Per Vasco Bendini

Flaminio Gualdoni

Vasco Bendini si presenta la prima volta al Premio Lissone nel 1959, XI edizione (l’anno in cui Vedova ottiene il premio maggiore), con un’opera della serie Gesto e materia. Due anni dopo una declinazione materica di Gesto e materia sarà nella "Rassegna della pittura italiana non figurativa da questo dopoguerra a oggi", prefata da Umbro Apollonio, in seno alla XII edizione, passata alla storia per l’attigua "Sezione informativo-sperimentale" in cui il grande pubblico conosce Lo Savio e Uncini, Schifano e Manzoni, Paolini e Adami. Nel 1963, poi, esporrà Natura e no alla XIII edizione.

Le tre presenze sono importanti, non tanto perché segnalano l’assiduità dell’artista alla rassegna lissonese negli anni del suo accredito definitivo come grande figura della pittura italiana (è, questo, il tempo della serie continua di personali all’Attico, Roma, delle mostre milanesi al Milione, 1956 e 1958, e all’Apollinaire, 1961, da Mc Roberts & Tunnard, Londra, 1963, a culminare con la sala alla Biennale veneziana del 1964), quanto perché denotano da subito la lieve asincronia generazionale, e la sottile estraneità espressiva, che caratterizza l’avvio di Bendini rispetto alla compagine ufficiale dell’informale internazionale, della quale di volta in volta vien letto come giovane autorevole esponente, oppure come iniziatore del superamento.

E’ la serie dei Segni segreti, nel primo lustro del decennio Cinquanta, a dichiarare subito che Bendini non giunge all’art autre dalla prospettiva ordinaria del trascendimento naturalistico, che pure proprio in quel tempo il suo mentore primo e autorevolissimo, Francesco Arcangeli, va teorizzando. La lezione di Guidi, maestro d’una generazione e più all’Accademia bolognese, vien letta da Bendini come invito a introiettare e astrarre emotivamente, prima ancora che linguisticamente, l’innesco visibile, e a considerare i fattori primi della parlata non oggettiva - il segno su tutti - non come forma di deroga formale, ma come naturale stenografia del flusso emotivo, che ne sintetizza il valore e lo espande espressivamente.

Le carte dei Segni segreti non sono la schematizzazione del visivo, e piuttosto la scrittura dell’emotivo, da subito, per l’artista. E valgono a stabilire che il suo interesse prima è identificare non nodi altri di rappresentazione, ma un passo autonomo di generazione dell’immagine, la cui corporeità sia segno e materia tutti pittorici, infine. Corpo d’immagine, dunque spazio d’immagine. Uno spazio che sia luogo proprio del dramma sospeso del formarsi, tensione di forme nascenti e di relazione tra i momenti, da temporali fatti spaziali, che vi innescano percorsi plurimi.

Ecco così impostarsi la scelta della sua tipicissima scala di non-colori, meglio, di colori/luce non descrittivi, non evocativi, neppure simbolici, la cui unica vita è data dal rapporto con la luce: a sua volta, luce interna, all’opposto che fisica ma senza farsi tentare da metafisiche d’accatto, nella levità luminosa delle materie asciutte, d’addolcita e semplice magrezza.

Luce di clima mentale, che rende possibili non le apparenze, ma infine un puro apparire.

Gesto e materia è la conseguenza naturale di tale partenza. L’immediatezza del segnare, il valore del gesto come momento di effusione non bigotta del corso lungo dell’assaporamento emotivo, non sono avvertiti e dichiarati dall’artista come prese di posizione che lo collochino da qualche parte nel dibattito artistico, in quegli anni sin troppo fervido. E men che meno sono asseverati da prese di posizione di tipo teorico, o ideologico: il che non è ora, né mai sarà, nelle corde di Bendini. L’esperienza del coagulare l’innesco emotivo in un gesto netto e senza intenzioni, resa possibile dal suo intendere la materia, lo spazio, la luce, il colore della pittura come valori in sé, indifferenti a quanto possano essere ascritti a questa o quella poetica corrente, lo porta a saggiare in profondità la fisiologia interna dei corpi pittorici che vanno nascendogli sulla tela.

