> Da: "Patrizia Giffoni"
> Oggetto: [helena-info] nablus e jenin
> Data: marted́ 23 aprile 2002 7.45

[...]

carissimi tutti,

sono le 17 e sono appena rientrata da Nablus. Siamo partiti alle 5 di
questa
mattina, 12 ONG internazionali di aiuti umanitari (tra cui tre italiane,
il
CISS di Palermo, il GVC di Bologna e  Movimondo di Roma) con tre camion di
alimenti e medicinali. Un funzionario del consolato francese ci ha
accompagnato garantendoci una parziale copertura diplomatica. Da ieri
l'esercito israeliano era stato informato che avremmo tentato di far
valere
le convenzioni internazionali e di accedere alla zona di Nablus per
soccorrere la popolazione civile. Con noi sono partiti anche molti
giornalisti.

Alle 8 siamo riusciti a superare il primo posto di blocco, appena fuori
Gerusalemme. Lungo la strada per Nablus (quella che fanno i coloni
ovviamente, di passare per i villaggi palestinesi neanche a parlarne
perche'
sono tutti sigillati) non si vede neanche una macchina, solo veicoli
dell'esercito e autobus blindati dei coloni. Di palestinesi neanche
l'ombra.
Alle 10 siamo sotto Nablus. La trattativa per entrare e' estenuante. A
renderla ancora piu' drammatica le urla dei coloni dell'insediamento
vicino
al posto di blocco che ci gridano "assassini". Una signora anziana,
colona,
si avvicina urlandoci di andare via. "Scusi ma lei dove e' nata?" "In
Russia" "E i palestinesi di Nablus dove sono nati?" "Studiate la storia,
dovete studiare la storia, questa terra e' nostra, da sempre, ce l'ha data
Dio" La signora e' stata allontanata dai soldati.

Finalmente ci hanno dato l'autorizzazione ad entrare, pero' da soli, senza
giornalisti. Ad esser sinceri non ci sembrava vero, davvero possiamo
entrare? Prima solo i camion e due macchine, noi insistiamo che vogliamo
andare tutti. Ci lasciano entrare tutti, tranne i giornalisti.

L'ingresso a Nablus e' l'ingresso all'inferno. Le strade sono state
divelte dai bulldozer e dai carri armati. Al centro grandi buche per raggiungere
le condotte dell'acqua e l'elettricita' e tagliarle. Tutte le macchine che
erano parcheggiate lungo i marciapiedi sono state schiacciate contro i
muri e le saracinesche dei negozi, che sono state in gran parte fatte saltare.
Passiamo una moschea rasa al suolo. Le tapparelle abbassate delle case
cominciano ad alzarsi, le persone si sporgono e ci salutano. Siamo i primi
civili ad entrare da quando e' iniziata l'occupazione. Il coprifuoco e'
totale, da 5 giorni. Ci salutano, qualcuno ai piani bassi osa uscire e
correrci incontro. Le donne chiedono cibo piangendo.

Dopo aver passato il cimitero, neanche quello risparmiato dai carri
armati, arriviamo all'ospedale della Red Crescent che e' il nostro obiettivo. Ci
accolgono prima con sorpresa poi con gioia. Raccontano che il vero
problema e' il coprifuoco. Ad oggi hanno raccolto 51 morti per le strade ma tutte
le volte che escono gli sparano addosso. Anche quando hanno l'autorizzazione
dell'esercito israeliano. Non sanno quanti morti ci sono ancora
soprattutto nelle case, per non parlare dei feriti. Ma anche i malati non possono
muoversi. Sono preoccupati per quelli che hanno bisogno di dialisi. Ci
raccontano che hanno trasformato la moschea centrale della citta' in
ospedale da campo, ma il problema ora e' raggiungerla, e rifornirla. Nel
frattempo in citta' vecchia riprendono gli scontri. Noi siamo a circa un
chilometro di distanza, si vede il fumo, si sente l'artiglieria. Non si ha
idea di cosa succeda davvero li dentro, di quanta gente stia combattendo,
di cosa succeda nelle case.
Non possiamo aspettare oltre. La situazione sta peggiorando e noi dobbiamo
tornare indietro. Gli elicotteri cominciano a sorvolare la citta', si teme
un bombardamento. Cominciamo a scaricare i camion, a mano. In tutto siamo
una trentina di persone e ci vuole piu' di un'ora.

Siamo qui noi delle ONG, senza giubbotti anti proiettile, senza passaporto
diplomatico, con le nostre jeep con targa israeliana. Abbiamo portato
briciole ad una citta' di 200 mila abitanti assediata. Sento tutto il peso
della nostra inutilita' eppure,  dopo giorni di frustrazione, sono felice
di scaricare riso e zucchero.
All'uscita si ripassano i luoghi sconvolti, i ricordi della bella citta'
adagiata sui due fianchi della valle, della antica Neapolis dal
meraviglioso
centro storico, si confrontano con la devastazione di oggi. Rispondiamo ai
saluti dei bimbi dalle finestre.

