"Un giorno, mille lire"

 


Faceva il tassista, lavorava anche il sabato e la domenica. Diceva che era
meglio così da quando si era separato.
Aveva un taxi tutto suo, una Fiat Croma dell'87. Non una gran macchina, ma per
fare quello che doveva fare, andava più che bene.
La prima volta che l'aveva vista era rimasto quasi paralizzato. Senza dire una
parola, era rimasto lì a fissarla. Pochi centimetri tra loro, poca aria, allungò
una mano e carezzò il cofano, con la stessa languida malizia di chi sfiora le
gambe a una bella donna seduta davanti.
Hanno alzato la saracinesca ed è apparsa d'improvviso. Una macchia gialla,
venuta fuori dal nero di sporco e di grasso e dal verde di benzina di uno
squallido garage. Insomma era stato bello vederla, colore che vince lo sporco,
luce che spegne il buio. Ricordava sempre quel momento, forse perché era stato
l’unico. Una leggera patina di grigio di smog la ricoprì fin dalla prima corsa,
come un velo su una abatjour, e niente e nessuno riuscì a ridarle lo splendore
di quei primi attimi, quando la saracinesca saliva e il giallo entrava negli
occhi.
Parlava, poco, quanto bastava, non era uno di quelli che fanno un sacco di
domande o parlano del tempo che cambia e dei dolori alle ossa.
Zitto. Gli dicevano dove volevano andare, e lui li portava. Stop, poi grazie e
arrivederci. O poco di più.
Era un martedì, quel giorno. Uno schifosissimo martedì di settembre, uno di
quei giorni che avrebbe benissimo fatto a meno di vivere, come tutti i martedì,
diceva. Odiava quel giorno, ma non è mai riuscito a tirar fuori una motivazione
convincente. Diceva che lo odiava e basta. Bisognava credergli.
Pioveva, e se c’era una cosa che lui amava veramente, quella era la pioggia,
dico sul serio, gli piaceva persino guidare con la pioggia. Adorava guardare
fuori dalla finestra quando piove, sentire quell'odore di pioggia che c'è
nell'aria, guardare i vetri bagnati che si appannano, le macchie colorate di
benzina che galleggiano sulle pozzanghere..., diventava matto per queste cose.
Quel giorno, invece, pioveva in un modo strano, in un modo che non sopportava,
senza odori, senza rumori, niente, c'era solo quella maledettissima pioggia
sottile che ti fa venire i nervi. Non sai mai se aprire o non aprire l’ombrello.
Fateci caso, solo di martedì può piovere cosi. Su questo aveva ragione.
Aveva un cliente in macchina da portare in stazione e passò per Via della
Chimica. Ci abitava in Via della Chimica, per questo ve lo dico. Ora invece ci
viveva la moglie, le aveva lasciato la casa dopo il divorzio. Era sua, ma gliela
lasciò lo stesso.
Tutte le volte che passava per quella strada, guardava ancora le finestre del
quinto piano, controllava se la luce era accesa, cercava la sua macchina
parcheggiata nei paraggi e guardava se i gerani sul balcone erano da sfoltire.
Era fatto così.
Ci passava apposta per quella via, facendo fare ai clienti dei giri strani. So
che non dovrei dirlo, ma è la verità. Erano ormai sei mesi che mancava da quella
casa ed erano sei mesi che non parlava con la moglie. Tutti i giorni, però, lui
faceva in modo di passare di lì, anche più volte, e questo era il suo modo di
starle vicino.
Arrivò in stazione, e fece scendere il cliente. "Il resto è per lei".
La odiava quella frase, il resto mancia, può tenere il resto, e altre simili,
gli sembravano una sorta di elemosina. Mise nel cassetto i soldi e notò una
banconota da mille con una scritta sopra.
Leggeva sempre i soldi scritti. Diceva che un giorno avrebbe voluto scrivere un
libro sul frasario delle banconote scritte. Le più belle le conservava. Ne aveva
persino una da 100 mila con l’autografo di Diego Armando Maradona. O almeno così
credeva lui. E comunque non c’è verso di fargliela spezzare quella banconota.
Su quella mille lire c’era scritto: "Il chiudere la tua porta non la chiuderà
fuori, il chiudere la tua porta può solo chiuderti dentro".
Rimase un po’ perplesso, come quando si legge il foglietto dei Baci Perugina e
non si capisce bene la frase, un po’ perché a volte è troppo banale, e un po’
perché spesso la si legge masticando il cioccolatino. Rilesse duo o tre volte
quella mille lire, fino a quando non sentì il clacson di un altro taxi dietro il
suo.
Cominciò a pensare all’autore di quella frase facendo strani viaggi mentali, e
alla fine delineò la figura di un uomo, sui trenta, probabilmente uno che
lavorava in banca, storia di tre anni con una donna che lo amava e lui che
invece le voleva solo bene.
Ci prendeva sempre quando descriveva le persone senza conoscerle. Riusciva a
fare l’identikit di tutti i suoi passeggeri, e vi posso solo dire che sbagliava
davvero poco. Gli devo ancora 3 birre, ora che ci penso.
