C'era una volta un albero, un albero alto e dritto in un bosco. C'era un albero, e ai suoi piedi c'era un uomo con una bambina; così, l'albero osservava una piccola processione con una bambina davanti e un uomo di circa quarant'anni con un piatto in una mano e un cucchiaio nell'altra, dietro la bambina. La bambina non era infastidita dalla presenza di quell'uomo, era piuttosto quel piatto ad ossessionarla, ma tutto ciò che poteva fare era non pensarci. Così la bambina gironzolava cercando di ignorare il più possibile quel piatto con il suo contenuto, ogni tanto si fermava, indicava qualcosa con il dito teso e diceva "papà cos'è quello?", allora l'uomo che la seguiva, lusingato dall'occasione che gli veniva offerta le si avvicinava e con il tono dell'incantatore di serpenti le forniva dolcemente una risposta mentre con una mano muoveva il cucchiaio, quasi nascostamente, lo riempiva e lentamente glielo porgeva, ma la bambina immediatamente serrava la bocca scuotendo la testa.
La paternità gli aveva già insegnato la pazienza e l'attesa: quindi l'uomo ritraeva il cucchiaio, quindi la piccola processione riprendeva la marcia. Piccoli passi, piccole illusioni, piccole attese: la bambina tese di nuovo il dito verso qualcosa, stavolta si trattava di una porticina di ferro incassata nella roccia della montagna, chiusa con un grosso catenaccio. Non era tanto la porticina ad incuriosire quanto il rumore che ne proveniva, acuto, metallico, di qualcosa di leggero che cadeva dall'alto, in una cavità che la porticina chiudeva. Questo qualcosa doveva essere straordinariamente prezioso e bello per essere custodito così gelosamente, pensò la bambina, "Papà cos'è quello?" i luminosi occhi grigi di lei si spostarono dalla porticina al volto di suo padre. "E' la cascata delle stelline" rispose l'uomo, "tutte le stelle che cadono dal cielo in agosto, finiscono in un grosso buco ad imbuto sulla cima di questa montagna. Poi, formano un piccolo ruscello sotterraneo che scende all'interno della montagna, e precisamente in questo punto, le stelline formano una cascata. Il rumore che senti è quello delle stelle che cadono nel salto della cascata all'interno della roccia".
I luminosi occhi grigi della bambina si illuminarono ancora di più, nella sua testa l'immagine di un torrente di piccole stelle bianche a cinque punte impresse definitivamente la convinzione che nulla, assolutamente nient'altro al mondo ci sarebbe potuto essere di più desiderabile, voleva vedere quella spettacolare cascata, anche solo per una volta, soltanto per un attimo doveva vederla.
"Apri la porticina, papà?"
"Non posso aprirla, non ho la chiave. Ma c'è un uomo, il custode della cascata delle stelline, che ha la chiave del catenaccio, e se tu mangerai tutto quello che c'è nel piatto io ti prometto che cercherò quell'uomo e gli chiederò di aprire la porticina per farti vedere la cascata delle stelline." Piccoli passi, piccole illusioni, piccole attese, piccoli ricatti, e grandi alberi tutt'intorno dritti nel cielo ad ascoltare.
La bambina mangiò, quello ed altri giorni, e divenne una donna che sapeva quello che voleva e soprattutto sapeva cosa avrebbe cercato. Non sapeva bene come avrebbe potuto riconoscere l'uomo giusto, il custode della cascata delle stelline, non sapeva, tra i tanti uomini che le sarebbe capitato d'incontrare quale avrebbe potuto custodire quella chiave, ma era certa che l'intuito le avrebbe dato i suggerimenti giusti, e successivamente, sarebbe bastato frugare nelle tasche del prescelto. "Non voglio rubargliela", pensava la donna, "voglio che sia lui a darmela, senza dolore. Mi basterà essere certa che ho trovato l'uomo giusto, poi, aspetterò, aspetterò che lui mi permetta di prendere quella chiave ed usarla."
Cominciò così una ricerca ardua ma piena di passione, di uomini ce n'erano tanti intorno a lei e i suoi luminosi occhi grigi catturavano l'attenzione di molti sguardi, e le capitava a volte di scorgere in qualcuno di quegli sguardi un fulgore strano, e allora pensava che quegli occhi potevano aver visto qualcosa di meravigliosamente bello come solo la cascata delle stelline poteva essere.
