LA DIGNITA' DEL
LAVORO
In un'epoca che
inscrive nel suo statuto un uso ideologico della
flessibilità del lavoro, giova fare un breve excursus
storico sull'argomento, per comprendere che, in nome
della modernità, il concetto di comunità si sta
riducendo alla sua accezione reazionaria. Indubbiamente
il tema concernente il lavoro ha sempre suscitato
interesse; infatti, già Esiodo, nella Grecia antica,
parlava della dignità del lavoro e del suo posto
nell'ordine morale. Nel corso dei secoli, il lavoro,
però, è stato assunto in una duplice valenza: come
gioia e come pena. Per citare alcuni esempi, Tolstoj
ritiene che il lavoro renda crudeli, Zola loda il lavoro,
Sartre parla dei giorni maledetti della settimana.
Prendendo in esame Marx, Bergson, Freud, emergono tre
aspetti fondamentali: mezzo di sussistenza, soddisfazione
dei bisogni vitali e legame sociale. Al di là delle
diverse griglie interpretative, il dato inconfutabile è
che il lavoro dovrebbe essere fonte di gratificazione e
di socializzazione, ma, la verità fattuale dimostra che
è stato sempre il fattore determinante della
discriminazione sociale. Una visione sinistra è poi
quella della seconda guerra mondiale, basti pensare che
all'entrata del campo di Auschwitz vi era scritto:
"Il lavoro rende liberi" , un motto paradossale
e cinico, se si pensa che in quel campo sono stati
massacrati quattro milioni di uomini. Ovviamente, non
potendo trattare con dovizia di dettagli tutta la storia
del lavoro, circoscrivendo il discorso, si può formulare
una proposizione-chiave, ossia che non è l'attività
laboriosa e creativa, bensì la privazione del lavoro che
è intollerabile all'uomo. Facendo un'analisi globale sul
tema del lavoro, si evince che le società che hanno
preceduto il capitalismo erano caratterizzate da un
vincolo personale fra dominanti e dominati, mentre, con
il capitalismo, i rapporti sociali hanno assunto una
natura astratta, anonima. Attualmente, superata la fase
taylorista-fordista, tramontata la logica della
produzione di massa, sono venute meno la programmabilità
e l'uniformità. Senza voler enfatizzare il fordismo, è
lecito riconoscere che, per via della programmazione
strategica, garantiva il riconoscimento del lavoratore.
Marco Revelli sostiene che il fordismo è paragonabile al
cristallo, in virtù della sua linearità, invece, il
post-fordismo al fumo, per il suo carattere proteiforme e
inafferrabile. In questa nuova prospettiva, il lavoro
organizzativo destruttura, delocalizza il lavoro,
rendendolo flessibile, precario e sempre più
immateriale. Artatamente la flessibilità viene spacciata
come superamento della divisione del lavoro e come un
cambiamento epocale, che dovrebbe liberare l'umanità
dalle condanne bibliche e dagli effetti nefasti della
logica del mercato. In realtà, la flessibilità, è un
eufemismo che legittima un modello di lavoro iniquo e
servile. Ciò consente di eliminare la dignità del
lavoro, in sede politica, giuridica e sociale. Un aspetto
da non sottovalutare è che, nella fase odierna, il
capitale, per via dell'indefinito potenziamento della
tecnica, diviene accumulazione di conoscenza, ossia
capitale cognitivo. Roberto Finelli osserva che questo
paradigma richiede forza-lavoro mentale, sicché la
forza-lavoro cessa di essere il corpo e comincia ad
essere la mente. Al di là dei paradigmi diffusi
dall'inquinamento ideologico dilagante, emerge che, sia
pure in guise diverse, i meccanismi del capitalismo si
ripetono, perché alla base di tutti i processi, si
afferma sempre la sussunzione del lavoro vivo in lavoro
oggettivato. Purtroppo, nel dibattito contemporaneo, si
tende a raggiungere giudizi definitivi e a fare
previsioni epocali, spesso più suggestive che fondate,
più attive sul piano dell'immaginario che su quello di
un'analisi critica. A questo proposito Enrique Dussel
osserva che agli intellettuali sfugge la complessità e
l'ampiezza della situazione esistente, infatti, pochi
riescono a focalizzare l'attenzione sulla relazione tra
capitalismo avanzato del "Primo mondo" e lo
sfruttamento del "Terzo mondo". Partendo da
questi presupposti, Dussel sottolinea che la
globalizzazione, con la sua essenza disumanizzante, sta
perpetrando le oppressioni più brutali nell'America
latina. Preso atto che le osservazioni fatte non
risultano esaustive, ritengo che fare esplicito
riferimento al tema del lavoro vivo possa sortire effetti
positivi. Come lucidamente rileva Marx, il capitalismo
"succhia lavoro vivo e più vive quanto più ne
succhia". Il lavoro vivo è potenza, possibilità,
abilità, cioè capacità lavorativa del soggetto vivente
e, quindi, è forma reale, non feticizzata della persona,
ma diventa cosa,nella posizione feticizzata.
