Ante scriptum

Anna Potito

 

Ante scriptum/prima della scrittura è la suggestione che ha suscitato in me, che non sono né critica né storica dell’arte, l’incontro con le opere di Severina Di Palma. La mia esperienza di studio e di lavoro nella scuola con le/gli studenti sui testi antichi, latini e greci, mi ha portato negli anni, nelle letture a confronto, a costruire quasi una tessitura continua di presente e passato, laddove io trovavo e improvvisamente perdevo qualcosa di me donna. Mi ritrovavo nelle tante eroine amate, abbandonate, sognate, deprecate, mi perdevo negli improvvisi silenzi della storia; sempre raccontata, quasi mai voce narrante. E’ diventata a poco a poco naturale la necessità di riscoprire le tracce di una tradizione di sapere femminile, di riallacciare i fili di una trama a volte lasca, di ricostruire una genealogia nella quale inscrivermi per ritrovare un senso nuovo del mio stare nel mondo. Una lettura in controluce per riscoprire un sapere, quello femminile, non cumulativo, né formalizzabile teoricamente, ma incarnato nella pratica quotidiana, nei secoli sempre più relegato nello spazio domestico. Spessore epistemologico e riconoscimento sociale, invece, veniva dato ai saperi codificati e formalizzati a livello teorico, trasmessi attraverso le istituzioni educative. Il pensiero greco classico su cui si fonda tutta la filosofia occidentale ha progressivamente assorbito la phiusis, il corpo, in una astrazione sempre più universale, indistinta, neutra, impersonale, definita oggettività, proclamando il trionfo del logos, del pensiero astratto, disincarnato, maschile anche nella denominazione linguistica e grammaticale, che nella parola Uomo ha preteso di rappresentare uomo e donna, maschio e femmina. Ne è conseguito nel tempo un sapere fortemente parcellizzato, vistosamente connesso a dinamiche di potere, riconducibili, pur nella pluralità delle forme in cui si è espresso, ad un’unica tradizione cognitiva, quella maschile, che nella affermazione di neutralità ha assorbito il femminile. La riflessione filosofica e il pensiero femminile del Novecento hanno smascherato questa mistificazione ed aiutato me e altre donne ad esprimere una nuova consapevolezza, una pratica di libertà in un linguaggio non codificato in base al genere, ma fluido, in una relazione di scambio, dove la differenza tra esseri umani porta a comprendere che lì c’è qualcosa di nuovo e di importante da scoprire. Questa ricerca di me nella storia continuo a farla nei testi letterari, nelle opere artistiche, nella cultura materiale, nella vita di tutti i giorni. Anche il mio rapporto con le arti visive è cambiato, dalla soggezione verso l’opera e la reverenza verso l’artista sono passata alla possibilità di intendere l’oggetto artistico come luogo di scambio per chi lo fa e per chi lo guarda, come occasione per la modificazione di sé, una modalità che possiamo chiamare creatività relazionale[1]. Una modalità che mi consente di riavvicinare l’intelletto al sentire, e di avvertire il corpo come luogo pulsante che media il contatto con le forze sacre della materia vivente. Una forma di conoscenza che mi riporta al contatto intimo con le cose, una filosofia vivente che rompe l’egemonia della mente per farsi carico dell’essere umano nella sua interezza e considera il corpo non più carcere dell’anima, come sosteneva Platone, ma sua sede[2].

Nella lingua greca antica la parola aisthànomai vuol dire percepisco con i sensi, conosco, non per idee chiare e distinte, ma confuse e vaghe. Questa percezione/aìsthesis mi ha ricondotto a qualcosa che ho avvertito essere già dentro di me, quasi a ripercorrere un tracciato a ritroso. Un percorso di opere femminili con andamento carsico, fatto di apparizioni e scomparse, la cui matrice è lontana nei millenni. L’eleganza delle stele, i segni geometrici che si intersecano, le linee a volte fluide come un correre d’acqua, a volte incise quasi a scalfire, a scalzare, a scarnire il materiale, le incisioni puntinate, le lacerazioni della pagina, questi segni materici di una scrittura tattile mi hanno dato il senso della fisicità del linguaggio di Severina. Mi hanno riportato indietro, ad un tempo arcaico, un tempo precedente alla scrittura, scandito dai ritmi della natura. Un tempo nel quale il modello sociale non era dominatore, con il predominio di una metà dell’umanità sull’altra mediante l’uso della forza, ma era un modello mutuale in cui le relazioni sociali si basavano principalmente sull’unione e non sul predominio. Ed in questo modello la diversità, a partire da quella fondamentale della nostra specie maschile/femminile non significava né inferiorità né superiorità. Un mondo in cui le donne si occupavano di preparare i vari momenti delle funzioni del culto della Dea, la Grande Madre, per la quale macinavano il grano, preparavano il pane, fabbricavano e decoravano vasi diversi, adatti ai riti. Restano i dipinti murali e le decorazioni puntinate sui vasi, i fregi, i sigilli, le incisioni, le figure animali, le statuine femminili con elementi sessuali fortemente evidenziati della Signora delle acque, della Dea gravida o che partorisce o che è madre di un fanciullo che culla amorevolmente. Tutta la vita ha origine da lei, tutto ritorna a lei con la morte per poi rinascere. Un culto che sopravvive anche in epoca storica nelle rappresentazioni di Demetra e Kore, il duplice aspetto della Dea, Madre e Fanciulla, simbolo della rigenerazione ciclica della natura. Insisto in questa descrizione perché le opere di Severina, non so quanto consapevolmente in lei, a me che guardo richiamano per linee, dimensioni, segni, colori, luce, una luminosità quasi numinosa, affine all’arte del neolitico in cui le immagini più che raccontare suggeriscono. Mancano immagini di potere e di violenza, ricorrono simboli presi dalla natura che evocano rispetto e stupore per la bellezza e il mistero della vita; un’atmosfera arcaica dell’unità di tutte le cose nella natura, che guida non a conquistare, a saccheggiare, a far bottino, ma a cercare di vivere una vita materiale e spirituale soddisfacente. Linee stilizzate e volute che ispirano un senso di fantasia, un’atmosfera di sogno, ed anche forme cilindriche che evocano lo schema strongùlon degli esseri primordiali che il filosofo greco Anassimandro immaginò essere la forma dei primi genitori della specie umana che rifiutarono la violenza di Zeus.

Quello di Severina mi è parso un viaggio introspettivo, un percorso interiore alla ricerca della propria identità, per giungere all’essenza più profonda del proprio femminile, comprendere le contraddizioni, mettere in relazione i meccanismi che conducono ad un processo narrativo, avvertito come necessità interna assoluta, e percepire la ricerca del proprio essere in quanto soggetto femminile.

Una donna ‘in viaggio’ alla ricerca di sé che si esprime in un lingua i cui segni sono riconoscibili aldilà della lingua scritta e parlata, una lingua che riconduce alla lingua materna, fatta di gesti e di corporeità.

 

 



[1] Donatella Franchi, La novità fertile, in Matrice.Pensiero delle donne e pratiche artistiche ( a cura di Donatella Franchi) Librera delle donne di Milano ( 2004)

[2] Marìa Zambrano, Nascer por sì misma.horas Y Horas, Madrid 1995 trad. it. All’ombra del Dio sconosciuto1997