Intervista di Benedetta Masera a Vasco Bendini per la rivista ART’E’ di Bologna, n. 6/ 2003

Nel propormi l’intervista Lei è stata molto accorta. Con la sua gentilezza mi ha preso un po’ contropiede, al punto che, pur avverso a questo modo di essere avvicinato, come vede, ho accettato. Ora, si trova qui, di fronte a me, nel soggiorno, pronta  ad iniziare il colloquio. Colloquio che procederà un po’ incerto, perché improvvisato. Oltre cinquant’anni di mia attività e un percorso artistico molto articolato rendono difficile, per non dire impossibile, darne in breve un’idea. Sono anche d’intralcio le interviste precedenti, che Lei non conosce, ma io sì. Resta fra noi solamente l’intesa di non ritornare su argomenti già trattati. Proviamo a lasciare libero il colloquio, ad improvvisare, soffermandoci sull’inedito.

Del suo trasferimento a Parma cosa può dirmi?

Sono passati quattro anni da quando mi sono trasferito da Roma a Parma.

Roma: città barocca, anche nello strazio di viverci. Sublime per la sua luce, ed eterna per i resti dell’antica Roma. Una parte di me è restata lì.

Parma è tranquilla, e, di eterno, c’è la scultura dell’Antelami.

Il mio trasferimento a Parma ha suscitato una certa curiosità. Forse, perché tenuto segreto, e soprattutto perché è stato fulmineo. Gli amici sono rimasti perplessi sul modo e sulle cause. Cause che continueranno a tormentare loro e gli indiscreti, e che resteranno cose private.

In questa città è maturata l’amicizia con il giovane musicista Martino Traversa, che venne, già prima, a Roma per propormi di concertare alcune mie opere con la nascente sua cantata “Come un suono, dal suono del mondo”. Realizzai dieci tele, di grandi dimensioni. Il concerto fu eseguito l’anno 1998, con perfetta sincronia di spazio e di tempo, nello straordinario Teatro Farnese di Parma. C’è stato anche l’incontro con il professor Francesco Fesani, divenuto un vero amico, che ha raccolto, con amore, una nutrita collezione di mie opere. Infine, nel novembre 2003, come prolusione ai corsi del nuovo anno accademico della Facoltà di Architettura, nella sala delle feste di Palazzo Sanvitale è stato presentato, alla presenza del Rettore, il quinto volume “Vasco Bendini, lettera e accordi”, con testo di Giampiero Moretti. Questo volume appartiene alla collana di opere inedite di cultura, curata da Ivo Iori, docente della stessa Università”. Alla presentazione del libro è abbinata una piccola mostra di opere recentissime in alcune sale del Museo Bocchi, per l’attenta disponibilità mostrata dalla Fondazione Monte Parma.

Il suo percorso artistico e di vita è iniziato a Bologna. Cosa le ha dato quella città, e perché ha deciso di lasciarla?

“A questa domanda sulla mia città natale rispondo ovviamente in modo succinto. Ne ho già parlato, ripetutamente, in altre interviste. A Bologna è cominciato il mio fare pittura ed ho conosciuto, nel 1951, Francesco Arcangeli, il più autentico (voglio dire aprofessionale) critico italiano. Lui viveva di pittura. Non solo la studiava. Per me, artista, questo modo d’essere è tutto. L’arte bolognese del passato me l’ha fatta amare Longhi, e Cesare Gnudi conoscere. Dalla fine degli anni Quaranta fino ai Sessanta il clima artistico della mia città era fertile, vivo.Di questo tempo irrequieto non si dimenticano le prime Piccole macellerie di Sergio Romiti e l’avvio, isolato quanto fertile, di Pirro Cuniberti. Poi, con la morte di Gnudi e Arcangeli, il cielo si è oscurato. Ne è seguito un vero e proprio stallo traumatico. Così ho ritenuto opportuno trasferirmi a Roma dove avevo già avviato, dal 1957,un rapporto esclusivo con la Galleria L’Attico.

A Roma, dove ho vissuto complessivamente per circa trent’anni, a parte l’affetto e la stima per il “primo” Calvesi (dal 1980 le nostre strade si sono separate), e l’indimenticabile incontro e maturata amicizia con Leoncillo, rispetto al mio crescere non c’è stato altro. Ma, e in questo mio parlare noterà un fondo di nostalgia, ricordo le mie mostre personali che, dall’anno ’59, sono state inaugurate, ad anni alterni, a L’Attico, dal direttore Bruno Sargentini. In questa Galleria ho conosciuto i primi promettenti artisti giovani romani, immancabili frequentatori delle “vernici”; e ho avuto l’occasione di intrattenermi con tre grandi protagonisti della storia figurativa internazionale: Jean Fautrier, Victor Brauner e Sebastian Matta.

