A
dieci anni dalla strage di Capaci parla il magistrato
"Paese ipocrita, ora lo celebra anche chi lo
tradì"
Boccassini: "Falcone
un italiano scomodo"
"Non dimentico le accuse di Viglietta
Amatucci e Orlando"
di GIUSEPPE D'AVANZO
MILANO - Dottoressa
Boccassini, oggi al ministero della Giustizia sarà
scoperta una targa in memoria di Giovanni Falcone, a
dieci anni dalla morte...
"Non lo sapevo".
E' la prima volta che un magistrato ha quest'onore
anche se è vero che solo Giovanni Falcone, direttore
degli Affari Penali in quella primavera del 1992, è
morto ammazzato quando era al vertice del ministero di
Giustizia.
"Non è del tutto vero, Girolamo Minervini quando fu
ucciso, il 18 marzo del 1980, si preparava a diventare
direttore dell'amministrazione penitenziaria: dunque, un
alto dirigente del ministero".
E allora?
"Dal 1971 ad oggi, se non sbaglio, sono stati uccisi
in Italia ventiquattro magistrati. Mi chiedo perché
soltanto per Giovanni Falcone, anno dopo anno, tanti
onori, celebrazioni, accensioni polemiche".
Buona domanda, qual è la sua risposta?
"Credo che la ragione vada rintracciata
nell'ipocrisia del Paese, nel senso di colpa della
magistratura, nella cattiva coscienza della politica. Né
il Paese né la magistratura né il potere, quale ne sia
il segno politico, hanno saputo accettare le idee di
Falcone, in vita, e più che comprenderle, in morte, se
ne appropriano a piene mani, deformandole secondo la
convenienza del momento. E' soltanto il più macroscopico
paradosso della vita e della morte di Giovanni Falcone:
la sua breve esistenza, come oggi la sua memoria, è
stata sempre schiacciata dal paradosso, a ben vedere. Ce
ne sono di clamorosi... Non c'è stato uomo in Italia che
ha accumulato nella sua vita più sconfitte di Falcone.
E' stato sempre "trombatissimo". Bocciato come
consigliere istruttore. Bocciato come procuratore di
Palermo. Bocciato come candidato al Csm, e sarebbe stato
bocciato anche come procuratore nazionale antimafia, se
non fosse stato ucciso. Dieci anni fa, per dar conto
delle sue sconfitte, Mario Pirani dovette ricorrere a un
personaggio letterario, l'Aureliano Buendìa di Cent'anni
di solitudine che dette trentadue battaglie e le perdette
tutte: ancora oggi, non c'è similitudine migliore.
Eppure, nonostante le ripetute "trombature",
ogni anno si celebra l'esistenza di Giovanni come fosse
stata premiata da pubblici riconoscimenti o apprezzata
nella sua eccellenza. Un altro paradosso. Non c'è stato
uomo la cui fiducia e amicizia è stata tradita con più
determinazione e malignità. Eppure le cattedrali e i
convegni, anno dopo anno, sono sempre affollati di
"amici" che magari, con Falcone vivo, sono
stati i burattinai o i burattini di qualche indegna
campagna di calunnie e insinuazioni che lo ha
colpito".
Polemiche, ancora polemiche, venti
lustri dopo? Non le sembra una maledizione di cui
conviene, una buona volta, liberarsi?
"Non voglio risse né polemiche. Voglio ricordare,
ragionare e capire perché - credo - così si rispetta il
sacrificio di questo strano tipo di italiano, grande e
scomodo, che è stato Giovanni. Voglio ricordare che la
magistratura italiana addirittura scioperò contro
Falcone nel 1991. Scioperò contro la legge che creava la
Procura nazionale antimafia a lui destinata. Per
bloccarne la candidatura, ricordo, un togato del Csm,
Gianfranco Viglietta, di Magistratura democratica,
esaltò in una lettera al presidente Cossiga
l'"assoluta indipendenza" dell'antagonista di
Falcone, Agostino Cordova, osservando che "i criteri
per la nomina a importantissimi incarichi direttivi non
prevedono notorietà o popolarità". Dunque, Falcone
non era indipendente, ma solo "popolare" per
Viglietta. Più esplicito in quell'accusa fu Alfonso
Amatucci, anch'egli togato al Csm, per la corrente dei
Verdi (cui pure Falcone aderiva). Scrisse al Sole-24 ore
che Giovanni "in caso di designazione, avrebbe fatto
bene ad apparire libero da ogni vincolo di gratitudine
politica". Falcone era più o meno un
"venduto" per Amatucci. Ancora un ricordo.