Bendini prende a conoscere, in questo tempo, anche il proprio approccio istintivamente sensuale con la materia coloristica, una forma di pulsazione erotica che va spinta a eccitare, ma senza equivoci, il processo generativo dell’immagine. La materia turgida e ricca delle tele di questa stagione non viene utilizzata per catturare in prima lettura la sensibilità dello spettatore, ma rastremata in una sorta di carnalità pudica e vagamente straniata (è Andrea Emiliani a scrivere di un’apparenza "lussuosa nella non più lubrica colatura materica"), cui fa da alternativa linguistica il dilavarsi dei colori in aliti, veli, quasi demateriati di sostanza e di tono. Per questo Maurizio Calvesi può scrivere, allora, di "essenzialità materica" e di moto "tacitamente convulso" dei gesti: per sottolineare quanto, sotto l’apparente bruschezza dell’effusione dei gesti e delle materie, agisca in Bendini un atteggiamento analitico, di consapevolezza feroce del fare nei suoi singoli, minimi, istanti, come condizione unica di quella che possiamo, per altro verso, pur continuare a chiamare immediatezza.

Vengono, negli anni Sessanta, altre serie, nelle quali egli sente di poter affrontare un più esplicito e criticamente fruttuoso rapporto con la nozione corrente di figura. Esso si svolge tanto sulla tela, con pitture in cui il dotto si fa più marcatamente incisivo degli spessori del colore, quasi ad agirvi da sistema nervoso, da muscolatura fremente d’una identità fisica fatta di materia, a suggerire che il processo formativo può - nell’orizzonte del possibile - costituirsi in individuo plastico equivalente alla nostra idea di corpo fisico.

Ma si svolge altrettanto nei dintorni, a contaminare e coinvolgere di sé lo spazio storico, la luce fisica, una materia che non sia quella convenzionale della pittura. Se, per un tempo, egli può aver tenuto conto del confronto critico prezioso con autori come Wols e Fautrier, per certi versi, e per altri come Michaux e Bryen (è Arcangeli a scrivere per lui di "certi ampi andamenti dell’ultimo Klee, che Bendini assumeva con un risultato quasi da Kline più fragile"), ora è piuttosto l’asse complesso del polimaterismo, che da Prampolini trascorre al New-dada per la via di Burri, a fargli immaginare una sorta, nonché di corporeità, di oggettività altra.

E’, questo, l’innesco della stagione che porta Bendini, per un gran tratto degli anni Sessanta, ad esperienze di un tipo che la critica definisce oggettuale, oppure più esplicitamente legato al comportamento e ai prodromi dell’arte povera. Nelle letture in sincrono, e di cronaca, del tempo, è prospettiva corretta, benché Giulio Carlo Argan avverta che tali opere "non sono affatto ambienti o environments, opere d’arte in cui si entra e si realizza un’esperienza estetica integrale: non sono, infine, quadri a più dimensioni". Con il senno dell’oggi, si tratta piuttosto di una sorta di espansione estrema in cui Bendini spinge il proprio stesso corpo a misurarsi con la situazione plastica, beninteso una situazione plastica costruita in modo, in odore, in relazione critica forte, con la proiezione pittorica.

"Di nuovo, è questione di apparenza, di apparire dell’immagine, e di corpo: un corpo cercato ora al punto di contraddizione tra il piano d’esperienza ordinario e la trasfigurazione sensibile, memoriale, simbolica, che avviene allo strato dell’arte": così, in altra occasione, mi era accaduto di annotare.

Ecco dunque il legno, le resine, le plastiche, la paglia, i tessuti, irrompere nell’opera, e le forme farsi quelle del mondo, a partire dal barattolo e dal crogiolo, oggetti per altro verso dell’arte che all’arte tornano per trasfigurazione.

Prende avvio in questo momento, da queste avventure extramediali, un riaccostamento alla pittura in cui le materie, i prelievi concreti dall’esperienza del mondo, sono introiettati completamente nella partita pittorica: dalla tela del fondo, che è materiale in sé e insieme schermo convenzionale, agli inserti che paion coagularsi sugli olii, sulle campiture d’un colore ora più energico e temperato, a bilanciare la presenza corposa degli innesti.

Scrive Filiberto Menna: "materia, colore, segno accolgono dentro l’opera le cose esterne, ne mediano il messaggio integrandolo con il flusso pulsionale proveniente dall’interno; gli oggetti tengono in tensione la superficie, bilanciano le forze che spingono in senso centripeto, tendono a far uscire il quadro dal quadro".

