo, assicurazioni, acqua, sanità, educazione. Liberalizzare vuol dire eliminare le barriere che circondano i servizi pubblici per far entrare gli investimenti privati. Ci spiega Alessando Pelizzari, sociologo italo svizzero, membro del coordimanento nazionale di Attac svizzera: «Vuol dire ad esempio, permettere a Vivendi (il più grande consorzio mondiale dell'acqua) di comprare acqua in America Latina, alla Rwe, il più grande consorzio elettrico della Germania, di comprare le aziende elettriche comunali. O permettere alle multinazionale della sanità negli Stati Uniti di comprare ospedali in Europa. In realtà il Gats cercherà di generalizzare una tendenza già in atto. Finora le regolamentazioni nazionali non hanno permesso di alzare i prezzi, ma i prezzi sono già stati alzati». Altri rischi: il Gats vorrebbe impedire agli Stati di sovvenzionare i servizi pubblici perché, ovviamente, per la libera concorrenza non è giusto che le aziende pubbliche siano sovvenzionate e le altre no. «In Canada, ad esempio, per gli effetti del Nafta, l'accordo per il commercio del NordAmerica, simile al Gats, la Ups, noto corriere di trasporto, ha portato il governo canadese davanti al tribunale della Wto perché sovvenzionava la posta. "Dovete sovvenzionare anche noi". Il processo è in corso, ma il governo canadese non sovvenzionerà la Ups e per questo dovrà tagliare le sovvenzioni alla posta pubblica». Il meccanismo è infernale e non è facile spiegarlo, ma sostanzialmente avviene questo: ogni paese presenta in sede di negoziato, una lista di settori che vuole aprire al mercato estero, mentre i settori che non sono nella lista restano, diciamo, interni. I negoziati cominciano proprio sulla discussione di queste liste: quello che si vuole e quello che si è disposti a dare. Quando un settore viene liberalizzato (mettiamo l'educazione o la sanità) non è più possibile tornare indietro, il processo di liberalizzazione va avanti sempre più ad ogni negoziato e si può tornare indietro solo a prezzo molto alto. La campagna contro le privatizzazioni viene lanciata ufficialmente dai vari Attac europei, da molte Ong, da tutti i movimenti che avevano manifestato contro il MAI (Accordo multilaterale degli investimenti),da sindacati ed è coordinata dalla rete «Seattle to Bruxells»: «Il Gats resta qualcosa di molto astratto per la gente. Abbiamo già iniziato campagne di sensibilizzazione, ma vogliamo legare tutto ciò a qualcosa di concreto, mettere insieme le lotte che si sono messe in moto in tutta Europa contro le privatizzazioni. Nel seminario che abbiamo fatto qui a Firenze, per tre giorni,abbiamo ascoltato testimonianze tutta Europa. A Palermo c'è una campagna contro la privatizzazione dell'acqua, così come c'è a Neuchatel, in Svizzera, contro Nestlè che vuole comprare l'acqua della cittadina. Non sapevano di fare la stessa lotta. Un altro punto è: siamo contro le privatizzazioni, ma per che cosa siamo? La risposta non è facile. Faccio un esempio. Se in Italia parli di servizio pubblico, di sanità e proponi un modello pubblico, la gente inorridisce pensando a quel che è stato nella propria storia nazionale e senza sapere a che cosa va incontro con le privatizzazioni. Allora vorremmo mettere in rete anche diverse esperienze di riflessione su possibili alternative». Nasce così lo slogan di discussione «No al privato, no allo Stato, si ad una proprietà partecipativa». Ovvero: controllo sociale sulla produzione dei servizi pubblici. I servizi pubblici sono il nocciolo della questione. Non solo per quanto riguarda l'aumento dei costi, ma anche per quanto riguarda il mondo del lavoro (tagli degli organici, precarietà, peggioramento delle condizioni contrattuali, mobbing) e la qualità dei servizi. Un servizio pubblico partecipativo: sarà il tema di un possibile incontro europeo nel prossimo anno in cui mettere insieme le riflessioni su questo tema.