I soldati israeliani del primo blocco neanche ci fermano. Al secondo ci
chiedono se abbiamo avuto problemi. Nessuno, a parte la nostra coscienza.

All'arrivo a Gerusalemme siamo comunque contenti, e ci lasciamo con una
promessa, si rifa' appena possibile, a Betlemme e Jenin.

Carla Benelli



Date:     Sat, 13 Apr 2002 20:58:56 -0800

Subject: e da Jenin

From:     "carla benelli" <
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To:         ***

carissimi tutti,

il messaggio che ho inviato qualche giorno fa ha avuto un impatto ben al
di la' di quanto mi aspettassi. Ho ricevuto numerosissimi messaggi da amici
che non sentivo da tanto tempo, grazie a quelli di voi che lo hanno fatto
circolare in modo tanto diffuso e a testimonianza di quanta voglia ci sia
di sapere che cosa succede in questo brutto posto. Ve ne invio un altro,
scritto con molta tristezza a chiusura di un giorno a Jenin.



Come ci eravamo ripromessi siamo riusciti di nuovo ad organizzare un
convoglio di aiuti umanitari, questa volta in direzione di Jenin. Le
notizie
che arrivano dalla citta' e in particolare dal campo profughi nel suo
interno, sono sotto l'attenzione di tutti, o almeno di coloro che seguono
con sincerita' l'aggravarsi quotidiano del conflitto. Jenin e' sotto il
tiro dell'esercito israeliano e del coprifuoco ormai da 10 giorni. Le agenzie
internazionali parlano di gravissima crisi umanitaria, non si conoscono le
condizioni di vita della popolazione e quelle rarissime immagini che sono
riuscite a filtrare la cortina di ferro imposta dagli israeliani ci fa
pensare al peggio.

Anche questa volta si parte alle 5 di mattina. Jenin e' all'estremo nord
della Cisgiordania, un viaggio che in un periodo normale avremmo percorso
in due ore. Questa volta siamo costretti a fare continue deviazioni e
procedendo lentamente dietro ai camion prevediamo di impiegare almeno 5
ore. Le organizzazioni non governative umanitarie coinvolte sono piu' o meno le
stesse della volta scorsa, quello che e' aumentato sono gli aiuti,
partiamo con 5 camion e 26 jeep. Questa volta ad accompagnarci sono il Consolato italiano e l'Unione europea. Non partecipano alle trattative con
l'esercito israeliano, restano indietro, pronti ad intervenire in caso di bisogno di
assistenza diplomatica (anche se da queste parti molto spesso anche questa
e' ininfluente).

Lungo la strada della valle del Giordano veniamo bloccati tre volte. Ma
sempre riusciamo a passare. Finalmente raggiungiamo il posto di blocco di
Jenin dal nord. Jenin e' proprio sul confine. Le prime case della citta'
si vedono perfettamente dai villaggi arabi all'interno di Israele, divisi da
Jenin solo da due piccole colonie ebraiche che impediscono la contiguita'
territoriale.

Malgrado i tanti blocchi che abbiamo trovato lungo la strada, l'attesa al
posto di blocco principale prima di rientrare in Cisgiordania e'
relativamente breve; sara' per le notizie drammatiche che si stanno
diffondendo sulla condizione della popolazione civile o meglio per
l'incontro che proprio in queste ore il sottosegretario di stato americano
Colin Powell sta tenendo con i responsabili delle agenzie umanitarie a
Gerusalemme.

L'attesa e' comunque piacevole, molto diversa dalla volta scorsa, quando
al posto di blocco di Nablus i coloni israeliani ci gridavano "assassini".
Qui incontriamo un gruppo di rappresentanti delle comunita' palestinesi che
vivono all'interno di Israele (gli arabi del 1948 come si dice qui). Sono giorni che manifestano al posto di blocco. Hanno raccolto una incredibile
quantita' di aiuti, alcuni sono riusciti anche a farli passare anche se
gli israeliani glieli fanno lasciare appena al di la' del posto di blocco e
non si sa se e come avvenga la distribuzione. Ci chiedono aiuto per
trasportare le merci all'interno, si scambiano numeri di telefono e suggerimenti. Una persona si avvicina alla nostra macchina "avete tutto il nostro rispetto"
ci dice, e si allontana piangendo. Non riusciamo neanche a rispondergli, per
dirgli cosa poi?

