DA - L'UNITA'
L'INTERVISTA A MASSIMO D'ALEMA.
Vi racconto l'Iraq
che ho visto
Massimo D'Alema è appena tornato da Baghdad dove alla
guida di una
delegazione dell'Internazionale socialista ha incontrato
i dirigenti della
ex-opposizione irachena. Gli chiediamo una valutazione
sull'esito della
missione.
In questi giorni sei stato
testimone della situazione drammatica e
paradossale in cui si trova l'Iraq: la guerra è finita,
eppure ancora si
spara e si uccide. Che impressione hai ricavato?
«Paradossale non so. Drammatica certo. È un paese in
cui di colpo è venuta
meno ogni autorità. Baghdad ha 4 milioni di abitanti con
enormi problemi di
sopravvivenza. Non si raccoglie più l'immondizia, le
macerie sono ovunque,
ogni tanto manca la luce e le scorte di cibo marciscono
nei frigoriferi
spenti. Chi si aspettava la libertà, la democrazia, il
benessere, la
felicità universale oggi si sente deluso. Poi c'è anche
chi, legato al
vecchio regime, reagisce e tenta di riorganizzarsi. Qui
vedo errori
madornali commessi dagli americani. Ad esempio lo
scioglimento
dell'esercito. Come dire la bellezza di quattrocentomila
persone, molte
delle quali ora si ritrovano disoccupate ed umiliate.
Situazione pericolosa,
visto che una parte di costoro ha conservato le armi. Poi
c'è la
debaathizzazione della società. Una scelta
comprensibile, purché sia attuata
con saggezza. Ricordiamoci che quello di Saddam era un
regime di massa, con
una sua base di sostegno abbastanza ampia. Il Baath aveva
centinaia di
migliaia di iscritti. Non possono essere tutti emarginati
indiscriminatamente. Insomma, c'è una parte della
popolazione che si sente
direttamente colpita e prova un senso di frustrazione.
Un'altra che è
preoccupata perché non si sente sufficientemente
protagonista dei
cambiamenti in atto, e vede tradite le promesse di
autogoverno».
Veniamo alla ragione del viaggio:
incontrare assieme a una delegazione
dell'Internazionale socialista (Is) i partiti e i
movimenti
dell'ex-opposizione in vista di una conferenza sul futuro
democratico
dell'Iraq che l'Is conta di ospitare a Roma in luglio.
Missione compiuta?
«Direi di sì. Abbiamo ricevuto una grande accoglienza.
La nostra era la
prima missione politica del dopo-Saddam, ed è stato
notato con soddisfazione
dai nostri interlocutori il fatto che noi fossimo lì non
ospiti della
coalizione anglo-americana, ma delle forze politiche
irachene, e in
particolare dell'Unione patriottica del Kurdistan (Upk)
che fa parte
dell'Is. Già la prima sera abbiamo partecipato ad un
ricevimento e preso
contatto con 52 diverse realtà politiche, religiose,
singoli intellettuali.
La televisione locale ne ha mostrato le immagini. È
stato insomma un evento.
Verso di noi abbiamo notato grande interesse e una
massima disponibilità a
venire a Roma per la conferenza, ostacoli tecnici a parte
(ad esempio il
nullaosta americano). Questo vale non soltanto per i
gruppi di orientamento
progressista, ma anche ad esempio per lo Sciri (Consiglio
supremo della
rivoluzione islamica in Iraq), cioè il partito sciita
più vicino al regime
iraniano. Informalmente, nei locali della Delegazione
diplomatica italiana,
abbiamo anche incontrato membri dell'autorità della
coalizione, in
particolare il rappresentante inglese Sower,
ex-consigliere diplomatico di
Tony Blair».
Tra i vari partiti nemici della
dittatura, prima della guerra c'erano
divergenze sull'opportunità e i modi dell'intervento
armato. Oggi le
posizioni sembrano ravvicinarsi nel segno di una critica
al modo in cui gli
Usa stanno gestendo il dopo-Saddam. È così?
