Faccio finta di niente

di DEEP

Ora mi viene facile chiamarla solitudine, questa sensazione languida che sgorga in me quando guardo tutte queste fotografie. Quanti amici, quante amiche, tutti ordinati sotto nomi improbabili, ipotesi di identità, infilati dentro cartelline gialle, basta un click del mouse e…puff, d’incanto ecco che spuntano fuori: visi sorridenti, occhi, tette, sguardi, denti, capelli, guance. Comitive improbabili rinchiuse dentro una variazione elettrica del mio computer, ma basta un click che loro si riappropriano della loro storia e del loro corpo, si riespandono in qualche sottoscala limbico nel mio cervello a rianimare il loro sporco ricordo, a rischiarare ricordi di eccitazioni segrete.

Ora scorro l’elenco, mi vengono in mente mille possibilità riorganizzative, non so, potrei dividerli in spasimanti, sesso virtuale, feticisti, sesso reale, amiche esibizioniste, gay…. ma provo un po’ di sgomento: la mia anima che si adatta a tutti, mi faccio un po’ schifo e mi sento anche un po’ solo insieme a loro.

Certo vado forte a calare reti, sono bravo…parole come tramagli, nasse, sciabiche, verbi e poi aggettivi e punti , punti. Reti invisibili calate nella notte, frasi come nodi insidiosi, pronte ad adattarsi alla vittima a risucchiarla subdolamente in uno spazio paludoso di noi stessi.

"Raccontami qualcosa di te"

"Dimmi, cosa vuoi sapere?"

"Non so…i tuoi sogni, i tuoi segreti, i colori della tua anima, i tuoi desideri"

"E’ la prima volta che qualcuno mi chiede questo…mi confondi un po’, ma chi sei?"

"Mi piacerebbe scoprire la tua bellezza precipitando a foglia morta dentro di te…"

"Mi piace questo tuo modo di parlare…sei strano…sai non entra mai nessuno nella mia anima, ma ti dico un segreto, se vuoi camminarci devi farlo in punta di piedi…"

Fatta, catturata, presa

"Senti ti chiedo una cosa banale, mi mandi la tua foto?"

Sei mia, la rete si chiude, ora mi appartieni e in questa specie di orgasmo immobile dei sensi comincerà il gioco dei nostri desideri, che liberati dalla dimensione reale, si sporcheranno di eccitazioni indecenti, meravigliati un giorno di averle pensate.

Ma il gioco, poi seguirà percorsi obbligati: e tu rinuncerai a cercare la chiave di me, chiuderai gli occhi e ti lascerai accarezzare, le mie parole umide scivoleranno sulla tua pelle, mi confesserai che sei eccitata, che hai allargato le gambe e che ti stai toccando ed io sarò sulla punta delle tue dita e ti descriverò il tuo profumo e sentirai dentro come una vibrazione smussata che ti percorre le gambe regalandoti un infinito, lieve, piacere.

Poi accade che un giorno mi dirai che mi hai pensato, che ti piacerebbe incontrarmi. E così la realtà , questa cosa che era rimasta sospesa fuori di noi, in un pericoloso inganno, si accorgerà di noi e lentamente riempirà gli spazi, scandirà i tempi, fisserà regole e ruoli, e tutto diventerà semplice, chiaro, banale.

E allora io scappo: cambio nome, faccio finta di niente, ti ignoro, e così tu resterai per sempre nella tua gialla cartellina, a sorridere nella tua foto migliore nella comitiva avariata dei possibili amori.

Poi un giorno venne lei e andò male, con Chicca andò male. Occhi verdi, pelle chiara, che per un’inclinazione chimica particolare, profumava di se, come un circolo vizioso ed incantevole nel quale si rincorrevano il verde degli occhi, il profumo e un sorriso tenero ed indifeso.

Non ci fu bisogno di mettere reti a mare, lei era così complementare che annullava le finalità, arrotondava i contorni di noi stessi, si accovacciava stanca sulle mie parole, si dissolveva nei suoi desideri per mischiarli ai miei, ogni tanto pareva scuotersi:

"… spesso il mio pensiero si volge automaticamente a te e lucidamente penso: sono semplicemente un gioco, conduce lui e io cretina che mi lascio trasportare in questa cosa, si concede e si nega....e quando manchi per troppo tempo penso che tu sia innamorato e hai abbandonato questa cosa vaga che siamo".

Io facevo fatica a rimanere lucido, era come se il disgusto di me stesso avesse preso il comando e si stesse vendicando di tutte le mie vittime, mi vedevo rispecchiato in quelle parole ed una vena sottile di orrore cominciava a farsi strada nella mia coscienza.

Piano piano, come una linea fredda nel mezzo del mare caldo, lei si insinuava per contrasto nei miei discorsi, io la vedevo, li in fondo che mi aspettava, nitida ed inevitabile:

"…non carico niente, ma non posso fare a meno di ascoltare: credo di sognarti la notte, credo che la notte sia piena di te. Ma di te poi cosa? Deep non ci sei nella mia vita, nel giorno...ma poi... mi manchi: come può mancare una cosa che non si è mai avuta, che non ha confini, che non ha definizione, della cui esistenza non si ha certezza?…."

Fu così che la rete sapiente di Chicca cominciò a chiudersi intorno a me: nelle sue parole sensibilità secondarie di me vedevano impressa la mia immagine e questa mi risucchiava, come se avessi incautamente scavato un buco ed ora ci cadevo dentro lento e definitivo.