Così, a volte in uno sguardo, altre volte in un gesto o in un tono di voce insolitamente carezzevole, le sembrava di cogliere l'indizio giusto e decideva di indirizzare la sua ricerca su quella persona. Giocosamente, appassionatamente, cominciava a frugare nelle tasche degli uomini che incontrava e che sceglieva. Era impressionante la quantità e la diversità di cose che trovava in quelle tasche: a volte trovava soldi o regali per lei; altre volte c'erano lacrime; altre volte ancora trovava solo uno strano pezzo di carne capace di un piacere inebriante; a volte c'era allegria; in qualche caso le capitò perfino di farsi male, di tagliarsi le mani infilandole in quelle tasche, e in quei casi pensava "ecco, potrebbe essere un ulteriore indizio, dopotutto le stelle hanno punte taglienti, chissà che quest'uomo non ne abbia rubato una manciata proprio lì, alla cascata delle stelline, e se l'ha fatto vuol dire che ha la chiave!"
Gli uomini si lasciavano frugare da lei, alcuni con pazienza, altri con indifferenza, altri ancora cercavano di difendersi da quelle mani così ansiose, qualcun altro invece con uno strano struggimento impotente la lasciava fare, ma nessuno di loro capiva. Proprio, non capivano mai gli uomini, sopportavano la sua ricerca ma non la capivano mai. Ma lei non ne era per nulla addolorata, anzi. Le faceva piacere che non capissero perché aveva paura che l'avrebbero presa in giro, o forse sarebbero scappati spaventati dall'impellenza del suo bisogno, insomma, lei era convinta che fargli sapere cosa lei stesse cercando avrebbe in qualche modo complicato le cose. E poi succedeva una cosa strana: si rendeva conto che gli uomini avevano un modo diverso di usare le parole, sembrava che il mondo in cui vivevano non fosse un mondo di parole ma un mondo di oggetti, e non sarebbe stato così negativo se tra questi oggetti ci fosse stata quella benedetta chiave, ma purtroppo la chiave non c'era.
La sua estenuante e febbrile ricerca a volte diventava disperazione, e allora il suo compagno del momento cercava di consolarla, senza capire e senza neppure provare a capire, la trastullava con altri oggetti, con tutto ciò che le sue tasche contenevano, e lei apprezzava riconoscente questa sua semplicità ma non le bastava. Soprattutto non le bastava quel suo accondiscendente modo di lasciar fare senza capire, probabilmente si sarebbe aspettata che anche il suo compagno le frugasse nelle tasche alla ricerca di qualcosa, ma questo non succedeva mai, era come se loro si accontentassero semplicemente della sua presenza, e questo lei proprio non riusciva a capirlo. "Come è possibile che non cerchino anche loro qualcosa?" si domandava inquieta, "mi piacerebbe domandarglielo" diceva tra sé e sé "ma come faccio a trasferire le mie parole in un mondo di oggetti che in risposta dovrebbe tradurre degli oggetti in parole affinché io possa comprendere?"
Succedeva quindi, quasi sempre, che lei vedesse le sue parole ritornare al mittente e dopo un certo numero di tentativi, stanca e demotivata, si arrendesse all'idea di lasciare quel compagno, verso il quale pure nutriva dell'affetto, ma non poteva scendere a compromessi con sé stessa: lei sapeva quello che voleva.
Sicuramente la sua tenacia veniva alimentata da un'unica ma incrollabile certezza: quell'uomo esisteva, non sapeva neppure lei come mai potesse esserne così sicura, dove nasceva la sua certezza, però la sentiva dentro di lei, grande e forte, attaccata alla terra come una grossa quercia secolare. Così, non senza dolore, si rassegnava alla rinuncia di un piccolo affetto e di piccole attese, così come di piccole soddisfazioni che pure a volte le avevano suscitato un sorriso. Rinunciava, certa che la sua costanza sarebbe stata un giorno premiata, lasciava quel compagno senza chiave e senza parole, lo lasciava lì, al di là di un baratro di silenzi.
Lo lasciava e lui non capiva, non capiva perché lo aveva scelto e non capiva perché lo lasciava, lei cercava di spiegare, ci si provava con sforzo autentico, ma era incredibile: perfino le sue ultime parole, perfino quelle importanti, tornavano al mittente. Così lei lasciava e si ripassava a mente il suo sogno, pronta per una nuova ricerca.