«Sulla guerra quelle divergenze restano. Sciiti e
comunisti ad esempio
restano dell'idea che sia stata uno sbaglio. Altri
pensano che gli Usa
abbiano avuto comunque il grande merito di liberarli. Io
non ho cambiato
opinione, ma certo, vista da vicina, la dittatura di
Saddam appare come un
libro ancora tutto da scrivere, di inimmaginabili orrori.
Comunque, il tema
ora è un altro. Alcuni dei nostri interlocutori
sostengono questa tesi: gli
americani hanno fatto quello che dovevano, è meglio che
restino altrimenti
sarebbe il caos, però ora bisogna costruire una
democrazia e a questo scopo
l'Europa può aiutarci più degli Usa. I più avveduti
infatti sono critici
verso gli americani, che non mantengono l'impegno
all'autogoverno iracheno.
Vorrebbero che un organismo ad interim iracheno
affiancasse la coalizione
nella gestione del potere. Io credo che gli americani ne
trarrebbero essi
stessi vantaggio. Faccio un esempio. È difficile per
loro garantire la
sicurezza. I check-point, i presidi stradali, sono
affidati a soldati
pesantemente armati, che non hanno alcuna esperienza di
ordine pubblico,
sicurezza urbana. Quando un corteo di disperati si mette
a tirare sassi,
loro sanno solo fare due cose: sparare o scappare.
Poiché scappare non
possono, sparano. È già accaduto più volte, anche a
Baghdad durante la
nostra permanenza».
Cronisti e analisti politici
segnalano due tipi di pericoli incombenti. La
situazione sfugge di mano agli americani e degenera in
una guerra di tutti
contro tutti, arabi contro curdi, sunniti contro sciiti.
Oppure si precipita
verso una nuova oppressione, non più baathista ma
teocratica, di stampo
sunnita o sciita. Timori esagerati?
«Sono rischi reali. Sinora però lo sforzo delle
principali forze politiche
muove da una piattaforma comune. Vogliono rapidamente
essere associati alla
gestione del potere, e sanno che possono riuscirci solo
se restano uniti.
C'è una guerriglia anti-americana, ma a quanto ci hanno
spiegato è condotta
da gruppi legati al vecchio regime. Ex-militari,
funzionari di partito, e
anche estremisti sunniti. La cosa è solo apparentemente
contraddittoria,
perché il regime baathista aveva le sue roccaforti
proprio negli ambienti
sunniti. E infatti non ci sono azioni armate contro gli
americani né nel
nord curdo né nel sud sciita. L'area di instabilità si
trova fra Baghdad e
Tikrit, dove Saddam aveva il maggiore sostegno, una zona
tradizionalmente
sunnita. Fra i curdi, dopo l'accordo fra l'Upk e i
democratici di Barzani,
c'è armonia, e tutti assicurano che vogliono autonomia
federale ma
nell'ambito di un Iraq unito. Quanto agli sciiti, Adil
Abdul Mahadi,
consigliere politico di Hakim, capo dello Sciri, ha quasi
ostentatamente
insistito sulla necessità di un Iraq multireligioso e
pluralista,
assicurando che il loro obiettivo non è fare come in
Iran. Reggerà tutto
ciò. Non lo so. E proprio per questo è importante che
non vada perso questo
spirito costituente, questo clima da Cln. È questo il
momento in cui vanno
aiutati e incoraggiati. La nostra missione aveva questo
scopo. È importante
che le nuove forze politiche irachene non abbiano
rapporti solo con gli
occupanti, ma sentano intorno a sé una solidarietà
internazionale più
ampia».
L'Onu può ancora fare qualcosa?
«Sicuramente. Oil for food è ancora adesso il
principale sostegno economico
del paese. Ma scade il 25 novembre ed è impensabile che
prima di allora
l'Iraq sia già in grado di provvedere ai propri bisogni.
Il cinquanta per
cento degli abitanti sono disoccupati, e c'è un diffuso
timore per l'impatto
sociale negativo che potrebbe avere un programma di
privatizzazioni selvagge
eventualmente decise dall'autorità americana in loco.