Ci incontrammo al mare, sulla spiaggia di una primavera luminosa, c’era vento ed io arrivai all’appuntamento con il mio solito anticipo, intorno, come avanguardie di un’umanità balneare, c’erano persone sdraiate sopra teli esageratamente colorati, io mi sistemai su un moscone, poco lontano dalla riva, in una posizione che mi avrebbe consentito di vederla arrivare da lontano, una sorta di strategia per rallentare, allontanare, valutare, ponderare.

La mia mente volava basso, proprio sopra al limitare della battigia, compiva giri concentrici intorno ad un’idea fissa di incertezza per quello che stavo facendo, se avessi provato a fissare qualcuno dei miei sentimenti avrei racimolato solo stupore e un senso si inizio.

Arrivò puntuale, non so bene quale segnale emanò quella figura lontana, ma la riconobbi immediatamente: forze di gravità orizzontali spingevano la mia attenzione su di lei. Si avvicinò decisa, anche lei su un binario a traccia unica che portava dritto a me; ci guardammo e ci stringemmo la mano, un gesto formale, a voler dare una forma posticcia a qualcosa che già era straripato tra noi nei nostri dialoghi notturni.

Parlammo poco, e non ricordo più quello che ci dicemmo, era strano ma le parole non servivano più, tutto quello che c’era da dire lo dissero i nostri corpi, i gesti, le mani, gli occhi, gli sguardi, come a recuperare spazi lasciati in bianco, come a dare colore ad aspettative concimate solo a parole. Poi avvenne che ci togliemmo le scarpe e mi colpì quel piedino bianco, curato e tenero, e quella gestualità rituale, come se stesse scoprendosi il seno, e quegli occhi verdi all’improvviso nei miei, a cercare conferme, vie per intrufolarsi dentro di me, agguantarmi e finalmente portarmi via, a fare l’amore.

Accadde tutto così in fretta, un precipitare rapido al fondo di noi stessi, antitetico a quell’indugiare lento dei nostri colloqui al computer. Ci ritrovammo nel suo studio, bevemmo vino bianco ghiacciato, mi girava la testa, non capivo se per il vino o per quell’accelerazione violenta dei nostri desideri, ci abbracciammo con la forza di un maremoto definitivo, scivolammo per terra sul tappeto, poi lei chiuse gli occhi come in attesa ed io la spogliai, prima le scarpe poi la gonna e la camicetta e il reggiseno, poi di nuovo in basso le mutandine, accatastai gli abiti poco lontano e rimasi a guardarla risplendere nella sua nudità eterea, sembrava rischiarare l’aria intorno, il viso disteso, mi sorpresi a sorridere della mia fortuna di avere accanto una donna bella, dotata di grazia. Grazia e bellezza che non sgorgavano nei lineamenti del viso e nelle movenze del corpo, ma venivano da più lontano: emergevano dalle profondità interiori per rispecchiarsi nelle sembianze.

Poggiai le mie labbra su di lei e la percorsi dalla testa ai piedi seguendo il profilo dei seni, indugiando sul capezzolo e poi giù verso la pancia e poi a sfiorarle il sesso e poi le cosce fino ai piedi…dolcissima meta.

Non mosse un dito, ma sentivo vibrazioni concentriche che le facevano correre il sangue veloce e sollevavano come un profumo inebriante, lei si girò carponi decretando altri percorsi più osceni ed io iniziai di nuovo, questa volta in punta di lingua, giù per la schiena e poi sui glutei e accadde che lei con le mani li divaricò leggermente e a me sembrò di impazzire, stretto nei miei vestiti, sentivo un formicolio feroce diffondersi nel ventre, avevo il pene come anestetizzato in una posizione di attesa vogliosa, ma lei non lo toccava, forse una tattica sapiente per farmi impazzire. Mi avventai nel solco e la leccai con tale dolcezza, che lei lo allargò ancora di più, la sentivo mugolare di gioia, forse ricongiungersi a desideri segreti, mi colpiva questa predisposizione innocente alla perversione.

Quel pomeriggio quando me ne andai non ebbi il problema di rivestirmi, eppure mi sentivo ubriaco, scardinato, aperto, definitivo.

Giunto a casa sperimentai un improbabile controllo delle mie difese, ma la cosa più sensata che riuscii ad escogitare fu masturbarmi col film di me stesso.

Adesso è tardi, chiudo tutte le foto, le rimetto nelle loro cartelline gialle, spengo il computer, la mia donna dorme da un pezzo lei non le sa tutte queste cose, le custodisco in segreto come la combinazione della mia anima, lei non capirebbe la mia storia. Mi avvicino al letto, riconosco il suo respiro: una vibrazione timida del silenzio, viene voglia di starlo ad ascoltare, sono ancora invischiato in questo senso di solitudine, ed il ritmo del suo respiro lieve mi tranquillizza, poi si gira dalla mia parte, apre gli occhi, sento che sta sorridendo: " sai ti stavo sognando, questa notte è piena di te", Chicca mi abbraccia circondandomi al suo modo, con le braccia e con le gambe ed io in questa tenera morsa, piccolo pesce intrappolato, cambio nome, faccio finta di niente, ti ignoro, così la realtà non si accorgerà di noi.