Il banchiere l’aveva lasciata, e poi si era pentito, forse si era accorto
all’improvviso che aveva bisogno di lei, che non poteva più vivere senza, e che
il suo chiudere la porta, il suo lasciarla non lo aveva reso libero, ma lo aveva
chiuso dentro, dentro un apparente mondo rassicurante, fatto di piccole e solite
cose, il lavoro, buongiorno buonasera, discussioni calcistiche del lunedì
mattina: "si potevamo pareggiare…", il frigo pieno di precotti surgelati, il
fine settimana dalla mamma…
E un diluvio sottile di sensazioni sempre più dense e oleose, come la pioggia di
quel giorno, lo portò a considerare la sua situazione. Forse perché era una
settima che andava avanti solo a 4 salti in padella, o forse perché quando se ne
era andato gli sembrava di aver usato proprio una frase del tipo "apro quella
porta ed esco dalla tua vita". (Guardava troppi film, glielo dicevo sempre).
Ebbe come la sensazione di vivere in mondo isolato, un mondo nel mondo, senza
relazioni con gli altri. Ogni tanto qualcuno vi entrava, ma era solo di
passaggio, "piazza Umberto, per favore", "Subito in Via Dante al 14…", nessuno
rimaneva, tutti entravano e uscivano. Il suo taxi giallo era il suo mondo
ambulante, e la sera gli dispiaceva appendere le chiavi sul muro vicino alla
porta, e guardare la saracinesca che si abbassa come si guarda un tramonto, e
sentire nel sangue la stessa sensazione di freddo di un giorno che muore. "A
domani", si diceva sempre.
Provava la stessa solitudine di chi chiude una finestra, l’unica finestra sul
mondo, quello reale, fatto di persone, di birre offerte al pub, di finali di
coppa campioni alla televisione, di brioches calde e cappuccino, di baci e
abbracci alla propria donna, di bambini che giocano nel parco, di rumore di
lenzuola pulite dure e fredde come marmo, di odore di pipì del cane della vicina
nell’ascensore del palazzo…
Si era chiuso dentro, e se ne accorse in quel momento, quel martedì, con la
pioggia che batteva sul vetro, mille lire sul cruscotto, e il semaforo che
diventava verde e lui non si muoveva.
Non siete obbligati a credermi, e questa storia è gia assurda per conto suo, ma
mentre fissava i tergicristalli muoversi avanti indietro che come due lame
tagliavano i fili di tutte le resistenze e le inibizioni, disse ad alta voce
"Via della Chimica 35", abbassò il tassametro come se dovesse portare qualcun
altro, e fece fischiare le gomme, tanto partì veloce.
Non sto a raccontarvi quante volte rischiò la vita prima di arrivare, ma posso
solo dirvi che giunto davanti a casa stette dieci minuti buoni a contemplare la
porta prima di suonare il campanello, la stessa porta dalla quale era uscito sei
mesi prima senza sbatterla, ma accostandola delicatamente, come si chiude una
cassaforte. Pensava di uscire, invece entrava in un mondo fatto di solitudine e
silenzi, in un mondo senza legami e senza poesia.
Suonò il campanello con la mano che tremava e quando lei aprì la porta una
pioggia di colori e odori e ricordi investì la sua mente.
Erano uno di fronte all’altro, in un silenzio che si tagliava, fissi negli occhi
per non so quanto tempo, e non è facile, credetemi, rimanere così a lungo senza
muovere lo sguardo. Ogni volta che raccontava questa scena aumentava sempre il
numero dei minuti, una volta disse persino che era rimasto lì a fissarla per
un’ora intera.
Vide una lacrima scendere sul viso di lei, e fu come vedere la sorgente di un
fiume di montagna dopo 5 ore di cammino.
Conosceva le sue lacrime, e l’ansia nello stomaco si sciolse in un attimo,
allora fece un passo verso di lei, entrò, chiuse la porta dietro di sé e disse:
"Domani darò una sfoltita ai gerani".
Avrebbe potuto dire mille altre frasi, più romantiche più convincenti anche più
sensate di quella, ma la sua mente in quel momento elaborò solo quelle semplici
parole: domani darò una sfoltita ai gerani.
Era fatto così, e forse è stato il suo modo per dirle che non poteva vivere
senza di lei.

Forse gli angeli sulla terra sono tassisti, soli e senza un posto dove andare,
loro che invece portano in giro tutti. Forse non hanno nessuno che li scaldi e
che li aspetti veramente. Accompagnano, ma non sanno farsi portare. Conoscono
tutte le strade ma non trovano la propria.
E non resistono molto dentro il ghiaccio delle città, si appartano negli ultimi
piani di un condominio ad aspettare quello che aspettano tutti, e che trovano
solo quando ormai tutto è finito.
Lei morì due mesi dopo. Cancro. Lui continua a lavorare anche il sabato e la
domenica, e ogni martedì va ad innaffiare e sfoltire i gerani sulla sua tomba.
Piove, e stasera tocca a me pagar da bere. D.

 

 

dadaniele