Com’era Vasco Bendini come “giovane artista”? Cosa la guidava e chi l’ha aiutata ai suoi esordi?

“ A questa domanda rispondo volentieri, perché mi sta particolarmente a cuore. Ho l’impressione che nei giovani d’oggi ci sia troppa impazienza; che non accolgano e sviluppino con calma e fiducia in sé le proprie qualità. Sono insofferenti dell’attesa. Cercano un sollecito risultato che finirà per essere deludente. Lo stato ideale quotidiano dell’artista è, invece, per mia convinzione, il raccoglimento in sé. Nel silenzio. In solitudine. Il seme si trova solo in noi stessi. Il fine non è l’avere, è il dare.

I miei primi Segni segreti erano segreti anche a me stesso. Li ho visti solo liberandoli da ogni occultamento. Sono affermazioni di me, e allo stesso tempo, annullamento. Un impulso ricevuto che si manifesta come un semplice alitare irradiante e suadente.

In questo catalogo della Galleria Comunale d’Arte Moderna di Spoleto, come lei vede, ci sono sette opere della serie I segni segreti, ma per esse non è venuto il tempo d’essere esposte. Sono ancora nel deposito.

C’è stata molta attenzione su queste prime tempere e, penso, siano state proprio le primissime carte di questa serie a fare decidere Arcangeli di inserirmi nella rosa degli Ultimi naturalisti e, con migliore individuazione critica, nel testo Una situazione non improbabile, del settembre 1956.

Ma questa indifferenza manifestata dalle istituzioni pubbliche è invece compensata dall’attenzione di qualche privato. Recentemente, per esempio, due mie opere, presenti nella dimora di Irene Santori e Gaetano Lettieri a Roma, non sono considerate come “ospitate” ma come “ospitanti”. Sentimento che, con l’insensibilità della Galleria spoletina o di altre Istituzioni, fa “pari e patta”

Lei ha attraversato quasi cinquant’anni di espressione artistica. Cosa pensa delle tendenze contemporanee?

“Nel mondo in cui viviamo c’è un rumore assordante di disperazione, quasi un’intuizione dell’irreparabile. Nelle manifestazioni d’arte scoppia, di conseguenza, l’esibizionismo dell’io come atto distraente.Un carnevale permanente che si esaurisce nell’inebriante manifestazione di sé, la più gratuita, stravagante, animale che ci sia. Una vera e propria orgia dell’io. Un evirarsi, immergendosi in sensazioni intense, stordenti, accecanti, o di inane banalità.Bisogna ricordare che se negli anni Trenta dominava incontrastata, in Italia, la grande figura di Giorgio Morandi e negli anni Quaranta e Cinquanta, in un clima di guerra fredda, emergeva un grande maestro come Lucio Fontana e successivamente, negli anni Cinquanta e Settanta, entrava con irruenza sulla scena artistica Alberto Burri, oggi, a partire dagli anni Ottanta, non intravedo alcuna luce.”

Lei non ha mai interrotto la sua attività. Ma c’è un periodo, quello tra il 1968 ed il 1978, che la critica fatica a mettere a fuoco. Me ne vuole parlare?

“ Preferisco iniziare dal gennaio 1966, quando fu esposta a Bologna nella rassegna ‘Arte Contemporanea in Emilia-Romagna’ una delle opere da me eseguita nel 1965. In quell’occasione ho montato un’assemblage che esemplificava la svolta radicale di una mia ricerca autonoma, fondendo suprematismo e dada come tradizione moderna. Per capirne l’eccezionalità, basta sfogliare il catalogo, sia pure tenendo presente che l’area documentata è solo quella emiliano- romagnola.

“Il 20 dicembre 1966 Fabio Sargentini , da Roma, mi scrive che nel mese di marzo esporrà, all’Attico, una serie di oggetti del greco Kounellis, e che si sorprende di notare, per quanto il “mondo” sia molto diverso, una relazione fra gli oggetti dell’artista greco e la mia opera Come è, del luglio 1966. Questa fu esposta a Venezia, il 7 settembre 1966, nella Sala degli Specchi di Ca’ Giustinian, insieme a un’altra mia opera, ‘della serie Senso operante’, dell’aprile 1966. Calvesi, a proposito di Come è, afferma, nella breve presentazione del catalogo, che in quest’opera si consuma un complesso, sintetico ed essenziale meccanismo di pensiero, dai risvolti non estetici, ma ontologici.

