Il mare tra le nuvole
Marco Goldin



Testo introduttivo all'antologica di Bendini tenutasi a Palazzo Sarcinelli, Conegliano Veneto, maggio - luglio 1999.



Chissà perché si guarda spesso all'opera più recente di Vasco Bendini in modo appena sospettoso, come a una parte se non dispersa, circa l'intero canto, almeno decentrata, soprattutto giunta dopo quellalunga, celebre e certamente bellissima stagione informale durata pertutti gli anni cinquanta fino alla prima parte del decennio successivo. E su quella si sono spese pagine rimaste come pietre fondanti della critica d'arte in Italia, assegnate al pittore bolognese alcune priorità e anche anticipazioni di date rispetto a esperienze simili e contigue.
Ma poi, superata quella fase di abbandono della pittura, è venuta
una nuova stagione, piena di gesti coraggiosi, mai inutile, dolcemente celeste, devota all'immenso. Anni felici, fondanti per il lavoro a venire di Bendini. Che continuamente mostra di garantirsi futuro, di aprire per sé spazi non esplorati, saggiare nuovi terreni o forse, di più, non misurabili altezze.
Ed era stato proprio il ciclo La ballata dei dieci cieli a schiudere d'incanto, e in via definitiva, un mondo diverso, tale comunque da lasciar scoprire non poche affinità con gli anni lontani dell'Informale.
Che adesso si sono come prosciugati di materia, lasciando che l'aria e il vento passassero su quelle creste ispide, ruvide di carta vetrata,per schiudere la pelle della pittura entro la nebbia di una tempesta che non è più. Era il 1983, e Bendini si accucciava nel grembo di una matassa di nuvole, lasciava che un mare d'ombra si insinuasse dilagante sul ciglio non di una profondità ma di una vastità distesa. Sembrava subito, all'aprirsi di questa sua rinnovata tensione, che il silenzio contasse in misura così forte da non permettere pause e liberarsi poi sulla tela nel contrappunto di una musica già tutta suonata; l'eco della quale, però, ancora si sospende nell'aria e infine resta una traccia, un segno lievissimo, una bruma. Questo baluginio mai interrotto, che si posa senza pesare, che non è fuoco ma ricordo di un fuoco, che è solo barbaglio della cenere che ormai del tutto sta morendo.
Bendini lavora a una sua privata cosmogonia, evoca il mare e il cielo degli eroi, lascia che tutto lo spazio ne sia occupato, che accadano presenze, fatti, silenzi, ogni cosa cosparsa dell'oro della sera, dell'oro di Costantinopoli. La pittura è una liquidità che indistingue le cose, se mai sono esistite. O certo esistono, proprio sotto quella superficie sconosciuta , che è un vento arroventato,

placatosi ma non nella sua forma, nel suo senso di continua trasformazione, mentre si evidenziano le ere, i secoli, le stagioni. Non è un caso che un ciclo strepitoso di opere, sul finire degli anni ottanta, abbia per titolo Il tempo come creazione, potendo il pittore immaginare che attorno al mistero del tempo si coaguli il fluire degli avvenimenti, il pieno e il vuoto della vita, i profondissimi silenzi, la trafficata strada che non prendemmo mai.


Il colore di Bendini è diventato qualcosa di speciale, di misterioso e segreto, di quasi perfetta e plausibile rispondenza al dubbio che la comunicazione sia ancora possibile, che il silenzio sia solo silenzio e non, invece, la strascicata parola che squarcia il velo di una notte infinita. Un colore che non solo copre ma avvolge, con l'estenuata dolcezza di una pausa mai ripetuta, mai ovvia, mai banale. Piuttosto una fitta, un dolore acuto, ma poi protratto da sembrare sempre più immenso, e nello spazio da sconvolgere i confini, da lasciarli ogni volta nuovi, ogni volta compromessi con la materia; che talvolta diventa non solo cielo, non solo nuvole ma quasi scheletro di una terra, una collina, come potevano essere i campi umbri e senesi di Music alla fine degli anni quaranta. Oppure bestie atomizzate, ma senza la durezza di denuncia di tante pitture italiane poco dopo la metà di questo secolo. Perché tutto in Bendini si avvia verso una stremata dolcezza, un apparente dissolvimento che invece prelude a una resi- stenza del dissolversi, a una condizione di nebbia perenne frantumata in bagliori, luminescenze, squassi della luce.