Siamo passati, come sempre senza giornalisti e, a differenza della volta
scorsa, senza macchine fotografiche o telecamere che ci vengono
confiscate.
Subito dentro vediamo sulla sinistra i camion di aiuti di cui ci hanno
parlato i palestinesi dell'interno di Israele. Sono tutti carichi, saranno
rimasti cosi' da quando sono entrati o sono altri? Ci resta il dubbio.
Dobbiamo passare un ulteriore posto di blocco, a fianco al campo militare.
Numerosi carri armati sono in deposito, i cannoni puntati verso di noi. In
lontananza, vediamo altri carri armati che escono dalla citta' dirigendosi
verso ovest. Dalla radio abbiamo la notizia che l'esercito israeliano, in
risposta agli appelli al ritiro che stanno arrivando da tutto il mondo,
sta occupando una serie di villaggi nei dintorni.
L'ingresso alla citta' e molto diverso da quanto ci aspettiamo, e da
quanto abbiamo visto a Nablus. Non ci sono segni maggiori di distruzione, solo
qua e la' i segni dei cingoli dei carri armati sulla strada, del resto gia'
sterrata. Ai lati le case sembrano deserte, nessuno questa volta ci
osserva
dalle finestre, non c'e' segno di vita, il silenzio e' totale, un silenzio
che sa di paura. Tutta la citta' e' senza luce e senza acqua dal giorno
dell'occupazione.

Il posto dove dobbiamo depositare le merci e' all'ingresso della citta',
dal
nostro lato, e arriviamo velocemente. Il campo profughi si intravede sulla
collina di fronte ma e' troppo lontano per distinguere qualcosa con
esattezza. Come da accordi presi con gli organizzatori del convoglio non
ci
allontaniamo. Qui pero' le persone escono dalle case, il coprifuoco non
sembra rigido e percorriamo tranquillamente a piedi la distanza tra il
centro di accoglienza dove portare gli aiuti e i magazzini che sono a
qualche centinaio di metri.  Il centro di accoglienza e' in effetti una
scuola. Vi sono stipati nei tre piani piu' di 800 persone. Senza luce e
senza acqua, senza nessun sostegno. Qualche coperta buttata per terra. I
nostri sono i primi materassi che arrivano. Ma la sproporzione tra il
bisogno e quello che e' disponibile e' tale che scoppiano risse per
l'accaparramento, e non c'e' nessuno in grado di occuparsi della
distribuzione.
Ci sono donne, bambini e uomini molto anziani. Ci raccontano di essere
tutti sfollati dal campo profughi. Nel campo non c'e' piu' nessuno dei suoi 15
mila abitanti. Sono rimasti solo i morti, ci dicono, ma gli sporadici
spari che si sentono ci fanno pensare che esiste ancora una resistenza, seppure
debolissima. Dove sono andati gli abitanti? Qui, in altre scuole, negli
edifici del comune, presso le famiglie che ancora hanno una casa. I dati
ufficiali delle Nazioni Unite (responsabili del campo profughi) dicono che
sono 3 mila gli abitanti di case distrutte nel campo. E gli uomini?
Uccisi, arrestati, evacuati nei villaggi limitrofi. Sappiamo da fonti
giornalistiche che nel villaggio di Rumana sono arrivati 500 palestinesi da Jenin, in mutande e scalzi, rilasciati in questo stato dopo essere stati arrestati
nel campo profughi.
Nella scuola sono molte le donne e i bambini che ci parlano di mariti,
padri, fratelli, uccisi sotto i loro occhi. Una donna mi avvicina, lo
sguardo duro. Mi dice di andare nel campo a vedere se suo marito e' ancora
vivo. Lei e' stata evacuata quattro giorni fa, suo marito e' stato legato,
in ginocchio per terra davanti casa, insieme ad altri 40 uomini. Una sua
vicina arrivata ieri alla scuola le ha detto che era ancora li', nella
stessa posizione, senza cibo ne' acqua.
Le dico che non posso andare, che il campo e' chiuso a tutti, anche alla
Croce rossa e alle Nazioni Unite, che ci sono i cecchini che sparano verso
chiunque tenti di avvicinarsi. Mi risponde: "e allora che sei venuta a
fare?. Non ho bisogno della tua acqua". Anche un gruppo di tre ragazze
giovanissime mi rimprovera. Una ha perso il padre, le altre non so, non ho
il coraggio di chiedere. Tutte sono senza casa. Mi dice anche lei "non
voglio aiuti, mi puoi ridare mio padre? mi puoi dare giustizia?

Ma non ho risposte, anzi per quello che posso immaginare pensando a come
sono andate le cose per i palestinesi da piu' di cinquanta anni ad oggi,
non
ci sara' giustizia per questa gente. C'e' un filo rosso che lega il
massacro
di oggi di Jenin ai massacri nei campi profughi di Sabra e Chatila. Si
tratta di un uomo, oggi ancora piu' potente di allora. Nessuno sembra
avere
il coraggio o la voglia di fermarlo. E allora suggeritemi voi cosa dire a
quelle ragazze, come convincerle che esiste ancora la speranza di un
percorso di pace. Io l'ho persa.

Carla Benelli