Di Maria Abatino

La terra manca.

La terra manca nei lavori qui presentati non perché non ve ne sia, ma perché al contrario, troppa è la sostanza fisica dei luoghi assolati del sud che qui si evocano.

E’ ovviamente la dimensione soggettiva dell’artista - ma del resto il Sud è un’anima, grande ed incompresa – pesante e greve nei suoi silenzi di grecità. E’ un Sud che, a guardarlo anche nelle vesti di osservatori attenti, non è mai così oggettivo, mai staticamente dato; è piuttosto un fondale su cui si depositano innumerevoli letture individuali, le quali poi, tutte, riportano a galla gli stessi segni del Sud come memoria. Il Sud come Pensiero, il Sud come Visione. Immagini di assolate nature i cui intonaci crollano ed i soli e le vele appaiono tra una crepa e l’altra dei muri. Così. Come nella follia di un pensiero che ci accomuna tutti ed ama questo atavico silenzio. E allora i soli e le vele, e la materia tutta si sfumano come in un remoto fotogramma in cui le cose sono – è certo che sono, sono lì, palesi in tutta la loro spudorata datità – eppure non sono. Non sono perché è poi solo carta quella che qui l’artista sceglie di esporre, sono poi solo accenni che ridotti, e ridotti e poi ancora più silenti, convertono il baccano del mondo in un’onda che passa, una striscia amara là dietro quella terra, l’accenno di una lettera mai scritta né spedita, di un messaggio alla deriva, di un riverbero di acque che si stemperano così come i pennelli dell’artista. E’ dunque una gestualità ricamata quella della mano stessa che nel suo mescere e tirare riflette il suo momento di esistenza – si dice: "io sono, perché qui sono" e lo riporta esatto sulla tela. Passa dunque una Kore, sulle acque di Zacinto, e lo sguardo dell’artista cade, ancora una volta, sui colori dei ciottoli di mare - del sole che vi si abbatte crudo - e si ferma, così come ogni volta l’animo umano fa sui bordi di una riva, a contemplare segni, sparute geometrie, corrispondenze. E’ un occhio che vaga solitario su questa terra spessa di colori.

E si assenta.

Abbassa ogni volume, e riporta una leggenda bianca popolata di simboli marinareschi, di pettini di gondola, di acque che si aranciano perché l’aria è fresca (e non poi così torrida);

e farfuglii di lettere srotolati come lenzuoli al sole, blaterano di quando una parola vale l’altra, (tutte ventilate queste lettere); lunghissime lenzuola bianche, ricamate da manine accovacciate sui ciglioni della strada, coi telai e le fedi nuziali a brandire, con l’ago tra le mani, le sorti della sposa novella e della ruota che gira, nell’ora accesa del meriggio che batte e del vento caldo che arriva.

Il sud che ci manca anche mentre lo vediamo e lo viviamo poiché sua e non di altri è proprio la infinita nostalgia; essa sta dentro i segni, asciugati di dettagli perchè un segno è solo un segno e noi umani siamo ben più di questo poco che proviamo a dirci. Il sud allora, riassunto in una linea bianca che il visitatore strapperà con il suo sguardo, scorgendovi i contorni di una crepa secca in uno scenario arido e assolato. Il sud, dove non può essere che manchi l’acqua. Il greco sud che ci si appiccica addosso come il sudore del lavoro dei campi, della colla bianca dei fichi ancora acerbi, dei terrazzi monchi da cui proprio non c’è nulla da vedere. Il sud da cui si vuol fuggire. Il sud brillante come gli ori del Mediterraneo, lo sbattere di porte ai confini del mondo, ancelle e mercanzie abbandonate laggiù, sui promontori di scirocco e nei fondali delle poesie di scuola- chissà dov’è quel sud. Quel sud che sappiamo essere stato. Quello che sappiamo essere ora. E quel viaggio tra i due estremi – il nostro intimo, personale Sud.