Di Antonietta Lelario

La leggerezza dell’essere

Le opere di Severina Di Palma mi sono sembrate la rappresentazione visiva di uno dei dilemmi che hanno accompagnato la ricerca del Circolo La Merlettaia in questi anni: cercare materiali, parole, relazioni vere e quindi fragili, e nello stesso tempo lasciare segni. Da anni io e altri costeggiamo questo bisogno: rinunciare all’arroganza del discorso forte, sicuro, duraturo e scegliere la parzialità di un punto di vista da cui non si può né si vuol vedere tutto, ma quel che si vede è vero e, nella sua verità, non riguarda mai solo chi parla o agisce: diventa o può diventare segno per altri.

Più volte abbiamo sostenuto che in questo percorso ci faceva da maestra l’arte. Certo, non quella con la A maiuscola, quella dei "poeti laureati" con cui già Eugenio Montale polemizzava, ma quella con cui tante artiste e artisti si sono cimentati nel secolo scorso e si cimentano ancora oggi, nella fatica di dire proprio la fragilità del nostro tempo, senza rinunciare però a trovarne un senso. È un’arte che io ho imparato ad amare e a decifrare sillabando come una bambina, ascoltando chi mi insegnava e mobilitando tutta la mia esperienza per capire. Ho gelosamente e gioiosamente conservato ogni segno.

La prima volta che sono riuscita a sentire il senso di una tela tutta bianca o di uno strappo nella tela, capendo, ma lasciando anche aperto il campo dei significati…! Katia Ricci, da cui ho imparato più che da altri, sa l’emozione, la riconoscenza da me provate.

Per questo, nelle opere di Severina Di Palma leggo la prevalenza del bianco, appena interrotto qua e là da accenni di colore, come bisogno di pulizia interiore, di silenzio, di infinito, forse di un divino non antropomorfizzato, sfondo costante e orizzonte che ci orienta rispetto alla confusione e ai rumori del nostro tempo. Non a caso su questo bisogno c’è molta ricerca femminile.

Severina Di Palma non cancella dal bianco i segni del tempo, anzi lascia che lo incidano, li cerca nell’antico e sempre vivo desiderio di inventare una lingua, li riconosce negli abbellimenti lasciati dalle donne nei corredi, nei vestiti, attraverso i ricami, i merletti: non puro ornamento, ma tracce di una lingua in cui vivevano sogni e speranze femminili.

All’infinito si richiamano anche le forme di molte sue opere in cui prevale la verticalità e il non concluso come nell’uso dello specchio per prolungare l’opera, nel riferimento alle strisce, al nastro o allo slancio delle colonne. Io vedo in lei lo stesso nostro desiderio di tenere insieme stabilità e tensione.

Mi riconosco. Rivedo la tenacia femminile che non vuole risolvere le contraddizioni zittendo una parte di sé, che vuole uscire da un momento storico così pieno di contraddizioni senza uccidere niente, cercando equilibri altri, spostando l’attenzione su altri desideri, rispetto al possesso delle cose e al controllo di tutto. È una ricerca, questa, sempre più diffusa tra uomini e donne.

Certo l’arte lo dice col suo linguaggio. E ognuno di noi la iscrive -questa ricerca- in una storia personale, la porta avanti con i mezzi che le sono propri, nei modi che riesce a realizzare. Ognuno cerca la forma del proprio destino, come dice Pia Marcolivio di Etty Hillesum, per significare questo intrico di necessità, a cui siamo in modo diverso inchiodati, e di libertà per come sappiamo stare alla necessità, lasciando in qualche modo la nostra impronta nel mondo -per il solo fatto che stiamo al mondo e ne facciamo parte.

Recentemente ho visitato due Chiese moderne a Roma, Dives in Misericordia di Richard Meyer, e Santo volto di Gesù di Piero Sartogo e Natalie Grenon, e sono rimasta colpita dal fatto che ritornassero alcuni elementi comuni che mi parlavano della spiritualità del nostro tempo: l’amore per la luce e le trasparenze, coltivato attraverso le grandi vetrate, chemettono in rapporto l’esterno e l’interno; la collocazione stessa della chiesa come un elemento che tiene conto del paesaggio senza opprimerlo o mortificarlo, ma ponendosi al suo interno con armonia; i molti passaggi fra dentro e fuori che parlano di apertura e di una possibile rinuncia a logiche identitarie. Questa forma della spiritualità mi riguarda e ne vedo traccia nelle opere di Severina Di Palma.

Queste ricorrenze mi permettono di pensare al linguaggio dell’arte come a qualcosa di profondamente personale, ma anche che non è mai solamente personale perché è il frutto di scambi, riconoscimenti, scarti, rafforzamenti: costruzione in cui sono impegnati gli artisti, ma anche noi che guardiamo, ci riconosciamo, ne parliamo, vi peschiamo segni per dire della nostra vita.