Attualmente,con il crescente dominio della tecnica, non
solo si ripropone, come vuole E.Severino, la dialettica
hegeliana del "Signore" e del
"Servo", ma si rivela anche attuale l'analisi
Marxiana fatta nei "Grundrisse", nel capitolo
delle macchine. Marx sostiene che, con il sistema
automatico delle macchine, l'attività dell'operaio è
ridotta a semplice astrazione di attività, sicché al
lavoro oggettivato si oppone il lavoro vivo. Ciò
significa che il lavoro vivo è ridotto a semplice
accessorio vivente di queste macchine, come mezzo della
loro azione. E' evidente che il lavoro vivo è la chiave
materiale di tutta la dinamica della produzione, è la
potenza che trasforma la natura in storia. Il lavoro
vivo, però, è "l'indomabile Dioniso della
libertà" e quindi, per la sua natura, non si può
adeguare ai parametri dell'alienazione ed è, proprio in
virtù di tali assunzioni, che può costituire l'elemento
dinamico di rottura del sistema. D'altronde, il lavoro
vivo, rappresentando la vis viva del soggetto vivente,
può, con la sua potenza, produrre vaste reti di lavoro
sociale autoorganizzato, fuori dalle catene del capitale.
Ne consegue che solo partendo dai bisogni reali, si pone
la dimensione politica dell'antagonismo tra capitale e
lavoro vivo. Vero è che la logica dell'azienda sopprime
gli antagonismi tra capitale e lavoro, spostando questi
antagonismi verso gli esclusi e i lavoratori periferici.
In questo quadro, stile Toyota, si inscrivono anche le
imprese subappaltatrici, che forniscono sottoinsiemi
completi, sviluppati con l'impresa-madre. Ciò consente
di imporre la flessibilità degli orari e degli organici
impiegati. Questo "disordine istituito" impone
l'esigenza di creare nuove relazioni sociali,nuovi spazi,
nuove forme di vita. In questa prospettiva, si dovrebbe
riconoscere a tutti il diritto di lavorare in modo
discontinuo, garantendo, nel contempo, un reddito
continuo. Ciò non significa optare per forme obsolete di
assistenzialismo, ma consentire la libertà di scelta.
Una nuova cultura del lavoro, dunque, per promuovere
l'autoorganizzazione del lavoro e creare una sovranità
individuale e collettiva del tempo. Anche a questo
proposito lo spettro di Marx torna a parlare affermando
che "il lavoro è il fuoco che da vita e forma; le
cose sono transitorie e temporali, giacché subiscono
l'attività formatrice del tempo vivente". Il lavoro
vivo, dunque, liberandosi dalle catene reificanti del
lavoro salariato, può produrre vita, società, cultura.
Wanda
Piccinonno
Riflessione
CaraWanda ho
trovato il tuo intervento, la
dignità del lavoro, oltremodo
interessante anche perchè contribuisce ad aprire una
questione, a mio modo di vedere, importantissima. La
questione è proprio quella del lavoro come attività che
conferisce dignità all'essere umano.
Io penso che,
più di ogni altra cosa, sia per l'uomo intollerabile la
sussunzione della propria attività in lavoro.
Qui di seguito ti/vi propongo un collage di vari testi,di
vari autori tra cui Marx,di cui troverai le dovute
citazioni, e poi Bifo, Bencivenga, il gruppo Krisis, e
me, indistricabilmente connessi a fare testo, che
propongono una visione del lavoro come una forma
dell'attività umana che dovrebbe scomparire.
All'interno del pensiero e della prassi dei movimenti di
autonomia operaia, il rifiuto del
lavoro, non soltanto quello
salariato, era considerato, oltre alla riottosa
espressione della soggettività operaia, il motore dello
sviluppo umano.