Leoluca Orlando Cascio, nel 1990, sostenne e non fu il
solo, soprattutto nella sinistra - che "dentro i
cassetti della procura di Palermo ce n'è abbastanza per
fare giustizia sui delitti politici". Quei cassetti,
dove si insabbiava la verità sulla morte di Mattarella,
La Torre, Insalaco, Bonsignore, erano di Falcone. Ritorna
l'accusa di Amatucci e Viglietta: Falcone è un
"venduto". Delle due l'una, allora. O quelle
accuse erano fondate e allora non si beatifichi come eroe
un magistrato che ha fatto commercio della sua
indipendenza o quelle accuse erano, come sono, calunnie e
gli artefici avvertano la necessità di fare pubblica
ammenda. In dieci anni, non ho ancora ascoltato una sola
autocritica nella magistratura e nella politica. Fin
quando ciò non accadrà, io sentirò il dovere di
ricordare. Perché solo ricordare le umiliazioni subite
da Giovanni Falcone permette di comprendere il
significato del suo sacrificio, il suo indistruttibile
senso del dovere e delle istituzioni; di afferrare
l'eccentricità "rivoluzionaria" del suo
riformismo rispetto a un modo di essere magistrato in
Italia o a fronte dell'idea subalterna della funzione
giudiziaria coltivata dalla politica. Era questa sua
diversità a renderlo inviso a una parte della
magistratura e a rendergli diffidente e nemica la
politica, tutta la politica, se si esclude la parentesi
al ministero dove gli fu possibile sperimentare qualche
sua innovativa idea".
Qual era, secondo lei, la
"diversità" di Falcone?
"Una parte della magistratura italiana è stata
sempre "sensibile" agli interessi della
politica e la politica ha sempre desiderato la
magistratura "sensibile" alla ragion di Stato,
agli equilibri di governo, alla difesa dello status quo,
alle convenienze dei più forti. Era vero venti anni fa
quando i procuratori generali mai pronunciavano la parola
"mafia" nei discorsi inaugurali dell'anno
giudiziario, è vero oggi. Anche ora alcuni magistrati
tra i migliori della nostra Repubblica, conservatori o
riformisti che siano, sono attenti al gioco e agli
interessi della politica. Magari questa attenzione è
meno esplicita, più laterale e mediata, diciamo più
scolorita e indiretta, ma è ancora presente. Bene,
Giovanni Falcone è stato sempre sensibile soltanto
all'indipendenza e all'autonomia della sua funzione:
erano, per lui, valori ineliminabili. Non equivalevano a
un privilegio di casta, come appare ad alcuni miei
colleghi, né un riconoscimento che declina una
sostanziale irresponsabilità, come credono altri. Al
contrario, pensava che autonomia e indipendenza fossero
le gravose responsabilità che la Costituzione ha
affidato al magistrato per garantire l'imparzialità del
giudizio, l'eguaglianza dei cittadini di fronte alla
legge, l'efficienza della macchina giudiziaria. Giovanni
sentiva l'indipendenza del magistrato come missione e
risorsa; come il segno stesso, costitutivo, della sua
identità di servitore dello Stato. Chiunque lo abbia
incontrato, magistrato o politico che fosse, ha avvertito
questa sua ostinazione, e la sua ostinazione lo ha reso
"straniero" tra i magistrati
"sensibili" e tra i politici innamorati dei
magistrati "sensibili": così è diventato un
"corpo estraneo" da bocciare, distruggere,
calunniare. E' questa la ragione di fondo per cui non mi
stancherò mai di chiedere alla magistratura una severa
autocritica. Solo facendo i conti con la storia di
Giovanni Falcone, la magistratura potrà trovare la forza
e le ragioni per fronteggiare chi oggi vuole manipolare,
con l'ordinamento giudiziario, l'autonomia e
l'indipendenza della magistratura anche strumentalizzando
le riflessioni di Giovanni".
Da lassù Falcone mi perdonerà, ma ho sempre avuto
l'impressione di un fondo ambiguo (ambiguo per
necessità) nelle sue riflessioni. Come se, da tutti
osteggiato, dovesse farsi accorto, fare il suo pensiero
prudente e mai esplicito, esponendolo a letture
contraddittorie e tuttavia non infondate. Da
"destra" come da "sinistra", per
così dire. Ora è il governo a "leggere"
Falcone in modo da rafforzare l'impianto della riforma
della giustizia e dell'ordinamento giudiziario.