Servono invece
trasformazioni graduali. L'Iraq è un paese
potenzialmente ricco. Una risorsa
fondamentale, oltre al petrolio, è l'acqua. I partiti
iracheni vogliono
tornare il più presto possibile ad essere padroni in
casa loro. Qui sta il
maggior punto di frizione con gli Stati Uniti, che sono
riusciti a far
passare all'Onu una versione riduttiva della
partecipazione irachena al
potere: non governo provvisorio, ma amministrazione ad
interim».
Ecco, l'impressione è che Bush
dopo avere escluso l'Onu dalla gestione della
crisi, ora voglia quasi escludere gli iracheni dalla
gestione dell'Iraq? Si
può arginare in qualche modo questa ostinazione
recidiva?
«Innanzitutto sarebbe sbagliato dire agli americani:
avete voluto fare la
guerra, ora arrangiatevi. No, proprio noi che siamo stati
contrari
all'attacco, siamo venuti a Baghdad per testimoniare che
ci sta a cuore il
futuro democratico del paese. L'Italia può fare cose
utili. Non inviando
soldati a partecipare ad un'occupazione illegittima, ma
fornendo aiuto
umanitario e appoggio alla ricostruzione. Del resto credo
che gli Usa
comincino a rendersi conto che rischiano di impantanarsi,
che lo stillicidio
di attentati e imboscate è più difficile da affrontare
che non la guerra,
dove la loro supremazia era soverchiante. Per ora hanno
contro di sé solo
una minoranza di elementi pro-Saddam. Ma se rompessero
con gli sciiti o con
i curdi, per loro la situazione diventerebbe ingestibile.
Dobbiamo aiutare
gli americani a correggere i propri errori. La conferenza
che
l'Internazionale socialista organizzerà a Roma servirà
anche a questo».
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DA - L'UNITA' -
L'INTERVISTA
Berlusconi
dice quello che vuole Previti
MILANO - Lui la Colomba e Previti il Falco. Vittorio
Dotti, lavvocato «en
plein air» che quando aveva come principale cliente
Silvio Berlusconi
operava «senza nulla da nascondere» e laltro
sotto accusa per corruzione
giudiziaria. Rispetto alle vicende che hanno dato origine
al serial «Toghe
sporche» Dotti è soprattutto un ex: ex difensore di
Berlusconi, ex fidanzato
di Stefania Ariosto, ex capogruppo di Forza Italia.
Eppure nel suo monologo
al processo Sme anche Berlusconi lha tirato in
ballo, sostenendo che è il
regista che ha guidato le confessioni della «teste
Omega».
Dotti replica: «Berlusconi fa queste affermazioni forse
perché richiesto da
Previti». Quanto a lui, la testimonianza della Ariosto
gli ha provocato solo
guai: ha perso il potere (ora fa parte del quasi
sconosciuto raggruppamento
dei Repubblicani europei) e il suo migliore
cliente lo ha perso. Continua
ad esercitare la professione di avvocato, titolare di uno
studio
prestigioso, finestre sul Duomo. Ma le parcelle
doro sono un miraggio di
altri tempi.
Avvocato Dotti, su una cosa sono
tutti daccordo, accusatrice e accusati:
allorigine della testimonianza di Stefania Ariosto
cè lei, che lavrebbe
indotta a parlare per mettere nei guai sia Previti sia
Berlusconi. Lo dicono
tutti e tre. Lei cosa risponde?
«Dico che è una follia. Avrei dovuto essere un pazzo o
un suicida per fare
una cosa del genere. Ero il capogruppo di Forza Italia,
come avvocato avevo
come cliente Silvio Berlusconi e non avevo nessun
problema di rivalità con
Previti. La mia corrente era forte, potevo contare su un
larghissimo
appoggio allinterno di Forza Italia. Che bisogno
avrei avuto di scatenare
questa guerra? Di mettermi contro il mio capo politico,
che al tempo stesso
era mio cliente e mio amico?».
