Francesco Arcangeli, presentazione alla personale di Vasco Bendini, Studio Bentivoglio, Bologna, 1967
Riaffermo un
rapporto di quindici anni con l'autore di cui scrivo,
oggi, ancora una volta, e mi spiace di autocitarmi; non
posso rinunciare allo scambio vero che ho avuto con
Bendini. Da quello ricomincio, a ragione o a torto. « L'ansia di 'essere', e perciò la solitudine più alta anche nel momento della partecipazione più determinata alle COSE agli eventi che ci attorniano, di cui facciamo parte, che inevitabilmente contribuiamo a modificare, è forse la stigmata permanente e irriducibile della vita e dell'opera di Bendini. Non so se questa sua costituzione di fondo potrà avere, negli anni a venire, fortuna o sfortuna... Oggi, che qualcuno propone (per follia individua, ma nutrita, tuttavia, delle suggestioni dei tempi) la soppressione, sic et simpliciter, di quella malattia che è la coscienza, non prevedo troppe cose più indispensabili di quella che sarà la lotta, con te stesso e con la pittura: due poli che in te han quasi sempre coinciso ». San passati cinque anni, ormai. Bendini mi ha risposto col silenzio, con la crisi, con opere nuove. Ha mostrato che qualche nuova isola si offre, sempre, a chi ha animo per lottare contro le onde. Non potevo prevedere i suoi movimenti, ma volevo soltanto tracciargli una dimensione di continuità; non volevo certo, come si dice volgarmente, 'incastrarlo'. Le mie buone intenzioni san state superflue. Bendini ha camminato; ma, e questo riafferma l'intimità del legame con lui. secondo una dialettica che pensavo di conoscere, già allora: « E' una dialettica di rivolta, ma implicita, tacita anche se intensa..." Quando uno prende un telaio di legno, rigido e quadrato, col suo sostegno semplice, e appende entro il riquadro alto di destra, vuoto, la scatola di cartone con la rossa lettera U, immette nello spazio esistenziale, morto e vivente, di ieri e di oggi, un elemento che l'avanguardia di mezzo secolo fa dichiarerebbe, probabilmente, 'suprematista'; e, ad un tempo, quest'isolamento rigoroso, desolato, dell' 'oggetto trovato' senza di cui non potrebbe rinnovarsi quella tensione al limite già ostinatamente e poeticamente esperita da Malevitch, colora in un modo del tutto singolare la poetica che fu, primamente, di Duchamp e dei Dada. Ecco, se non erro, le eredità moderne che confluiscono nelle attuali opere di Bendini. Si potrebbe dire, dunque, che vi convivono, e in alcuni episodi vedremo quanto felicemente, l' 'operazione assoluto' e l' 'operazione zero'; e, per dir meglio, vi è assicurata una decisa polarità fra l'ansia riaffermata di essere e la volontà disperata d'annullarsi; l'equilibrio potrà sembrare, in effetti, assurdo, problematico per scelta di mezzi, precario, ma nondimeno resta, in via finale, forte della sua difficoltosa, azzardata estrazione. Il risultato mi si va sempre più chiarendo come originale nel senso più collaudato del termine, legato cioè a molte sollecitazioni culturali, oggi debordanti per mille canali, e, d'un sùbito, invece, autonomo, isolato in un suo primario e irraggiungibile silenzio. Suprematismo e Dada, come tradizione moderna, 'Nouveau réalisme' e 'New Dada' come rapporto attuale; soprattutto, New Dada. Ma, nel fatto, ancora Bendini. Infatti, pur nella similarità fondamentale di rovesciamento della dimensione del quadro come superficie dipinta nell'apertura della dimensione multipla della vita, in confronto allo sperimentalismo spregiudicato, decadente ed ironico d'un Rauschenberg, al suo intercambio fra immagine fotografica, pittura, e appropriazione dello spazio guidato dalla scelta degli oggetti giocati nell' 'assemblage', Bendini, dopo una fase quasi debordante e che, ad un tempo, sembrava partenza e deriva, ha ripreso le sue redini, è tornato ad ossessionarci con la sua accanita presenza. L'oggetto di Bendini, se evita la degradazione che il tempo consuma sulle cose, evidente da Schwitters fino a Rauschenberg, altrettanto e anche più evita la nettezza autoritaria, la traumatizzante e brutale presenza dei 'popists'. Secondo un disegno che si fa sempre più chiaro nel suo operare, gli oggetti, e i rapporti che nascono dalla loro meditata convivenza, rifondono il loro significato fino a mutarsi in atti di coscienza concreti, e scanditi in un tono morale concentrato ed altero. Nulla a che fare, al di là di qualche materiale analogia, con lo spirito e l'uso, con il costume e l'invenzione brillantemente in corso a Roma, dove, fin dai primi movimenti tipici di Schifano, mi parve evidente l'atteggiam,ento 'playboy', e dove un assoluto di natura sa sùbito di alte vacanze, un mare captato dalla geometria ci rammenta presto la piscina del divo, in villa. Si osserva questo, non per diminuire nulla, ma per qualificare, al confronto, la nudità degli accostamenti di Bendini, e il suo diverso tempo di ripensamento, nella coscienza, d'ogni mezzo di presentazione dell'opera.
Un
'rilancio' dunque, forte, determinato, individuo; padrone
dei suoi mezzi, lucido, pressante, ossessivo. Ma non
interessato, in partenza, all' 'environment'. La mostra
di Bendini non è, in sostanza, ambiente; è un luogo
dove un gruppo di opere può assumere, per la forza dei
singoli elementi, una collocazione spaziale opportuna o
necessaria; ma è, anzitutto, un arduo itinerario, un
campo di azione e reazione intense. E' un luogo, ancora,
di meditazione più che di azione, e mi pare questo,
oggi, il suo massimo valore intrinseco. Chi entra, non è
coinvolto in un 'happening', in un evento, ma è
sottoposto a un'azione di choc, a una reazione di
scontro, di ripulsa e di raptus, di giudizio infine.
Francesco Arcangeli
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