LIBERAZIONE Le avventure caucasiche di Eltsin e Putin Cecenia di sangue, Cecenia di misteri. La prima guerra durò circa un anno, e fu una sconfitta tremenda per Boris Eltsin. L'avevano cominciata i suoi pretoriani, nell'autunno del 1994, preoccupati per il rating del «primo presidente di Russia» in caduta libera, vicino al minimo assoluto e siderale del 6% di persone disposte a votarlo. Così escogitarono un nemico, il generale Dudaev, eroe dell'Unione Sovietica, seduta stante nominato dittatore sanguinario dei ceceni separatisti. Il generale Pavel Graciov, allora ministro della Difesa - «il migliore ministro della difesa di tutti i tempi», aveva sentenziato Boris Eltsin in quel frangente - dichiarò che avrebbe avuto ragione di quella banda di delinquenti in quarantott'ore. Quando arrivai a Grozny, nel Capodanno 1995, contai nella sola via Staropromyslovka, che portava al centro della capitale cecena, non meno di 25 carri armati russi sventrati accanto a ciascuno dei quali giacevano carbonizzati gli equipaggi. Poveri corpi nudi e neri, qua e là sbocconcellati dai cani che erano passati nella notte. In tutto oltre novanta morti, solo in quella strada. E Grozny, ridotta già a città fantasma, era in mano ai ribelli. E vi rimase, con alterne fortune, fino a quando Eltsin - vinte le elezioni con tutti i trucchi e gli inganni possibili e immaginabili (e anche con quelli impossibili e inimmaginabili) - dopo cinque bypass, fu costretto a chiamare in soccorso il generale Aleksandr Lebed. Che firmò la sconfitta della guerra cecena, la prima sconfitta della nuova Russia che, da allora, di guerre non ne ha vinta più nessuna. Poi ci furono tre anni di silenzio, con la Cecenia che s'incamminava verso la piena indipendenza, con Mosca incapace di reagire, con i ceceni sempre più aggressivi e strafottenti che riempivano Mosca con la loro droga, scorrazzavano con le loro Mercedes 600, e promettevano di gestire in proprio l'oleodotto ex russo. E, di nuovo, venne l'occasione politica per riaprire il conflitto. Boris Eltsin non era più presentabile a nessuno, con le sue carte di credito svizzere, con la figlia che comprava ville a destra e a manca, con una corte di servi indecenti. E così fu deciso, prima di tutto a Washington, che doveva andarsene. Ma chi fare presidente in quel panorama? Non c'era un successore «di grido» capace di garantire gli interessi occidentali e quelli degli oligarchi, insieme con quelli del «consenso washingtoniano». Inventarono Vladimir Putin, il «Signor Nessuno». Ma per fare trionfare in un'elezione un Signor Nessuno - lo sapevano - non bastano neppure tutte le televisioni di un paese. Ci vuole qualcos'altro. E cosa c'è di meglio di una piccola guerra vittoriosa per vincere, in una Russia offesa nel suo orgoglio, un'elezione presidenziale? Così cominciò la seconda guerra cecena: con un attacco molto strano, fatto dal territorio ceceno contro il vicino Daghestan guidato da un certo, allora poco noto, Shamil Basaev. Attacco sventato, controffensiva russa, e poi conquista graduale del territorio dellex repubblica russa di Cecenia fino a Grozny, che ormai era così distrutta che non poteva esserlo di più; fino a Gudermes, Shatun, tutte le città. Basaev, dopo aver fatto ciò che gli era stato comandato, sparì per mesi. Ma qualcuno ricordò che Basaev era stato un agente dei servizi segreti militari russi nel corso della guerra di Abkhazia in Georgia. E allora molte cose diventarono più chiare. La guerra era stata preparata a tavolino, a Mosca. I ceceni del presidente legittimo, Maskhadov, non c'entravano per nulla. Scoppiarono bombe a Mosca per alimentare l'odio contro i ceceni, e Putin diventò presidente con una maggioranza straripante. Aveva detto, con sicurezza, che avrebbe vinto la guerra, vinto militarmente. Ma sono passati due anni e mezzo. Ai centomila morti della prima guerra cecena si sono aggiunti i quarantamila della seconda. Nelle due avventure, entrambe volute dal Cremlino, sono morti non meno di trentamila soldati e ufficiali russi. La guerra non è stata vinta. Al contrario si è incancrenita, si è tragicamente «arricchita» di nuovi contenuti. Se era partita come una rivendicazione nazionale d'indipendenza, prevalentemente politica, anche etnica, ma non ancora religiosa, adesso si è trasformata in fondamentalismo religioso, in una somma di odi inestinguibili. E' ovvio che, in questi anni di svolta mondiale, l'estremismo islamico abbia gettato radici anche in Cecenia, e non solo in Cecenia ma anche in altre zone musulmane della Russia. Combattenti ceceni erano in Afghanistan, combattenti arabi erano e sono in Cecenia, il wahhabismo saudita si è dilatato in ogni direzione. Solo adesso Vladimir Putin sembra rendersi conto che il problema ceceno non poteva essere risolto soltanto come faccenda interna alla Russia. Illusione militare, ma anche mancanza di comprensione dei processi mondiali che andavano maturando. Fin dalla prima guerra cecena era già chiaro che interessi esterni potenti stavano mettendo il naso nella guerra. Servizi segreti turchi, e americani, agivano su quel terreno, perché era evidente che una Cecenia in guerra non poteva essere il territorio attraverso cui poteva passare l'oro nero del Caspio verso gli utilizzatori occidentali. E, infatti, fu proprio Clinton, nel 1998, ad andare a Ankara