Senta avvocato, lei oggi è una
persona del tutto innocua: non ha potere in
ambiti politici e fa il suo mestiere senza intralciare
nessuno. Per quale
motivo dovrebbero accanirsi tutti contro di lei? Anche
Berlusconi lha
tirata in ballo.
«Le sue dichiarazioni mi hanno sorpreso e sono convinto
che le abbia fatte
perchè richiestone da Previti, è una battuta che
rientra in calcoli
difensivi. Lui sa benissimo come stavano le cose: ho
partecipato a questa
avventura di Forza Italia perchè mi piaceva lidea
di creare un partito
nuovo. Avevo già ottenuto il massimo, ero capogruppo
alla Camera e non posso
credere che Berlusconi pensi davvero che volessi fargli
le scarpe e
diventare il leader del partito o il capo del Paese. È
troppo intelligente
per credere a una fesseria del genere. Lo dice perchè
sono affermazioni che
gli mettono in bocca nellambito di precise
strategie di difesa, sua o di
altri».
Perfetto e Previti e Stefania
Ariosto perchè la indicano come il regista di
tutta questa operazione?
«La Ariosto vuole alleggerire le sue responsabilità
scaricandole su di me:
dopo aver lanciato il sasso ritira la mano. Previti si
nasconde dietro alla
teoria del complotto: vuol sostenere che le accuse contro
di lui sono false
perchè mosse da un intento politico, dalla mia volontà
di liquidarlo per non
avere rivali. Però vorrei anche sottolineare una cosa:
Berlusconi e Previti
sostengono che la Ariosto mente su tutto ma chissà
perchè, quando dice che
sono stato io a indurla a parlare direbbe la verità.
Quando fa comodo
diventa attendibile».
Ammetterà però che è difficile
credere che lei non sapesse niente delle
rivelazioni che Stefania Ariosto voleva fare. La teste
«Omega» ha consegnato
alla guardia di finanza appunti molto informati sulla
vicenda Mondadori, che
sembravano dettati da un avvocato.
«Stefania Ariosto mi ha informato a cose fatte della sua
decisione di
deporre. Io non potevo fare nulla per dissuaderla.
Capisco che sia facile
credere che le sue informazioni provenissero da me, ma
semmai è vero il
contrario. Lei era amica di Previti, lo conosceva da
molti anni e fu lei a
presentarmelo. Ha parlato di due episodi in cui ha
assistito a dazioni di
denaro ai giudici, ma sono fatti precedenti alla nostra
conoscenza e di cui
lei era al corrente e non io».
Avvocato, quando ha testimoniato
in aula ha detto che Previti era molto
chiacchierato, che i suoi metodi per vincere le cause
erano noti in tutta
Roma.
«Lho detto e non ho motivo di negarlo, il fatto
che pagasse i giudici era
una voce sulla bocca di tutti, ma ho parlato di voci,
chiacchiere. Io di
prove non ne ho».
Lei era lavvocato di
Berlusconi, non ha mai intuito che esistesse un
comparto estero della Fininvest, con una contabilità
sommersa, che serviva a
creare fondi neri?
«Le cause di cui mi occupavo io riguardavano fatti
trasparenti, alla luce
del sole. Sapevo che cerano società estere, ma non
ero al corrente di
irregolarità. Evidentemente erano altri ad
occuparsene».
Vuol dire che lei operava alla
luce del sole mentre Previti era lavvocato
del sommerso?
«Questo lo ha detto lei, ma certamente i nostri modi di
operare, anche come
avvocati erano diametralmente opposti».
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DA - LIBERAZIONE -
L'INTERVISTA A BERTINOTTI
Intervista a
Fausto Bertinotti: «Abbiamo perso, ma 11 milioni di Sì
restano»
Ma lo rifaresti?
Bertinotti risponde citando la poesia di Costantino
Kavafkis in onore di
coloro che hanno difeso le loro Termopili ben sapendo che
i Medi sarebbero
comunque passati. «Se non avessimo fatto il
referendum avremmo lasciato
libero il campo al rullo compressore di Berlusconi e non
si sarebbero accesi
i riflettori sullinvisibilità del lavoro
dipendente. Questo è un risultato
che resta».
