Di Katia Ricci

Autobio-Grafismi di Severina Di Palma

Le opere di Severina Di Palma sono realizzate con carte di tale spessore da produrre effetti plastici, quasi bassorilievi dalla superficie increspata con rilievi, tagli e buchi dagli orli sfrangiati, cuciture e strappi. Qualche nota di colore chiaro interrompe talvolta il bianco della carta.

A volte le carte sono lasciate libere, smangiate ai margini, altre volte, incollate sopra listelli di legno, acquistano maggiore robustezza per stare in piedi, come se fossero delle stele. Hanno però sempre un che di precario e provvisorio per mostrare la pratica artistica e le varie fasi del processo creativo.

Le serie di tre lavori in sequenza sembrano costituite da appunti, schizzi, abbozzi, che sono elementi di una lingua che procede dal germogliare di un’idea all’accumulo dei segni, poi alla sottrazione e semplificazione, fino a esprimere il senso più vero e aderente all’idea iniziale. Che l’ispirazione sia quella di lavorare sulla messa a punto di un linguaggio per dirsi e comunicare, è visibile non solo dalla mancanza di elementi figurativi, ma dall’uso di segni dell’alfabeto Braille, per esempio, che Severina Di Palma conosce, avendolo appreso per il suo lavoro di insegnante di sostegno ai bambini non vedenti.

Nelle sue opere, nonostante lo spessore della carta, l’ispirazione grafico-lineare e spaziale prevale su quella volumetrica e plastica. Parte da un segno grafico, un colore appena abbozzato, come un appunto veloce. Di qui inizia un lungo periodo di ideazione, che può durare mesi e che Severina descrive come "una vera e propria gestazione, in cui sento modificarsi il mio corpo, le mie emozioni, insieme al progetto che ho dentro di me, che coltivo, con cui dialogo, che si trasforma insieme a me".

Pur eseguendo lavori astratti, non rinuncia mai a descrivere il suo rapporto con il mondo, presentandosi non come un artista neutro, ma consapevole di essere donna, prima di tutto. Atteggiamento questo tutt’altro che scontato ancora oggi, infatti se pensiamo a quello che abbiamo imparato a scuola o abbiamo visto nei musei, ci viene in mente una linea di continuità che unisce un artista, genio creatore, al successivo. Uno apre la strada ad un altro: Monet a Cezanne, per esempio, il quale a sua volta influenza Picasso e infine Pollock.

Questo è il canone che fino a tempi recenti è stato considerato come Storia dell’Arte. Nelle scuole è presente ancora oggi in questo modo. Severina Di Palma, non è mai stata femminista, anzi si è tenuta lontana da gruppi, ideologie, manifestazioni di carattere politico, ma ha da sempre intrecciato la ricerca estetica con le pratiche artistiche, studi in vari ambiti culturali e l’insegnamento di tecniche artistiche con la riflessione sulla propria soggettività, per approfondire questioni inerenti alle eterne domande sulla condizione umana, femminile in particolare.

"Ho lottato molto-ricorda-per affermare la mia indipendenza e libertà attuale.Gli stereotipi di ragazza colta presenti nel mio paese, all’epoca, vedevano la donna solo come maestra. Riuscii a convincere i miei genitori, parlando loro della mia passione per il disegno e la pittura, a farmi frequentare una scuola d’arte."

Il percorso di Severina è complesso. Seguendo, dunque, quella che le si presenta come una naturale inclinazione alla creatività, intraprende la formazione artistica, diplomandosi all’Istituto d’Arte.

"I miei anni di studio coincidono con gli anni della rivoluzione culturale e sessuale del ’68. L’anticonformismo caratterizzava gli studenti dell’Istituto d’arte, scuola che mi ha donato un gran senso della libertà, tratto che è rimasto dominante nella mia personalità: contestavo il rapporto con i genitori, il ruolo che era assegnato a una donna nel contesto familiare e sociale, gli abiti che non necessariamente dovevano essere femminili. Meglio, si poteva essere donna pur indossando jeans, non era certo la gonna che portava alla femminilità".

Dopo il diploma, comincia a lavorare come disegnatrice, nel frattempo, sentendo il bisogno di approfondire gli studi classici e letterari, si iscrive alla Facoltà di Lettere, che frequenta con profitto e passione ("Studiavo il Latino di notte"- ricorda ). In seguito al matrimonio e alla nascita dei figli ha, però, dovuto interrompere l’Università. "Ma anche dopo il matrimonio- racconta- ho lottato per raggiungere la mia indipendenza, continuando gli studi e insegnando.