L'innovazione scientifica, la creatività, come lo
sciopero e il sabotaggio, sono espressioni, probabilmente
indirette, ma sicuramente determinate dal rifiuto del
lavoro. La tecnologia può essere vista come la risposta
del capitale al rifiuto del lavoro, come risultato della
lotta tra operai e capitale, come appropriazione
capitalista della creatività operaia. Lo sviluppo
tecnologico rappresenta una delle forme attraverso le
quali il rifiuto del lavoro entra in circolo nella
società, diventando un ulteriore sollecitazione verso la
scomparsa tendenziale del lavoro vivo. E così via. Il
rifiuto del lavoro produce tecnologia, la tecnologia
permette al lavoro umano di scomparire ogni giorno di
più. Nell'economia postfordista scopriamo invece che
tutto è diventato lavoro. Il lavoro fuoriesce ormai dal
dominio economico per penetrare tutta l'esistenza
sociale, fino ad arrivare ai minimi dettagli della vita
quotidiana e dell'esistenza singolare. Lo stesso tempo
libero è diventato un tempo in cui consumare i beni e i
servizi, visto che durante il tempo di lavoro non esiste
la possibilità di farlo, provvedendo così al
mantenimento dell'economia. Analizzando il nostro
linguaggio quotidiano scopriamo che quasi tutte le nostre
attività, anche inconsce, anche virtuali, sono definite
dall'imperialismo lavorista. Esperienze come il sognare,
il relazionarsi con altre persone, divengono lavoro sul
sogno, lavoro sulla relazione riportando ciò che è per
noi impercettibilmente estraneo, come l'attività del
nostro inconscio, ad una concettualizzazione che la
semplifica e al tempo stesso le fa perdere la sua
connotazione di esperienza altra. Lavorare è diventato
sinonimo di ogni attività, di ogni sforzo teso al
raggiungimento di un obiettivo. Se analizziamo il
pensiero di Marx ci accorgiamo che la differenza fra il
lavoro e l'attività umana in senso generico, è in
realtà una differenza labile ma concettualmente
importante.
"Noi
supponiamo il lavoro in una forma che appartiene
all'uomo. Il ragno compie operazioni che assomigliano a
quelle del tessitore, l'ape fa vergognare molti
architetti con la costruzione delle sue cellette di cera.
Ma ciò che fin dal principio distingue il peggior
architetto dall'ape migliore è il fatto che egli ha
costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla
in cera. Alla fine del processo lavorativo emerge un
risultato che era già presente idealmente. Non che egli
effettui soltanto un cambiamento di forma dell'elemento
naturale; egli realizza nell'elemento naturale allo
stesso tempo il proprio scopo, da lui ben conosciuto, che
determina come legge il suo modo di operare, e al quale
deve subordinare la sua volontà" (Marx, Il
Capitale)
Secondo Marx il carattere distintivo dell'attività umana
è il suo essere teleologico, cioè diretto
dall'intelligenza e consapevolmente finalizzato. Ciò che
trasforma l'attività umana in lavoro è proprio la
perdita, l'espropriazione di questa finalità
individuale. Nel lavoro compiuto da un operaio alla
catena di montaggio, come in quello del softwarista al
computer, o del creativo che immagina una nuova
pubblicità, la finalità è estranea all'agire
dell'individuo, è eterodiretta. L'attività non
appartiene al soggetto che la compie, né per la sua
concezione, né per le sue finalità, né per i suoi
prodotti, né per i suoi profitti. L'attività in questo
modo diventa passiva, dunque non è più un attività: è
lavoro.
"Il
lavoro è l'attività di chi si trova in una situazione
di minorità" (Krisis, 2000) E' l'attività di chi ha perduto la
propria libertà. L'estensione del lavoro ad un intero
sistema sociale equivale alla generalizzazione di una
dipendenza servile, la trasposizione a livello quasi
religioso di questo stato patologico. Nel momento in cui
non siamo più capaci di riconoscere il nostro padrone,
nel momento in cui il lavoro è diventato patologia, si
è instaurato nella nostra carne, ha assunto, come in un
film di Cronenberg, le sembianze di un mostro che ci
corrode dall'interno, la dipendenza sociale diventa un
rapporto astratto e proprio per questo totalizzante.
L'astrazione, il carattere che permette, secondo Marx, la
differenziazione tra lavoro ed attività, raggiunge
nell'epoca digitale, nel duemila cibernetico, la sua
perfezione. Il lavoro umano ha raggiunto una tale
capacità di astrazione da divenire superfluo: le
macchine possono virtualmente sostituirlo per intero.