Siamo al termine di una fitta mattinata di chiacchiere e
riflessioni sull
andamento del voto. Incontriamo più volte il segretario
di Rifondazione:
prima è lui a venire a "Liberazione" per un
ringraziamento alla redazione,
poi cè la conferenza stampa, infine partecipiamo a
unintervista collettiva
con altri giornalisti. Il giudizio è allo stesso tempo
netto e articolato:
«Abbiamo perso, ma nel paese resta
uningiustizia. Questo dato non potrà
non pesare sul comportamento delle opposizioni e sul
rapporto tra
centrosinistra, Rifondazione e movimenti. Ma anche sul
rapporto tra politica
e società che resta il nodo centrale».
La sconfitta
Lammissione della sconfitta è immediata ma senza
catastrofismi: «Mi
interessa evitare tentativi di depistaggio. Abbiamo perso
per una ragione di
sostanza che quindi va indagata. Avessimo raggiunto il
30-35% avrei detto
che è stata colpa del centrosinistra,
delloscuramento mediatico. Ma qui cè
qualcosa di più: non siamo riusciti a trasformare una
battaglia giusta in un
senso comune diffuso, in unopinione pubblica. In
altri termini non siamo
riusciti a esercitare egemonia a fare quello
che è riuscito al movimento
contro la guerra che ha calamitato il consenso di una
maggioranza di
cittadini, divenendo così un fatto di massa».
In realtà linsistenza sulla sconfitta, oltre a
rappresentare un fattore di
eleganza politica, ha ambizioni diverse, come
quella di non concedere
nulla a una sorta di settarismo che rimbalza
allesterno le
responsabilità. «A me interessa drammatizzare la
valutazione perché voglio
drammatizzare lindagine sul perché abbiamo perso.
Mi interessa, cioè, fare
una ricerca programmatica che tocchi le reali condizioni
di classe oggi, che
stanno alla base di questo risultato». Il punto,
continua Bertinotti, è che
non ci si può astrarre dalla «storia sociale del paese.
Usciamo da decenni
in cui il lavoro è diventato una specializzazione
settoriale non più un
prisma universale con cui leggere la politica. E i
lavoratori sono finiti
nel cono dombra dellagenda politica del
paese. Con questo referendum ne
sono in parte usciti, ma non al punto di ridefinire i
rapporti di forza
complessivi. Per questo abbiamo perso».
I rapporti a sinistra
Cè poi unaltra ragione di sconfitta ed è
«la vittoria, supposta, dell
autonomia della politica rispetto alla società.
Lindicazione della
stragrande maggioranza del mondo politico fa pensare che
questo abbia avuto
la meglio su un umore sociale e su bisogni espressi dal
basso. In realtà non
è vero, anche perché resta uningiustizia nel
paese e perché,
paradossalmente, nel momento in cui vedono rispettata la
propria indicazione
di voto, i Ds sono costretti a registrare unalta
affluenza alle urne da
parte del proprio elettorato». In quegli undici milioni
di Sì ci sono
soprattutto elettori di sinistra, basta guardare ai
risultati di Emilia e
Toscana, ma anche di Torino e Roma. «Dai dati - continua
Bertinotti -
verifichiamo che ha votato il popolo
partecipato, quello dei movimenti,
della pace, dallantica tradizione democratica e che
ha contribuito
attivamente alla rinascita della società italiana». In
effetti siamo di
fronte a un numero di Sì, oltre undici milioni, che
rappresentano circa i
due terzi della somma dellelettorato di
Rifondazione e centrosinistra
(oltre quindicimilioni alle ultime elezioni).