Ho vinto molte battaglie, ma solo adesso posso affermare di sentirmi una donna veramente libera, anche nell’ambito lavorativo". I traguardi successivi sono l’abilitazione all’insegnamento di Disegno e l’iscrizione all’Accademia di Belle Arti. Il suo desiderio si va precisando: vorrebbe seguire i corsi di Pittura, ma è costretta a frequentare Decorazione, non essendo attivato quello di Pittura. Importante è stato, anche per la sua pratica artistica, l’aver lavorato come insegnante di sostegno per bambini audiolesi e ipovedenti, perché ha appreso altri linguaggi, quello dei sordomuti e l’alfabeto Braille.

"E’ di là, da quella esperienza-dice- che mi è venuta la necessità di concepire l’arte come linguaggio della comunicazione, di capire che i linguaggi non verbali possono contenere in sintesi concetti più forti delle parole, che diano immediatamente il senso delle cose e raggiungano il cuore delle questioni e…anche della persona con cui dialoghi". Segni della scrittura in Braille sono rintracciabili in molti dei suoi lavori con punti e linee rilevate, che rendono scabre, quasi tattili, le superfici e suscitano il bisogno di toccarle.

Contemporaneamente all’insegnamento, Severina Di Palma frequenta, fino al diploma, il corso di scultura all’Accademia. Il desiderio di insegnare arte la spinge a conseguire l’abilitazione per le scuole superiori, e ottiene la cattedra di Discipline pittoriche all’Istituto d’Arte di Cerignola. Attualmente tiene corsi di ceramica in una scuola media ad alunni con problemi di apprendimento. "Non so –confessa- che cosa farò in futuro. Faccio molti progetti. La mia vita è come i miei lavori, mi piace sperimentare, mettermi alla prova, cambiare, ritornare sui miei passi, andare avanti".

Come si può chiaramente capire, per lei quello artistico non è un lavoro che abbia un’importanza e un’entità a sé, così come l’opera non è un prodotto da consumare, staccato dalla riflessione sull’arte come percorso, come una pratica, che si intreccia alla vita e al prorio rapporto con il mondo. Insomma il fare arte per Severina Di Palma è senza dubbio dettato dalle sue necessità interiori, per così dire, ma anche dai limiti della realtà in cui vive e in cui ha scelto di vivere. Il linguaggio artistico è, dunque, il risultato dell’intreccio e scambio tra condizioni interne ed esterne. Se questo è vero per ogni artista, è forse più pregnante per una donna che fa arte, perché ha alle spalle una storia diversa da quella genealogia ben rintracciabile, fatta di canoni e di reciproche influenze tra artisti, ed è inserita in una situazione contemporanea di fluidità, in cui, dopo la caduta del patriarcato, si aprono spazi di grande libertà e sperimentazione per le donne. Il rapporto di Severina con il contesto socio-politico-culturale è stato difficile: "Vivo in un ambiente poco stimolante, che, per questo, mi ha sempre spinta a considerare l’arte in una dimensione privata, quasi intimistica.

Questo, però, non mi è mai bastato e ho sempre cercato altrove la linfa vitale per la mia creatività". Nel Laboratorio Artivisive di Foggia, diretto da Matteo Accarrino, Severina trova quel nutrimento e scambio necessario per far emergere forme in sintonia con la sua ricerca: "Il senso di libertà espressiva,- dice- ereditata dal Laboratorio, è stato un lascito fecondo, che mi ha sempre accompagnato. In genere tendenze diverse o singoli artisti, anche di diversa espressione, mi forniscono un’intensa carica emotiva, a patto che riescano a toccare la mia sensibilità e che, dunque, per questo li sento vicini a me, nonostante la differenza".

Alla concezione dell’opera come un oggetto che ha una sua forma definitiva, conclusa e chiusa e si dà nella sua concretezza e materialità per essere vista, giudicata, apprezzata o rifiutata, Severina, come tanti altri artisti di oggi, oppone e sostituisce l’idea di un lavoro come divenire, legato alla quotidianità e che di questa conserva i ritmi e i tempi ineguali, perché dettati da situazioni a volte improvvise e impreviste, proprie di un organismo vivente. "Il mio lavoro artistico-descrive- è fatto di un lungo processo ideativo, che man mano cerca forma e spazio. Poi il momento della realizzazione può davvero essere un momento, tanto è veloce. Assegno alla ragione e alla fantasia, congiunte, il compito dell’organizzazione linguistica della mia ricerca. Sogno una pratica, nella quale la tecnica e la poesia possono intrecciarsi in una combinazione d’esperienza-colore".