Ancora, tuttavia, questa è a pieno titolo pittura. A Bendini non interessa, dimostrativamente, spingerla sino a confini lontani dal codice storico, per provocazione o costruttivamente non importa. Il suo scopo è, nuovamente, cogliere il punto in cui la passività della materia si fa vitalità di sostanza, in cui il colore si fa tensione luminosa, e, nuovamente, mozione inquieta del generarsi verso una sorta di bellezza: una sorta perché non affermata ma interrogata, dubitante, fastosamente sensuale quanto, si avverte, in fondo disperante: davvero, nelle parole di Emilio Villa, "l’altra natura inventata dalla iniziativa pittorica".

E’ alla fine del decennio che Bendini ritiene esaurita questa sua fase di più aperta incursione tecnica, e avvia il corso lungo che lo riporta entro gli strumenti storici - per codice - della pittura. Transizione perfetta è, da tal punto di vista, la serie breve ma folgorante delle Memorie e di Alchimia dell’immagine, a cavallo del volger di decennio. L’artista adotta il supporto d’una lastra di alluminio, lucente in sé, resistente, algida, per molti versi antiteorica: non spazio neutrale cui si rivolga l’aspettativa pittorica, anzi vagamente ostile al fare; a un tempo, sul piano delle implicazioni concettuali, specchiante in sé, ragione di un "doppio" ineludibile.

Ebbene, egli ci interviene con sorte di dilavamenti all’apparenza naturali, si vorrebbe dire casuali, dell’olio, del quale avverti la liquidità, il fluire senza che il dotto del pennello ne indichi la passività rispetto ai gesti dell’autore. E’ davvero, questo, clima colorato, un colore/luce che velando s’impossessa dello spazio, nega alla materia del fondo il suo connotato maggiore - il quale pure trapela, a ricordarci l’astuzia dell’arte - e si fa davvero apparizione, epifania d’immagine: una immagine straniata, altra in sostanza, ma foriera di vertigine. "Orgasmo bianco, silenzioso, che affiora in leggeri trasalimenti": così aveva scritto Calvesi.

Ecco nascere, negli anni Ottanta, Il ciclo delle parvenze e la serie Il tempo come creazione. Bendini, raggiunta la sapienza, si volge con souplesse sovrana a una vocazione più intimamente naturale dell’immagine. La natura vista non è più questione, ormai, definitivamente: resta il naturale, di mente e d’anima e di corpo che si avverte e conosce.

Gli strumenti espressivi non sono più, ora, le spossatezze dei toni, le economie serrate dei colori. Bendini si concede una sorta di forzatura iperestetica, si concede ori e rosa struggenti e gialli e terre pieni e lucenti. E’ tuttavia il controllo, lo scrutinio minuzioso, la sua capacità di auscultare i brividi emotivi minimi, a trattenere i moti della pittura entro confini che non rendano tutto ciò mero esercizio di gusto, pittura messa in scena.

In queste serie, come in Il tempo come creazione e Ipotesi d’attesa, Bendini si consente la misura del far grande, del prestigio visivo, del fasto verrebbe da dire. L’immagine cresce lenta e clamorosa, si concede e ci concede la meraviglia, una sorta di dismisura che avvolge l’occhio e cova l’emozione sino a farla turgida, in plenitudine di affetti e di riverberi mentali.

Come scrive Fabrizio D’Amico, il fare di Bendini "dilaga nelle vastissime superfici con piglio, insieme, orgoglioso e suadente. La mano s’abbandona ad inaudite alterigie; l’animo si gonfia per via, facendo; si riempie di turgidi sensi".

E’ questo clima, questa tensione, ad animare tutto il Bendini ultimo, sino alle prove d’oggi, grandi tele e misurate carte in egual responsabilità. L’occhio vi pascola meravigliato, mai respinto e provocato ma neppure tititllato: trovandosi, non trovando. E il flusso affettivo cresce, si fa pienezza, erompe, in una sensualità ora non più dubbiosa. Vede la luce, davvero, Bendini, in queste tele. Ed è visione di grazia, lucidità, poesia.

Nota

Le citazioni sono tratte da W. Guadagnini, Bendini e la critica, in Vasco Bendini. Opere storiche, opere recenti, l’opera su carta, catalogo della mostra a Modena, Bologna, Trento, Nuova Alfa, Bologna 1992; F. D’Amico - F- Gualdoni, Bendini, (continua), Roma 1993.