Come questo voto conterà resta da vedere. «Ovviamente
oggi il rapporto con
il centrosinistra è inquinato dallesito del
referendum. Un successo di
questo avrebbe spianato la strada a un confronto
programmatico. Oggi invece
siamo di fronte a una strada in salita, a una maggiore
difficoltà della
battaglia contro il neoliberismo. In luogo della
possibile coppia
unità/radicalità si riafferma la contrapposizione
moderati/radicali. Anche
perché i Ds hanno avuto un atteggiamento avventurista,
provocando un guaio
serissimo. Non tanto direttamente, quanto indirettamente,
alimentando il
coro dellastensione e avallando lidea della
politica contro il voto. Ma
senza calcolare le conseguenze che questo risultato avrà
sullatteggiamento
del governo e senza pensare che i lavoratori rischiano di
essere più soli».
Non disperdere il risultato
Ovviamente dallanalisi deriva liniziativa che
si intende seguire.
«Innanzitutto non disperdere il valore straordinario di
questa battaglia,
aver aggregato tante forze su un contenuto radicale. Oggi
abbiamo il compito
di dare sviluppo alle lotte sui temi indicati dal
referendum a partire dalla
precarizzazione totale del lavoro richiesta dal
governo». Ma cè un terreno
più complesso da affrontare, che forse avrà bisogno di
più tempo, quello del
rapporto tra politico e sociale, del cortocircuito che si
stabilizza tra le
due categorie e delle misure per sanare questa
contraddizione. In parole più
semplici si tratta di capire come questa iniziativa ha
ricadute sul piano
politico e come va inteso il rapporto con il
centrosinistra. «Le forze del
referendum dovranno rappresentare le proprie istanze
anche nel rapporto con
la politica. E finito lo schema in cui
centrosinistra e Rifondazione
discutono tra loro. Oggi la discussione avviene tra
molti: le forze, diverse
tra loro, del centrosinistra, il Prc, le forze di
movimento. A questo
schieramento ampio compete lonere di qualificare
lopposizione al governo
Berlusconi e di impostare un piano di lotte sociali
allaltezza».
Bertinotti
di Salvatore Cannavò
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DA - IL
MANIFESTO - L'INTERVISTA
Europa, la
politica che è mancata
Intervista a Elena Paciotti sulle battute finali della
Convenzione per la Costituzione europea: due passi avanti
e due indietro per un esito deludente. «Il vero problema
è la mancanza di una leadership europeista, in tempi che
domandano più Europa»
IDA DOMINIJANNI
L'ultima bozza, quella partorita nella notte fra giovedì
e venerdì dal Presidium della Convenzione per la
Costituzione europea, ha fatto tirare a tutti un respiro
di sollievo: compromesso raggiunto, sia pure a fatica,
fra intergovernativi e comunitaristi, fra paesi grandi e
paesi piccoli, fra i fan del superpresidente del
Consiglio e quelli del presidente della Commissione, e
perfino fra fautori del voto a maggioranza e fautori
dell'unanimità (ovvero del diritto di veto). La bozza
precedente, quella proposta la settimana scorsa dal
presidente della Convenzione Giscard D'Estaing, tanto
impresentabile da suscitare un coro di proteste (prima
fra tutte quella di Prodi), è stata effettivamente
migliorata in più punti: con il bilanciamento dei poteri
fra Consiglio, Commissione e Parlamento, con
l'istituzione del Consiglio legislativo, con la
ridefinizione e l'estensione del voto a maggioranza. Ma
pur sempre di un compromesso si tratta. E di un
compromesso provvisorio: la prossima e ultima sessione
plenaria della Convenzione, fissata per il 13, può
ancora intervenire sul testo che verrà poi sottoposto al
parere del Consiglio europeo di Salonicco del 20 giugno,
per poi approdare sul tavolo della conferenza
intergovernativa dell'autunno a presidenza italiana.
Insomma, siamo ancora alle premesse. E per quanto possa
far respirare di sollievo, l'esito a cui sta pervenendo
la Convenzione porta tutte le tracce del suo percorso
stentato e non è entusiasmante: «deludente» lo
definisce anzi Elena Paciotti, deputata europea ds e
membro della Convenzione.
Perché il risultato appare così inferiore alle
aspettative? E' solo un problema di ingegneria
istituzionale?