E incontrò infatti presto un altro uomo, e stavolta era diverso. Stavolta tutti i sensori della sua anima vibrarono all'unisono, perfino la quercia dentro di sé agitò le sue braccia, stavolta lo riconobbe davvero: era proprio lui. E infatti la trovò, la trovò subito, non appena cominciò a cercarla quella piccola chiave. L'uomo le fece vedere anche altre cose che aveva nelle tasche e non importava se alcune le bruciavano la pelle come rasoi, e non importava se quell'uomo aveva a volte il volto trasfigurato da una gioia sadica nel vederla ferirsi, la chiave c'era, lei l'aveva vista e toccata, c'era proprio. E quale strabiliante sorpresa! Quell'uomo la conosceva già, conosceva già lei e conosceva la sua ricerca! Quell'uomo l'aveva conosciuta attraverso il racconto di un amico e aveva riconosciuto in lei la sua compagna, quell'uomo la seguiva da molto tempo e sapeva già molte cose di lei. La seguiva, si, come un tempo l'aveva seguita suo padre per nutrirla e vederla crescere, allo stesso modo quell'uomo la seguiva. Ma ancora più grande e perfetta fu la sua gioia quando scoprì che quell'uomo sapeva usare le parole, che riusciva a tradurre in parole oggetti e significati inesprimibili, e parlarsi sarebbe stato facile perché lui possedeva un esercito invincibile di parole che aveva già conquistato il mondo. Lei ebbe la sensazione del miracolo, seppe in quel preciso istante di essere stata ripagata dal cielo, seppe che anche le stelle che in quel cielo abitavano avevano benedetto quell'unione, e seppe che avrebbe finalmente visto splendere sull'intera sua vita futura la luce di quella meravigliosa cascata di stelline. E allora lei tenne fede alla sua promessa: aspettò.
Aspettò che fosse lui a volergliela donare quella chiave, lui capiva, lui sapeva e l'avrebbe fatto, sarebbe stata solo una questione di tempo, tempo in cui lei avrebbe ingannato l'attesa nell'idillio di parole che lui avrebbe saputo regalarle. Grandi attese, grandi illusioni, grandi ricatti: passarono i mesi e volarono via, poi passarono gli anni e pesavano come macigni da trascinare giorno dopo giorno, e lei si accorse che non era più lei ad ingannare l'attesa ma l'esatto contrario. Quell'uomo era insaziabile, si nutriva del suo tempo, dei suoi giorni, con un'avidità tale che perfino le sue parole acquistarono presto una rinnovata forza: dapprima timide e sommesse, sussurri caldi sulla sua pelle, poi spavalde, dure, imperative, come carcerieri armati non più a difenderla ma a mutilarla. Lui aveva quella chiave, ma lui non voleva dargliela, non poteva dargliela, perché anche lui aveva un sogno, preciso e netto come quello di lei, ma che purtroppo andava nella direzione opposta, anche lui aveva incantato un'immagine d'amore nella sua mente, anche lui inseguiva una promessa, e anche lui aspettava. Grandi attese, grandi illusioni, grandi ricatti: per tutto il tempo, anni, che si sono aspettati non sono riusciti a darsi niente, solo a togliersi. Lui rivendicava oramai non più il suo amore ma il possesso del suo tempo costretto in una promessa di remoto domani, le sue parole erano oramai solo iniezioni di droghe anestetizzanti: l'anima di lei gemeva in un doloroso canto di morte.
La donna non ne poteva più, non riusciva più ad ignorare quell'agonia, quel grido dentro di sé che le feriva le orecchie costantemente, e quell'odore! Quell'odore di morte ovunque! Non riusciva più a sentire la voce della sua passione, quella passione che da sempre aveva alimentato la sua ricerca. Si accorse che debolissima e lontana quella voce dentro di lei c'era ancora, si avvicinò ancora di più a sé stessa e poi ancora e ancora finché non si ritrovò a correre disperata per le aride e tortuose strettoie della sua anima atrofica, correva con un'urgenza di salvezza a martellarle la testa e arrivò lì, di fronte alla grande quercia secolare, sedette esausta ai piedi di quella grossa quercia e cominciò a scavare con le mani nude nella terra una piccola fossa, raccolse dentro di sé ogni più piccolo frammento di quel sogno dilaniato e lo seppellì, proprio lì, ai piedi della sua certezza. Pianse, pianse tutte le lacrime che aveva, pianse e le sue lacrime divennero pioggia benedetta, divennero un temporale e la sua anima le bevve gonfiandosi come una spugna mentre la rabbia tuonava forte. Un temporale così non lo vedeva da anni, perfino quella grande quercia ne fu colpita, ma perse solo qualche ramo. Le sue lacrime finirono, alla fine finirono, e lei rimase lì, accoccolata per terra, con un gorgoglìo di acqua che scorreva nelle orecchie, e strano a pensarci, ma sembrava proprio molto simile al rumore sentito quel giorno con suo padre, si, sembrava proprio il rumore della cascata delle stelline.
Non lo capì neppure lei cosa capì in quel momento, probabilmente capì solo che non aveva capito niente, probabilmente era quella quercia beffarda e salda nonostante tutto a darle la forza di farlo, però lo fece. Disegnò con un dito affondato nella terra un sorriso, un sorriso caldo come un raggio di sole. Lo guardò con uno sguardo d'infinito ma non lo raccolse, lo lasciò lì, ai piedi della sua certezza, per non cadere in tentazione di cercare somiglianti
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saya marimpietri.