I no global? O noiosi o violenti

di Rina Gagliardi

Il Social Forum è cominciato in un clima straordinario: anche i più ottimisti, o i più speranzosi, quasi non credono ai loro occhi. Una marea di giovani in carne ed ossa sommerge pacificamente la città di Firenze, come mossa da una corrente "sotterranea" tanto invisibile quanto ad alto voltaggio. Basta guardare le immagini televisive, per percepire la forza di questo incontro di massa, che da un seminario passa ad un’assemblea, da una festa di piazza ad una manifestazione, da un confronto sulla "sovranità alimentare" ad un’attiva mobilitazione contro la guerra imperiale: è la realtà umana e politica che si chiama "movimento dei movimenti", periodicamente data per morta, in crisi, in difficoltà, ma più viva e vitale che mai. Tanto è viva e vitale, da costringere il sistema dell’informazione a prenderne comunque atto - alcuni, pochissimi, con piacere, molti con malcelato disappunto, i più con aperta ostilità.
Soffermiamoci un momento sulle diverse modalità di questa rappresentazione.

In primis, certo, c’è la stampa della destra esagitata ("Firenze costretta al coprifuoco", secondo "Il Giornale") e\o fallaciana ("Firenze, il mattatore è un buffone", secondo "Libero"), che scrive, né più né meno, che un cumulo di bugie. Non innocue, no, ma quasi dichiarate come tali. Più articolato e sottile l’atteggiamento dei grandi quotidiani, soprattutto di quelli così detti "d’opinione": non possono non registrare l’evento, e soprattutto il suo splendido avvio, ma continuano a sottolineare uno "stato di tensione" a tutt’oggi non suffragato da alcun fatto. "Firenze blindata, in piazza festa no global. Molti negozi chiusi", annuncia il "Corsera"; "Social Forum senza tensioni", titola "Il Sole 24 ore"; "Firenze tra festa e tensione", strillacchia il "Messaggero", che sceglie, come sempre, di barcamenarsi tra gli opposti; "Social Forum. Atto primo senza scosse", specifica Avvenire - sottinteso, per ora. Vien da dire: da sé se la cantano e da sé se la suonano. Ci hanno spiegato per giorni e giorni - massimamente il quotidiano di via Solferino - che lì arrivavano i barbari, i saccheggiatori, i selvaggi. Ci hanno preconizzato il crollo degli Uffizi, la caduta del David di Michelangelo (in copia), la devastazione di Ponte Vecchio. Ci hanno pre-rappresentato la serrata di tutte le botteghe d’ogni ordine e grado. Ma poiché non è successo nulla di tutto questo, poiché è successa - sta succedendo - davvero un’altra cosa, cos’altro possono fare se non titoli che smentiscono i loro malauguri? Titoli, appunto, cosparsi di "senza": senza il caos e gli incidenti al quale loro hanno legato l’immagine del movimento, e le paure dei buoni borghesi.

Infine, c’è il caso del Foglio, giornale di destra spesso invidiabile per intelligenza e humour: in questo frangente, pensa di cavarsela con un titolo sfottente ("Scampagnata Social Forum. Una noia mortale"), che però è anche e soprattutto un raro esempio di disonestà. Insomma, il movimento non ha scampo: o è pericoloso e violento, o è noioso e inutile. In ogni caso, secondo il quotidiano di Giuliano Ferrara, non ha diritto ad esistere.
Invece, il movimento esiste. E cresce. A dispetto delle immagini che gli vorrebbero cucire addosso, e che vanno tutte, davvero, troppo strette.

P. S. - A proposito, la nuova leader dei black bloc, Oriana Fallaci, si aggira per Firenze. Attenti: è travestita da signora di mezza età, e ha un solo chiodo fisso: rubare la scena al movimento. Massima vigilanza, si sarebbe detto un tempo, e nessun cedimento alle provocazioni. 8 novembre 2002