No, c'è una ragione politica. In questi anni è mancata
una leadership politica europeista. Ed è mancata proprio
mentre fra terrorismo, guerra, politica di potenza
statunitense il mondo cambiava vertiginosamente e
l'urgenza di un'Europa autonoma cresceva. Il vero
problema sta qui: fra la conferenza di Nizza del dicembre
2000 e oggi c'è stato un salto di scala del problema
della costruzione europea, senza una leadership politica
all'altezza di questo salto. Le Germania ha avuto poco
slancio e poco carisma. La Francia è stata frenata dal
suo nazionalismo. La posizione tradizionalmente
filo-Unione dell'Italia è venuta meno, anzi si è
ribaltata nel contrario - fatti salvigli ultimi giorni,
in cui i nostri rappresentanti nel Presidium hanno tenuto
le posizioni giuste. L'unica spinta vera è venuta dai
tre piccoli paesi del Benelux: troppo poco, rispetto alle
note resistenze della Gran Bretagna, della Spagna e dei
paesi scandinavi. Quanto ai nuovi arrivati, le condizioni
per il loro ingresso nell'Unione sono state dettate in
base agli standard economici e giuridici, ma nessuno li
ha saputi coinvolgere polititicamente nel progetto della
costruzione europea. E nessuno ha saputo delineare un
nuovo ruolo dell'Europa nel mondo globale.
«Due passi avanti e due indietro», così venerdì
hai commentato la bozza del Presidium. Dunque,
all'interno di un esito complessivamente deludente, c'è
almeno qualche motivo di soddisfazione parziale?
Coi due passi avanti alludevo al fatto che la bozza del
Presidium ha corretto in più punti l'impostazione di
Giscard, della quale tuttavia non può che risentire.
Più in generale, il risultato deludente della
Convenzione - i due passi indietro rispetto all'Unione
che avremmo voluto - risente del metodo di lavoro
complessivo della Convenzione.
Tu hai partecipato anche ai lavori della Convenzione
precedente, quella sulla Carta dei diritti. Sono state
due esperienze molto diverse?
Molto. La Convenzione sulla Carta dei diritti ha lavorato
come un vero gruppo, era più libera, credeva nel suo
obiettivo e si è giovata di una presidenza competente e
saggia come quella di Roman Herzog. La Convenzione per la
Costituzione invece è stata dominata dalla partita
intergovernativa che si giocava dietro le quinte, e
Giscard ci ha lasciati discutere ampiamente per un anno
ma ha cominciato a mettere le cose nero su bianco solo a
marzo, lasciando per ultimi i punti più spinosi che
avrebbero avuto bisogno di maggior confronto sul testo,
per poi sfornare la sua personale proposta suscitando una
marea di critiche. Il testo finale, pur migliorato,
risente di questo percorso, e risente anche di un deficit
di competenza giuridica. Per cui, ad esempio, la libertà
di circolazione delle persone e delle merci vi compare
tre volte, l'indipendenza della Corte di giustizia mai.
Pochi giorni fa Prodi disse che la bozza di Giscard
non era una Costituzione. La bozza del Presidium ci
assomiglia di più?
Non ci siamo ancora. Quello che abbiamo tra le mani non
è una Costituzione, è un trattato dell'Unione che
semplifica e coordina i trattati precedenti. Si dirà che
questo doveva essere, ma in realtà doveva essere
qualcosa di più: un trattato che fondava una
Costituzione. Giuridicamente parlando, significa che
questo trattato, che sarà ratificato secondo la
procedura tradizionale, cioè dal Consiglio
all'unanimità e dai parlamenti nazionali, avrebbe dovuto
prevedere di essere revisionabile con un'altra procedura,
cioè a maggioranza. Invece questo dispositivo di
revisione non c'è: per le revisioni che comportino
cessioni di sovranità all'Unione si continuerà a
decidere all'unanimità, e solo per gli «aggiustamenti»
minori si potrà decidere a maggioranza.
Veniamo ai punti più controversi. Quali sono stati
risolti meglio e quali restano irrisolti, nella bozza del
Presidium?