E dunque di luce sono principalmente tessute queste sue immagini, tanto più in questi anni recenti, quando il fronte della pittura è avanzato fino a comprendere una lieve sabbia del deserto che s'insinua in ogni fessura, manifestando così il senso di una forte unità poetica.
Non c'è alcuna frattura né segmentata durezza; ritorna invece, come voce dall'infanzia fatata, la magica sospensione che poteva essere negli acquerelli di Morandi, adesso come assenza dell'orizzonte e impossibilità di un limite, e orizzonte e limite invece nella profondità.
Sono quadri che stanno raccolti nelle serie Gioco come gioco, Ipotesi d'attesa e L'immagine accolta, che aprono gli anni novanta. Vi si scopre una felicità che continua, non ha soste mai, evoca la giustezza e la bellezza della pittura. La bellezza ci si fa innanzi con la precisione di una luce, l'inabissarsi di una costa sabbiosa o il fiorire di un fiore rosso dentro il nero di una palude. Eventi atmosferici e prodotti della storia, questi quadri sono il primo gesto dell'uomo nel mondo, la saldatura avvenuta tra il passato e il presente, la clessidra del tempo rovesciata. Non c'è descrizione né mai naturalismo, non un segno che non sia anche segno del nulla, alone di una presenza ma anche di un 'assenza. Opere di una maturità che non accenna a esaurirsi e ha scelto soprattutto i grandi formati per questa composizione dentro la vastità.

Ma incredibilmente Bendini non si abbandona a un vago e mentre
si stringe sempre più la corda del cuore, nasce un sentimento che è
il virile porsi in faccia all'eterno. Emersioni continue da cui egli trae stigmate, tatuaggi, muschi screziati, muffe, velluti della sera. Giardino incantato entro cui accadono prodigi, si manifestano figure che non sono, o se appaiono è solo per indicare l'Autoritratto. C'è un senso di segretezza a preservare l'odore di un'aria notturna, dentro una stanza che cede da ogni lato.
E d'improvviso, quasi, come una previsione che solo stava nel cuore, nel 1997 ha dipinto forse la serie più bella che gli sia accaduto di realizzare nel corso di una vita già bellissima. Vi ha posto quale titolo una frase che è subito un ingresso, una visitazione: Come un suono, dal suono del mondo. E più di sempre, questi quadri enormi hanno apparizioni, sono teli, sindoni, resurrezioni, vita eterna. Bendini vi porta a compimento la sacralità del suo essere pittore, vi inscrive regole che sembrano destinate a non mutare più, a ricostituire la dimensione del percorso vitale. Sta in questo autobiografismo aperto a tutte le correnti, alle molte sollecitazioni, la vibrata intensità di questa
pittura. Costruita come una verità perché possa diventare, e ancor di più essere, solo verità. Non c'è alcuna possibilità di elusione, nulla che la pittura non voglia raccontare. Tutto in essa sta racchiuso, e stupisce come la semplicità di un colore, di un dilavamento continuo, porti all'essenza.
Questo, e non altri, è infine lo scopo per Bendini. Il modo, e il mo-
tivo, del suo lavoro accanito, testardo, poetico. Scoprire che nella vastità è possibile rintracciare l'unicità, che l'essenza è il segno dell'origine. Dunque tutta fondata sul senso del tempo è la sua opera, da collegare, in un percorso a ritroso, la morte con la nascita, il buio con la luce. Lungo questo percorso aspro, e tuttavia fascinoso, egli ci ha dato, miracolosamente, come lievi lampi, incrinature della luce e dell'ombra. Tutto quanto a noi pare possibile chiedere.