Ero seduto su un blocco di marmo antico, di forma rettangolare. Alla mia
destra c'era lei. Non ricordo il suo nome, o chi fosse, e tanto meno ne
ricordo il volto o la conformazione del corpo. L'immagine che ho ora di lei
è solo quella di una luce bianca e dolce. L'unico particolare che ho bene
impresso nella memoria, è la sua mano stretta nella mia, dalla pelle candida
e morbida. Fra noi c'era un profondo legame, tanto forte da farmi pensare
che fossimo fratello e sorella. Ero seduto, in silenzio, proteso con il
petto in aventi, la testa un po' chinata e le mani sulle gambe. Riposavo.
Lei faceva lo stesso, riposava, ma non ricordo la sua posizione.
Intorno a noi il senso di persecuzione era tremendo. Stavamo scappando,
anche se non so da chi o da che cosa; so soltanto che ci bastava percepire
quella presenza intangibile per sentirci terribilmente oppressi.
Ora però eravamo troppo stanchi e, a costo d'esser presi, dovevamo riposare,
pronti, in ogni caso, a scattare al primo segno di pericolo. E scattammo,
infatti, quando il pericolo si fece vicino, tanto vicino che, se fosse stato
visibile, lo avremmo potuto vedere.
Scappammo, tenendoci per mano, io avanti e lei dietro. Correvamo in quello
che ora si rivelava un cantiere. Correvamo fra il labirinto delle colonne
metalliche che s'innalzavano verso il cielo. Persone inesperte, correndo a
quella velocità, avrebbero seriamente rischiato di sbattere violentemente
contro qualche colonna, visto che queste erano disposte alla rinfusa e
spesso ostacolavano la strada. Ma noi no. Non so il perché, ma noi sapevamo
già la disposizione delle colonne e per questo correvamo spediti.
Dopo un po' le colonne metalliche furono sostituite da pali di legno
conficcati nel terreno, con alcune tavole poste orizzontalmente fra un palo
e l'altro, a diverse altezze, di modo che a volte dovevamo accucciarci o
saltare per passare oltre.
Il paesaggio del cantiere era cambiato, ma noi conoscevamo bene anche
quest'altro. Continuando a scappare, mentre non avevamo guadagnato né perso
neanche un centimetro rispetto al nostro inseguitore, il paesaggio mutò di
nuovo. Ci trovammo all'aperto, su una strada, il cantiere alle nostre
spalle. La via dove eravamo arrivati terminava incrociandosi con un'altra
strada, più in basso di circa un metro, e saltammo giù. La presenza - perché
solo così so definire ciò che ci opprimeva - era sempre più pressante e
terribile. I nostri cuori stavano per scoppiare quando ci ritrovammo tra le
colonne metalliche.
Sapevo che eravamo quasi arrivati, non so perché, ma a questo punto sapevo
che stavamo per riposarci; la presenza era meno opprimente, meno vicina.
In lontananza, fra le colonne, vidi una forma rettangolare bianca. Mentre ci
avvicinavamo mi accorsi che si trattava di un blocco di marmo. Arrivati lì,
esausti, decidemmo di fermarci un attimo a riposare, anche a costo di farci
prendere. Comunque ora la presenza si era allontanata - o l'avevamo
seminata - e potevamo riposare, pronti però a scattare al minimo sentore di
pericolo.
Ci sedemmo su quel blocco di marmo antico, lei sulla mia destra. Poggiai le
mani sulle gambe e mi flettei in avanti ansimando. Chinai la testa.
Passarono alcuni momenti, che stranamente ci bastarono per riposare. Non
parlavamo, ma ci trasmettevamo delle emozioni, delle sensazioni. Sensazioni
d'immenso terrore e di ossessione, ma anche d'amore, di speranza e di
conforto reciproco. Dopodiché la presenza ed il pericolo a lei connesso si
fecero di nuovo troppo vicini e dovemmo ricominciare a fuggire, mano nella
mano, prima io e di seguito lei.
Corremmo fra colonne metalliche, pali di legno e per una stradina. La
presenza era sempre intorno a noi, onnipotente ed onnipresente, e ci
tormentava di continuo, senza tregua.
Mi sentii sollevato quando potemmo riposarci di nuovo. Ci sedemmo su un
blocco di marmo antico, bianco, di forma rettangolare...
Finisce così il mio strano sogno, perché a questo punto mi sono svegliato.
Non è finito però il senso di oppressione, e penso che la fuga continui,
come nel pazzo incubo che vi ho descritto.
La corsa estenuante nella gara della vita, che ci presenta, di volta in
volta, sempre nuovi ostacoli, tra i quali a poco a poco riusciremo a
vincolarci sempre con maggior facilità ma anche, continuando a correre e con
il passar del tempo, con maggior stanchezza. La vita non si stancherà mai di
proporci nuove prove, nuove difficoltà, mentre la nostra carica vitale prima
o poi si esaurirà.
Questi ostacoli, queste pene, i conflitti, i doveri, gli impegni e le
preoccupazioni, diventeranno sempre più opprimenti e noi, senza scampo, ci
troveremo a non poterci fermare che per brevi istanti. Una fuga senza fine
da una presenza terribile, dalla quale non si può fuggire, ma dalla quale,
anche se di questo non ci si può rendere conto, non potremo mai esser
raggiunti. Questa non è una consolazione, perché in questo modo l'ossessione
è eterna, orribile, non dà speranza.
L'unica nostra consolazione, il motivo per cui molti continuano a correre, è
quella di avere vicino una persona alla quale si è legati da un sentimento
profondo - sia esso amore o amicizia o qualunque altro sentimento - con la
quale condividere e sopportare gli sforzi e le difficoltà. L'avere, se non
una persona, un ideale, uno scopo al quale ci si possa dedicare anima e
corpo e che ci possa accompagnare instancabile nella fuga, spronandoci e
dandoci la forza necessaria a superare le nostre pene. Senza una persona
vicina od uno scopo, è molto improbabile riuscire a correre per lungo tempo.
Purtroppo questa è la vita: o si corre o si è perduti. C'è solo un modo per
fermarsi a riposare: lasciare tutto e tutti; un gesto magari da codardi, ma
l'unico possibile quando le gambe e la mente non reggono più lo sforzo.
Spero che voi abbiate il vostro appoggio morale o comunque uno scopo per non
concludere da perdenti la gara. Io per me, anche se mi dispiace e non mi fa
onore confessarlo, ho deciso di compiere questo gesto. Infatti questo sogno
ha spalancato una porta dentro me, quella porta che dovrebbe restare chiusa
per sempre in ogni essere vivente, perché quando viene aperta svela cose che
distruggono.
E' per questo motivo che ho preso la pistola e fra pochi istanti la punterò
alla mia testa. Sono solo che scrivo, nella mia stanza, e lo faccio per
provare a spiegare il gesto che sto per compiere.
Finalmente porrò fine alla fuga.