a firmare l'accordo per un oleodotto alternativo a quello russo che avrebbe dovuto transitare attraverso la Georgia e la Turchia, bypassando non solo la Russia ma il Mar Nero, per arrivare direttamente nel Mediterraneo, nel porto di Ceyhan. Adesso Putin, senza fare nomi, dice che dietro l'offensiva suicida di Mosca c'è l'apporto di organizzazioni terroristiche straniere. Ha ragione, adesso. Il che significa che prima si era sbagliato. Se avesse capito per tempo avrebbe cercato una soluzione negoziata con Maskhadov, che gliela chiedeva. E basterebbe ora che la sua fantasia gli facesse fare un altro passo avanti verso un probabile verità. Perché lo colpiscono proprio adesso? Proprio adesso che Mosca sta resistendo alla richiesta di Washington di dare il via libera alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza che autorizzerebbe l'attacco armato contro Saddam Hussein? Chissà se, nelle stanze del Cremlino, qualcuno comincia a capire che il gioco è diventato molto pesante e che non si può stare a metà del guado. «O con noi o contro di noi», gli viene detto da tutte le parti. Ricordo il sindaco di Mosca Jury Luzhkov, in piedi sulle macerie dei palazzi di Mosca fatti saltare con dentro trecento innocenti, in quel tremendo settembre 1999. Stava silenzioso, pallido come un cadavere, con lo sguardo fisso nel vuoto. Era dolore, ma non soltanto. Era l'aver capito, in quel momento, che le sue speranze di fermare Putin erano finite, per sempre. Forse oggi lo sguardo di Putin, se potessimo vederlo per un attimo oltre le tendine dei palazzi del Cremlino, direbbe la stessa, identica cosa. Non c'è più via d'uscita. |
LIBERAZIONE Uno, due, tanti nemici Quando telefonò a Bush dopo l'11 settembre. Putin voleva cogliere un vantaggio politico: dimostrare che le accuse lanciate dall'opinione pubblica internazionale per la brutalità delle forze russe in Cecenia erano ingiustificate e che egli stava combattendo un nemico non diverso da quello con cui gli Stati Uniti si sarebbero scontrati in futuro. Quando garantì agli americani l'uso dello spazio aereo russo e li aiutò a vincere in Afghanistan, Putin sperava di colpire i talebani e Al Qaeda, vale a dire coloro che avevano armato e finanziato la ribellione cecena. In questa prospettiva, la guerra contro il regime di Kabul fu russo-americana. Ciascuno dei due Paesi perseguiva per ragioni diverse lo stesso scopo. Putin ha colto il vantaggio politico ma ha mancato il secondo obiettivo. Dopo gli attentati in Yemen, Kuwait, Filippine e Indonesia, l'operazione di un commando ceceno a Mosca sembra dimostrare che la guerra afghana è stata meno efficace di quanto Washington sperasse. Gli americani hanno smantellato un pessimo regime e distrutto probabilmente le basi militari di Al Qaeda. Ma non hanno catturato Osama Bin Laden e non hanno ferito a morte la rete delle complicità terroristiche. Colpito con il duro martello della potenza militare degli Stati Uniti, lo sfuggente mercurio del terrorismo islamico si è frantumato in dozzine di cellule segrete che danno segni di sorprendente vitalità. S'influenzano a vicenda, parlano il linguaggio del fondamentalismo musulmano e possono all'occorrenza utilizzare le stesse risorse. Ma non hanno una organica strategia comune, non obbediscono agli ordini di un solo leader e non sono il «nemico globale» di cui qualcuno va fantasticando. Ciascuna di esse insegue scopi nazionali e colpisce il proprio nemico: la Russia perché non intende abbandonare la Cecenia, Israele perché tratta la Palestina come una colonia, l'America perché «occupa» il Medio Oriente, Filippine e Indonesia perché i loro governi non rispettano i rigorosi ideali politico-religiosi dell'Islam più radicale. Più che comandante supremo di una universale Jihad, Osama, se è ancora vivo, sembra essere il presidente di una Confederazione senza territorio in cui ogni socio persegue i propri obiettivi. Anziché proclamare la «guerra contro il terrorismo» converrebbe quindi auspicare una molteplicità di politiche antiterroristiche in cui non sempre gli eserciti possono essere utili quanto le polizie, l'intelligence, la vigilanza bancaria e la diplomazia. Sono queste le ragioni per cui la vicenda di Mosca non modificherà probabilmente la linea di Putin nella questione irachena. Il presidente russo non intende rinunciare a un pezzo di territorio nazionale. Perderebbe il controllo del Caucaso, aprirebbe la strada ad altri movimenti secessionisti e metterebbe in discussione l'integrità del Paese. Ma vuole che la sua guerra resti esclusivamente cecena e rifiuta di lasciarsi coinvolgere in operazioni che non rispondono agli interessi russi nel mondo arabo-musulmano. Finché combatte il separatismo ceceno, Putin difende lo Stato e poggia i piedi su una solida piattaforma politica. Se sottoscrive la linea degli Usa contro l'Iraq rischia di apparire «anti-musulmano» e di alimentare l'incendio di una regione ai confini del suo Paese. Nel giudicare la politica dell'America e della Russia nel prossimo futuro converrà ricordare che il territorio della prima è al di là dell'Atlantico e quello della seconda a qualche centinaio di chilometri, in linea d'aria, da Damasco, Bagdad, Teheran, Kabul, Islamabad. La politica non può voltare le spalle alla geografia. |
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