Per lei l’opera è altrettanto importante della riflessione su di sé, sulle emozioni che accompagnano il modo di vivere l’esperienza dell’arte. "Penso che il libero gioco di forme e colori dia vita al mio e al sentimento di chi guarda, facendomi entrare in una dimensione catartica e dia la possibilità di cogliere nell’opera, in quel tipo di conoscenza che chiamo ‘magica’, lo scopo del mio modo di fare arte".

"Quando l’opera è finita sento un senso di pienezza e di gioia. Subito dopo, però,-dice- provo una grande delusione. Forse rispetto al mio desiderio di bellezza, che è enorme, il risultato mi sembra inevitabilmente insoddisfacente". Una delle sue necessità è, infatti, prorio il bisogno di vedersi circondata dalla bellezza, anche per questo, soprattutto nella fase della progettazione, immagina di avere a disposizione pareti infinite, di allargarsi nello spazio per poterlo trasfigurare, modificare fino a renderlo bello, accogliendovi all’interno il pubblico, come parte integrante dello spazio creativo. Conseguenza di questo atteggiamento è il fatto che Severina deve lavorare sulla misura, riconoscere e accettare i limiti per poter trovare una forma che non dia la sensazione di occupare lo spazio, ma che stia tra sé e il mondo e che possa accogliere gli altri.

"Anni fa avvertivo il bisogno di raccontare, di riempire gli spazi, ricorrendo a molte tecniche e materiali disparati. Oggi penso che non ci sia bisogno di raccontare. Cerco la sintesi. Per questo mi piace molto quel passo del Diario di Etty Hillesum, che leggo e rileggo: "[…]poche, tenere pennellate […] e il grande spazio tutt’intorno, non un vuoto, ma uno spazio che si potrebbe definire ricco d’anima"."

Severina parla volentieri del suo percorso, seguendo in questo quella che ormai sta diventando una tradizione della critica, ma che è nata da una necessità degli artisti di uscire dalla rigida divisione dei compiti e dei mestieri, del critico, dell’artista, del fruitore, del gallerista… Sono stati gli stessi artisti, infatti, a partire dagli anni Sessanta e Settanta a scegliere l’intervista con i critici e parlare in prima persona con testi di autopresentazione nei cataloghi di accompagnamento alle opere d’arte.

In Italia fu Carla Lonzi a inaugurare il genere "dell’intervista". Il suo Autoritratto fu pubblicato nel 1969. Nel titolo manifesta la sua necessità di mostrare ed esprimere se stessa, nel senso di far emergere la propria creatività con quella dell’artista. Vi analizza attraverso l’intervista non solo il prorio e il percorso di ciascun artista, ma anche la trasformazione dei ruoli.

L’originalità di Carla Lonzi consisteva anche nell’omettere le domande che erano assorbite nei dialoghi, simulando, come lei dice, un convivio a più voci con diversi artisti, che sembrano parlare nello stesso luogo e tempo. Lascerà poi il campo dell’arte per occuparsi di politica nell’impegno femminista, anche per la constatazione che gli artisti volevano conservare il monopolio della creatività.

Carla Lonzi si proponeva di modificare il rapporto tra artista e pubblico, arrendendosi, poi, all’evidenza che "la personalità creativa, intanto che sembra dare agli altri, toglie loro la possibilità di fare centro su di sé e di mirare a una liberazione in proprio. […]l’ambiguità dell’artista verso lo spettatore viene anche dal fatto che lui ne ha bisogno e perciò deve sentirsi autorizzato a procurarselo: lo cerca, lo alletta, lo adopera, lo ricaccia lontano alla ricerca di sé. Nonostante tutto l’artista fa il vuoto di creatività intorno a sé ( Lonzi Autoritratto, 1978).

Molti anni sono passati da allora. Le trasformazioni sono avvenute anche in questo campo e sicuramente grazie anche all’impegno politico di donne come Carla Lonzi. Severina, per esempio, appartiene a quelle e quegli artisti che considerano fondamentale lavorare sul rapporto con gli altri e che considerano monca l’opera che non abbia contributi e che non stimoli l’altrui creatività, ricevendone in cambio un flusso di energia creativa. "Preferisco l’installazione perché mi dà l’opportunità di ricevere, come nel salotto buono, gli ospiti, che possono scegliere il proprio posto e il proprio percorso per poter dialogare con me, sentendosi a proprio agio. Mi piacerebbe essere sempre presente per poter avere un confronto in presenza e in contesto, scambiare osservazioni sull’opera, ma anche su aspetti diversi della vita e su altri ambiti culturali.