"Basta fare i nomi di chi oggi spende il nome di
Giovanni per toccare con mano la strumentalità e la
malafede...".
A chi pensa?
"Lascio cadere i nomi di tutti coloro che hanno
ruolo istituzionale per evitare altre polemiche. Forse il
nome del senatore Lino Jannuzzi posso, tuttavia, farlo.
Jannuzzi, quando Falcone si trasferì al ministero,
consigliò agli italiani di tenere a portata di mano il
passaporto perché stava nascendo, dopo la
"cupola" mafiosa di Palermo, un'altra
pericolosa "cupola" a Roma".
Passi, e tuttavia quando nel governo e nella
maggioranza si ragiona su separazione delle funzioni,
terzietà del giudice, pubblico ministero si ascolta
l'eco delle riflessioni di Giovanni Falcone. Non le pare?
Per dirne una, è stato Falcone a scrivere che "il
pubblico ministero deve avere un tipo di regolamentazione
ordinamentale differente rispetto a quella del
giudice".
"Se si è in buona fede, si deve ragionare sulle
condizioni che hanno sollecitato quegli scritti e, in
premessa, riconoscere che Giovanni non è stato soltanto
"simbolo della lotta alla mafia", come
riduttivamente qualcuno o troppi si accingono a fare in
questo decennale. Falcone, quando scrive, ha in mente il
rito accusatorio introdotto dalla riforma del processo
del 1989. Ne intravede le grandi possibilità di
repressione del crimine e di contrasto alla criminalità
organizzata. Tiene a conservare il pubblico ministero
come il dominus dell'indagine, il regista e lo stratega
del lavoro della polizia giudiziaria. Si rende conto del
potere di quell'ufficio nella raccolta delle prove e
avverte la necessità di un contrappeso nella terzietà
del giudice che deve valutarle. E' consapevole che quel
potere impone al magistrato un'autonomia cristallina e
una forte ed equilibrata professionalità, un lavoro
ancora più rigoroso nelle fonti di prova che dovranno
essere "blindate", per così dire, se si vuole
affrontare il dibattimento: se non lo sono, meglio
lasciar perdere... Voglio dire che Falcone vede, nel
nuovo processo, la possibilità di garantire allo Stato
maggiore forza nel difendere la cittadinanza dalla
criminalità senza mutilare le garanzie dell'imputato.
Non mi sembra questo, oggi, il centro del dibattito.
L'ipertrofia legislativa ha deturpato il processo
rendendolo un ibrido osceno dove lo Stato non difende
più se stesso e le regole che si è dato e un imputato,
se ha buone risorse, può difendersene con cavilli ed
escamotage addirittura impedendone la celebrazione. Ecco,
se si vogliono utilizzare le riflessioni di Falcone e
questo vale sia per la politica che per la magistratura -
siano ripristinate le condizioni che erano alla radice
dei suoi ragionamenti: rito accusatorio, volontà dello
Stato di potenziare il controllo della legalità,
garanzie per l'imputato nel processo e non dal processo.
Si mettano da parte le tentazioni di rendere subalterna
ad altri poteri l'attività giudiziaria. In caso
contrario, si lasci in pace nella sua tomba Giovanni
Falcone".
Tra le "fissazioni" di Falcone, non è
soltanto il rito accusatorio a segnare il passo. La legge
per i "collaboratori di giustizia" è un arnese
inutile ormai. L'unicità di comando di Cosa Nostra
appare un residuo culturale. La centralità delle
investigazioni, un'opzione non necessaria. L'intero
"quadro" legislativo e di metodo nato
dall'esperienza di Falcone appare in crisi. Le chiedo: è
vero? E, se è vero, chi o che cosa ne porta la
responsabilità?
"Anche a rischio di apparire provocatoria, le
rispondo che quel "quadro" legislativo e di
metodo, come lo chiama lei, è in crisi perché chi lo ha
utilizzato, in alcuni casi, lo ha fatto senza la
necessaria professionalità e rigore. Mai Falcone avrebbe
interrogato un mafioso di Cosa Nostra, come Giovanni
Brusca, alla presenza di dieci pubblici ministeri venuti
a Roma da procure diverse, come è purtroppo accaduto.
Mai credo avrebbe accettato una convivenza tra Stato e
mafia, il "quieto vivere" che abbiamo sotto gli
occhi. Si dice addirittura che siano in corso trattative
con i capi di Cosa Nostra!".