E' stata delineata una divisione dei poteri più rigida
fra Consiglio e Commissione, che salvaguarda le funzioni
e la rappresentatività della Commissione. La figura del
«superpresidente» del Consiglio prevista nella proposta
di Giscard è stata ridimensionata: non sarà «Mister
Europa», la faccia intergovernativa e priva di
legittimazione democratica dell'Unione, ma un chairman
privo di potere politico, col principlae compito di
costruire consenso all'interno del Consiglio. E' stata
ampliata la codecisione fra governi e Parlamento. E'
stato istituito - grazie alla determinazione di Amato, e
fra le resistenze degli attuali ministri di settore - il
Consiglio legislativo, un organo che ha il compito
cruciale di scrivere le leggi insieme con il parlamento,
in direzione di un sistema bicamerale. E' stata ampliata
l'area delle decisioni a maggioranza, soprattutto -
effetto dell'emergenza terrorista - nel campo delle
politiche di sicurezza e di difesa; ma non nel campo
della politica estera e delle politiche economiche e
fiscali. E qui veniamo ai punti più deboli. In materia
di politica estera, l'istituzione del Ministro degli
esteri è di sicuro una buona premessa per la costruzione
di una politica europea comune, ma senza il voto a
maggioranza le decisioni fondamentali resteranno in mano
ai singoli stati. C'è di più: nelle materie in cui la
bozza prevede cessione di sovranità dagli stati
all'Unione, ad esempio nella stipula di alcuni accordi
internazionali, non prevede tuttavia voto del parlamento.
Cosicché la cessione di sovranità si paga con una
sottrazione di controllo democratico. Finisco con questo,
che per me è un punto decisivo: l'Unione nasce con un
deficit dilegittimazione e controllo
democratico-parlamentare. Su questo punto avremmo dovuto
e potuto spenderci di più.
Oltre che su questi punti, restano le controversie sul
preambolo: sull'inserimento fra i valori dell'Unione
delle radici cristiane dell'Europa, e non solo.
A me pare ridicolo che si pretenda di scrivere la storia
della cultura europea in cinque righe: qualsiasi cosa si
metta dentro, si apre il problema di quello che resta
fuori. E bisogna sapere che qualunque valore si inserisca
in una Costituzione, si impegnano le istituzioni alla sua
osservanza. Il che vale evidentemente anche per le radici
cristiane. Mi meraviglia che Prodi se ne faccia
sostenitore, proprio lui che giustamente aveva scelto
come preambolo della sua bozza una formulazione scarna e
rigorosa, volta in avanti e non all'indietro.
Il fronte più europeista è compatto nel chiedere
un'Unione più comunitaria e meno intergovernativa. Ma
c'è chi obietta, anche da sinistra, che per questo passo
non ci sono le condizioni, o se ci sono sono tutt'altro
che favorevoli alla sinistra, come dimostrano le
divisioni europee sulla guerra all'Iraq. Che cosa
rispondi?
Nella sinistra c'è sempre stata una resistenza
all'Unione europea, sulla base del solido argomento che
il controllo democratico riusciamo a esercitarlo su scala
nazionale ma non su scala comunitaria. Senonché oggi
questo argomento non regge più: in tempi di
globalizzazione non c'è possibilità di contrastare a
livello nazionale tendenze planetarie. Dobbiamo per
necessità dare vita a una nuova forma di democrazia
sovranazionale, ancorata ai diritti fondamentali
garantiti da Corti autonome. Infatti io continuo a
pensare che il risultato più positivo della Convenzione
sia l'inserimento nella bozza di Costituzione della Carta
dei diritti, che va in questa direzione. Che a mio avviso
è quella giusta, assieme al rafforzamento del parlamento
europeo, il che comporta ovviamente l'invenzione di
politiche europee dentro partiti europei.
Ultima domanda: che pensi del dibattito sull'Europa
avviato pochi giorni fa da Habermas e altri intellettuali
sui principali quotidiani continentali?
Un'iniziativa ottima, casomai tardiva. Se si fosse
discusso di più nell'opinione pubblica, la stessa
Convenzione avrebbe avuto forse un respiro maggiore.
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