Forse perché penso ai miei lavori come la sintesi di anni di esperienza, approfondimento e studio non solo sul piano artistico, ma anche letterario e filosofico. Tutte le forme artistiche che considero ‘pure’, destano in me una particolare attenzione, dallo scarabocchiodel bambino, che va alla scoperta del mondo esterno, ai graffiti dell’arte preistorica, privi come sono, gli uni e gli altri, di inquinamenti culturali. Cari mi sono gli artisti del secondo dopoguerra come Burri, Fontana, per citarne solo due, o artisti contemporanei come Mattiacci che ha messo in crisi l’idea di spazio interno ed esterno. Allo stesso modo traggo ispirazione dai versi di Petrarca o di Guinizzelli, di cui ammiro il suo modo di rapportarsi alle donne. Ikmet ha influenza su di me, perché la sua assenza di metrica rende la lirica più vicina a chi legge. A volte anche la riflessione sui concetti filosofici riesce a ispirarmi, come quella su Kant e sulla sua poetica del ‘bello’ e del ‘sublime’, forse perché mi sento l’ultima romantica del nostro tempo".

La ricerca di Severina Di Palma non è legata alla realtà contingente, non perché consideri l’arte come evasione dal mondo, ma perché è impegnata a ricercare propri significati, forme e segni per rappresentare la propria verità profonda in un’opera di introspezione, spostamento di sguardo e costruzione di ponti tra passato e presente. Lavorare sulla lingua , sulla possibilità di comunicare è una necessità di oggi. Penso, infatti, che sia importante segnalare il proprio rapporto con il mondo, piuttosto che oggettivarsi in uno dei tanti problemi e questioni della nostra vita. La possibilità di dirsi, di cercare un linguaggio, di elaborare pensiero, non solo è un antidoto alla depressione di questi tempi bui, ma un’invenzione necessaria a leggere la realtà con occhi sgombri e trovare vie d’uscita.

Osservando le opere di Severina, il pensiero va ad un passato lontano, addirittura arcaico, perché sulla carta riporta in rilievo, mediante strumenti appuntiti come bisturi, tutta una serie di simboli stilizzati che rimandano ai primi motivi decorativi delle ceramiche neolitiche, segni a zig-zag, a M, singole e multiple, a meandri, a spirali, triangoli, cerchi e tutta la casistica di linee e forme geometriche attraverso cui si manifestava il bisogno di ricreare una visione magica del reale. In quei lontani segni la terra, la natura, l’acqua, la divinità erano ridotti all’essenziale. Il movente delle incisioni, per esempio sulle rocce, era religioso.

Vi si ritrovano segni che Severina ha fatto propri: quadrettature, piccole superfici picchiettate, connesse da linee sinusoidali evocano immagini di appezzamenti di terreno coltivati attraversati da linee che danno l’idea di sentieri e corsi d’acqua, quasi segni di una cartografia. Il primo lavoro di carta di Severina è costituito da una serie di strisce appena modellate e piegate, tanto da formare delle onde, che corrono veloci, con andamento ritmico e sicuro, portando in superficie punti, linee, ghirigori, buchi, increspature, elementi segnici che accolgono e riflettono la luce in modo differente e sempre nuovo, a seconda del punto di vista. Rotoli di carta disposta a spirale come la colonna Traiana, esprimono il desiderio di lasciare il proprio segno, costruire un altro linguaggio con l’invenzione di alfabeti personali.

Le stele sono in numero di tre, dalla prima con una maggiore quantità di elementi e colore, come se fosse un’overture, via via procede fino a ridurre i segni per individuare quello che per lei è irrinunciabile perché è quello che contiene il senso di tutti gli altri.

Come è proprio della pratica della poesia visiva, i "testi" di Severina, pur non contenendo parole note e comprensibili, tendono a cancellare i margini tra scrittura e immagini e mostrano l’esistenza di alfabeti diversi, ricordandoci che i codici linguistici possono essere infiniti. Comunicare va oltre le barriere linguistiche, mentre si può usare la stessa lingua senza capirsi se non ci si mette in una posizione di ascolto.

Severina parte dalla consapevolezza che il mondo è abitato da donne e uomini, per questo inserisce nei suoi lavori simboli femminili e maschili: triangoli e campane, spirali e cerchi, si alternano a linee verticali variamente combinate.

Le superfici si fanno luogo di invenzione: pieghettature e trafori a tratti si addensano in elementi riconoscibili come merletti, ma subito si distendono quasi per negare la qualità decorativa e consolatoria dell’arte, privilegiando, invece, il piano concettuale e comunicativo.

Punta a un livello di comprensione empatico, che va al di là di quello razionale, per trasmettere non un’informazione o conoscenze su un argomento, ma il desiderio di comunicare, il desiderio dello scambio, da cui nasce il linguaggio. Se le parole sono "consumate", è necessario rifare il percorso del linguaggio per riportarlo all’aderenza con le cose, con la realtà, che però ha dentro di sé anche il bisogno di trascenderla.