Nei Grundrisse Marx ci parla proprio del processo di
estinzione del lavoro industriale, della formazione di un
sistema produttivo basato sul sistema di macchine, il
general intellect "Il lavoratore si presenta
soltanto come organo cosciente, in vari punti del sistema
di macchine, nella forma di singoli operai vivi,
frantumato, sussunto sotto il processo complessivo delle
macchine, esso stesso solo un membro del sistema la cui
unità non esiste negli operai vivi, ma nel macchinario,
che di fronte all'operaio si presenta come un possente
organismo contrapposto alla sua attività singola e
insignificante. Nelle macchine il lavoro oggettivato si
contrappone al lavoro vivo, nello stesso processo di
lavoro, come quel potere che lo domina e in cui il
capitale stesso consiste, per la sua forma, in quanto
appropriazione del lavoro vivo (
) L'aumento della
produttività del lavoro è la massima negazione del
lavoro necessario, è come abbiamo visto, la tendenza
necessaria del capitale. La realizzazione di questa
tendenza è la trasformazione del mezzo di lavoro in
macchine. Il valore oggettivato nelle macchine si
presenta come una premessa rispetto alla quale la forza
valorizzante della singola forza-lavoro scompare come
qualcosa di infinitamente piccolo" (Marx, Grundrisse)
E' proprio grazie al progresso scientifico,
all'accumulazione della scienza, alle forze generali del
general intellect, il cervello sociale, che l'operaio
diventa superfluo. La tendenza del capitale è proprio
quella di eliminare il più possibile il lavoro umano
necessario, il lavoro materiale, per sostituirlo con
l'impiego della tecnologia, della scienza. Ed è proprio
questa tendenza, insita nel capitalismo, che porta il
sistema produttivo oltre l'orbita del capitalismo stesso,
verso l'esaurirsi del capitalismo come forma di
produzione. La schizofrenia che viviamo oggi è dovuta al
fatto che il piano del cambiamento tecnologico, che porta
con sé i mutamenti produttivi, non è lo stesso piano su
cui scorrono lentamente le abitudini sociali, le
identità, i pregiudizi economicistici, le attese
esistenziali.
E' necessario appunto un cambiamento paradigmatico che ci
permetta di governare e di dispiegare completamente
questa nuova dimensione dell'attività umana, delle
tecnologie, delle interfacce, delle interazioni sociali. "Il capitale è
esso stesso la contraddizione in processo, per il fatto
che tende a ridurre il tempo di lavoro a un minimo,
mentre dall'altro lato pone il tempo di lavoro come unica
misura e fonte ella ricchezza. Esso diminuisce, quindi,
il tempo di lavoro nella forma del tempo di lavoro
necessario, per accrescerlo nella forma del tempo di
lavoro superfluo, facendo quindi del tempo di lavoro
superfluo la condizione di quello necessario. Da un lato
evoca quindi tutte le forze della scienza e della natura,
al fine di rendere la creazione della ricchezza
indipendente dal tempo di lavoro impiegato in essa.
Dall'altro lato esso intende misurare le gigantesche
forze sociali così create alla stregua del tempo di
lavoro e imprigionarle nei limiti che sono necessari per
conservare come valore il valore già creato" (Marx,
Grundrisse) Sono
proprio le vetuste forme del salario, della dipendenza,
della disciplina che imprigionano l'attività e
l'intelligenza umana in una gabbia paradigmatica. Non si
intravede all'orizzonte della storia della modernità
proprio la sua fine dialettica: il suo superamento. Ciò
che si presenta è invece un blocco patologico, un aborto
paradigmatico, un'escrescenza malefica.
Proviamo ancora una volta ad andare oltre. A cartografare
nuovi territori, a scambiare di posto tra figura e
sfondo, tra ciò che un'immagine tende a rappresentare e
ciò che serve solo a riempire lo spazio rimasto. La
soggettività umana nasce e si costruisce
autopoieticamente in un tempo ed in uno spazio diversi da
quelli della attività lavorativa, in termini temporali,
in termini di età, in termini politici: questo spazio e
questo tempo sono quelli dell'ozio, del non-lavoro, del
tempo "liberato" dalla schiavitù
capitalistica.
Saluti e Libertà
Carlo Scarfone
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