Arrivo così al 1968. Importante traguardo fu l’allestimento di una mia mostra “Oggetti e processi”, presentata da Giulio Carlo Argan e Maurizio Calvesi a Palazzo Taverna, sede dell’Istituto Nazionale di Architettura. L’ esposizione fu promossa grazie al particolare interessamento dell’ ingegner Ennio Borzi. Questa rassegna è stata molto visitata da giovani artisti e critici esordienti, quali, tra gli altri, Filiberto Menna di Roma e Tommaso Trini di Milano; manifestò grande entusiasmo anche l’architetto Bruno Zevi. La successiva, deliberata, indifferenza, da parte di critici e curatori segnò il mio “esilio”, procurato, di fatto, dall’irrompere sulla scena artistica romana di Fabio Sargentini, che presentò in modo magistrale un gruppo di giovani artisti, tra cui Pascali, De Dominicis e Kounellis, nel nuovo ampio spazio dell’Attico, opportunamente scelto a piano terra per accogliere performances e installazioni.

Testimonianza della mia “epurazione”, per esempio, è stato il fatto che nella locandina della mostra  “Art around ’70­­ ­­­- Italy two" appariva, nella serie "Strutture ambientali", la foto della mia opera Cabina solare, del 1966, già esposta a Palazzo Taverna; ma non fui invitato a partecipare alla rassegna. Un’altra riprova del dissenso è stato il silenzio che è seguito alla mia antologica nel 1978  nella Galleria Comunale di Bologna, curata con straordinaria partecipazione e acutezza dal giovane critico Sandro Sproccati e presentata con indubbia autorità da Renato Barilli. L’affluenza fu memorabile, ma il silenzio che ne seguì lo fu altrettanto.

Il suo” ritorno”può essere datato intorno alla fine degli anni Ottanta. Come accadde?

Infatti, solo alla fine degli anni Ottanta si ebbe un ritorno di forte interesse da parte di giovani critici, quali Fabrizio D’Amico e Flaminio Gualdoni, che diedero rilievo alle mie opere ultime e a quelle degli anni Cinquanta, organizzando mostre collettive e personali. Ricordo particolarmente la rassegna del P.A.C., a Milano, curata da Fabrizio D’Amico e l’antologica nelle Gallerie Civiche di Bologna, Modena e Trento, con testi di Danilo Eccher,  Walter Guadagnini e Flaminio Gualdoni.

Una recente attestazione di stima mi è stata confermata da Roberto Pasini nel suo testo “L’Informale: Stati Uniti – Europa – Italia”, uscito nell’edizione Clueb, Bologna, il 1995. L’ultima l’ho avuta dall’iniziativa del Comune di Lissone nell’offrirmi il Premio alla Carriera, 2002.

Nella sua carriera di pittore si sono inserite alcune azioni, come “Io. E io ora”, nelle quali è coinvolto in prima persona. Come sono nate?

La performance “Io. E io ora” fu eseguita nella sala del Museo Civico di Bologna, la mattina del 17 gennaio 1969, giorno successivo alla morte di Palach. Momento storico, tragico, disperante.  In un’accezione più radicale, l’alternativa che mi si presentò fu l’estraniazione, l’inaugurazione di una pratica rituale, riservata agli intellettuali “onesti”, che affermasse, consapevolmente, un atteggiamento di opposizione - isolamento.

Nel 1974 ho eseguito, di fronte ad amici invitati nel mio studio romano , un’ultima azione, la cui testimonianza è documentata nel catalogo “Sebastiano o dell’ambiguità”, a cura di Dino Molinari, Edizioni della Luna Nera, Alessandria, aprile 1988. L’azione, in questo caso, è privata, non pubblica. Ed ha un riferimento privato, non pubblico, se pure universale.  L’atto estremo dell’immaginario amoroso afferma l’annullarsi di sé.

Dieci anni prima, esattamente nel 1964, l’immagine di Afrodite è immersa nella spuma del mare nell’atto di essere fecondata con il sangue di Urano.”

Per concludere, le ultime opere. Lei è infaticabile…

“Parlare delle ultime opere, quelle degli anni Duemila, raccolte nella serie chiamata L’immagine accolta, è un vero piacere. Sono immagini che ho sentito in me fluire, presenti quanto sfuggenti, intuibili quanto inverificabili. I nuclei materici si presentano come un organismo autoreagente in grado di assicurarsi il proprio equilibrio e la propria sorte. E’ un sentire in immagine. Un modo umile, più umano, per raggiungere o, meglio, avvicinarsi a quella idea – forma, presunta realtà superiore, a priori dichiarata in attingibile dalla sensibilità.

Mi chiedo: non può esserci un altro ordine – idea che sia conoscenza e non soltanto emozione? Una posizione, attraverso la consapevolezza del nostro limite, come tendenza a liberarci dalle scorie che ci offuscano l’anima, scovando immagini che siano specchio del nostro primevo vedere, del nostro sotterraneo, profondo essere?

S’apre il domani”.