Si riferisce alla lettera che Pietro Aglieri ha
inviato al procuratore Vigna?
"Sì, a quei brani pubblicati dai giornali. Quella
lettera, e lo dico per la mia esperienza, non mi sembra
possibile che sia stata scritta da Pietro Aglieri: è un
italiano troppo corretto ed efficace. Chi gliel'ha
scritta? Mi auguro, anzi sono sicura, che non si è
aperta nessuna trattativa. Ma non mi spiego perché
quelle lettere non finiscano nel cestino della carta
straccia. Questi signori sono i responsabili dei più
efferati delitti. Hanno ucciso bambini innocenti, sciolto
cadaveri nell'acido, massacrato servitori dello Stato.
Sono stati giudicati responsabili, con sentenze passate
in giudicato, di migliaia di omicidi commessi negli Anni
Novanta, un eccidio degno di una guerra civile. Ora si
fanno avanti annunciando di volersi dissociare. Che poi
vuol dire ammettere l'esistenza di Cosa Nostra senza
accusare nessuno. Non capisco che cosa ci possa
guadagnare lo Stato da una trattativa come questa.
Sappiamo già che Cosa Nostra esiste, senza che ce lo
dicano loro, e sappiamo che loro sono i capi e gli
assassini di Cosa Nostra. Non c'è nulla da
trattare".
Da quel che si è capito, il motivo ufficiale è
l'abolizione del cosiddetto 41bis, vogliono un carcere
meno severo.
"Meno severo del 41 bis di oggi, annacquato come un
vino di quart'ordine, c'è soltanto il carcere-grand
hotel di una volta. Il 41 bis in origine prevedeva
isolamento pieno in un'isola, un colloquio al mese e
nessun contatto tra detenuti. Ora i mafiosi hanno anche
l'ora di socialità. Potrebbero accontentarsi, ma non si
accontentano. Vogliono riunirsi, organizzare un tavolo di
trattative. Chiedono di ricostruire il loro potere e c'è
chi gli dà spago, a quanto pare".
Che cosa bisogna fare, secondo lei?
"Il loro potere criminale deve essere distrutto.
Hanno avuto un giusto processo. Sono stati condannati.
Che il carcere per loro sia severo, come accade negli
Stati Uniti, dove per assassini come Aglieri la
tolleranza è zero. Vogliono un carcere meno duro? Dicano
quello che sanno. A cominciare da collaboratori come
Brusca che non hanno detto tutto".
Giovanni Brusca, che a Capaci attivò l'innesco del
tritolo, ha confessato. Che cosa doveva dire che non ha
detto?
"Le sue dichiarazioni, per le stragi del 1992 e '93,
mi sono sempre apparse insufficienti. E' stato latitante
fino al 1996, era in grado di conoscere ben altro che non
l'operazione militare che portò alla morte di Paolo
Borsellino e Giovanni Falcone".
Sta dicendo che Brusca conosce i mandanti non mafiosi
della strage, ammesso che ce ne siano?
"Nel 1993 ho scritto che, delle stragi, abbiamo
soltanto una parziale ricostruzione e che la verità non
c'è ancora. Di questo sono tuttora convinta".
Ritornerà ad occuparsene?
"L'attività giudiziaria ha le sue regole e le sue
competenze. Se mi dovesse capitare, non mi tirerò certo
indietro. Spero di poter fare il mio lavoro con un
ordinamento giudiziario che sappia ancora garantire alla
magistratura quell'autonomia e indipendenza che, per
Falcone, erano alimento essenziale del principio
costituzionale dell'eguaglianza dei cittadini di fronte
alla legge".
Nutre qualche dubbio?
"Quale magistrato non coltiva oggi qualche dubbio
con i progetti di riforma presentati dal governo? Io
credo che in questa battaglia, che vede in gioco il
destino stesso di una funzione giudiziaria indipendente e
quindi il futuro dello Stato di diritto, la magistratura
debba saper vedere meglio, più acutamente - e
finalmente, aggiungo - nell'esempio di Giovanni Falcone
un modo di essere un magistrato che umilmente, senza
arroganza e tentazioni di potere, serve il compito che la
Costituzione gli ha assegnato. E' un compito terribile,
essere autonomi; ma è il nostro compito. E' il compito
che Giovanni svolse fino all'ultimo minuto della sua
vita. E' il "testimone" che ci ha consegnato.
Noi magistrati dobbiamo raccoglierlo e difenderlo senza
le divisioni, il risentimento e l'invidia che gli resero
la vita breve e infelicissima".
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