Intervista a Vasco Bendini di Irene Santori, trasmessa il 3 gennaio 2004 nella rubrica “Uomini e profeti” a cura di Gabriella Caramore, Radio 3.

Vasco Bendini, la Facoltà di Architettura dell’Università di Parma ha appena inaugurato l’anno accademico 2003-2004 con una lezione del professor Giampiero Moretti, ordinario di Estetica nell’Università di Napoli, dedicata alla sua arte. Contemporaneamente viene inaugurata presso il Museo Bocchi di Parma una mostra di suoi dipinti. Il titolo della mostra è di grande intensità e densità: “L’immagine accolta”. Può spiegarci cosa vuol dire accogliere l’immagine, in che modo il processo creativo è legato all’accoglienza?

Non è facile spiegare tutto questo. Tuttavia, se io dico l’immagine accolta significa che è un’immagine che non nasce da uno sforzo imitativo, quindi io escludo qualunque studio o attenzione a quelle che possono essere le forme dell’oggetto esterno. Il problema è piuttosto quello di creare una forma, che poi è un’immagine, che nasca non per imitazione di qualcosa di esterno ma da me… si potrebbe dire dall’anima. Lo so che qui molti sorrideranno, ad ogni modo è quello che spontaneamente nasce da se stessi e che implica la propria sensibilità, la propria capacità meditativa, tutte le proprie risorse anche culturali, quindi non è solo un’emozione, come certi dicono, e come hanno anche sostenuto per certe pitture, soprattutto quelle naturalistiche. È qualcosa che comprende tutto l’essere pensante dell’uomo o dell’artista, in questo caso. Questa immagine, quindi, per prima cosa, sorprende lo stesso artista. Cioè io non la conoscevo, perché l’immagine non è progettata, ma in un dato momento mi sorprende e in un certo senso la riconosco come mia consanguinea, come parte di me e allora la fermo, anche perché non ho più quella spinta per poter andare oltre l’immagine stessa che appare sulla tela.

Ma c’è anche una dimensione di ospitalità in questa accoglienza.

Lei mi fa domande sempre più difficili. Indubbiamente, dato che il rapporto deve sempre essere tale da soddisfarmi il più possibile, ma più nel profondo, la mia accoglienza è molto severa. Cioè finche non la sento proprio parte di me stesso, io rifiuto l’immagine che appare e continuo il mio lavoro sulla tela. Poi, in un dato momento, ecco… scatta qualcosa di consanguineo, che è un inedito per me, ma capisco che fa parte di me.

Soffermiamoci ancora sull’immagine, ma più che altro su ciò che precede e in qualche modo cede l’immagine. Ricordo un giorno in cui Lei, parlando dell’ispirazione, disse di non sapere esattamente che cosa sia e da dove nasca l’ispirazione e che occorre essere molto “prudenti” di fronte a questa indecifrabilità, perché altrimenti si rischia di essere, e cito testualmente le sue parole, “blasfemi”. Questa è un’affermazione molto forte. Perché l’imprudente è blasfemo?

Perché spesso, come raccontano i biografi, gli stessi critici, e probabilmente anche gli artisti qualche volta l’hanno dichiarato, l’artista finisce col sostenere il proprio lavoro come se fosse un ispirato, quindi come se fosse mosso da forze religiose o da Orfeo, di cui qualcuno ha parlato, o Apollo, o qualsiasi altra ispirazione. Io dico che questo diventa blasfemo perché, parlo del mio caso personale, nessuno è tranquillo nei confronti di ciò che avviene sulla tela o che riesce ad esprimere. E non è neanche sicuro del valore di ciò che fa. Per questo è blasfemo pensare di essere ispirati o di avere la mano guidata da un essere superiore. Ora, io posso solo augurarmi che questa esigenza della mia anima e di tutto me stesso, di selezionare l’immagine che appare e che finisco per riconoscere, sia il meglio di me stesso, ma io non sono in grado nemmeno di giudicare me stesso e per questo ci vuole sia la modestia di non parlare di Orfeo, sia… il tempo. Proprio il fatto che l’opera possa interessare altre persone, che sono gli osservatori sparsi o occasionali, ti fa capire di non aver detto qualcosa di futile, di vano, che non fa parte dei veri problemi umani, ma qualcosa per cui un altro, subito, all’improvviso, avverte un rapporto di intesa. È lì che il quadro comincia ad avere un significato nella storia.

Può descriverci i quadri della mostra inaugurata al Museo Bocchi, che tra l’altro contiene le produzioni più recenti: colori, suggestioni, dimensioni.

Questa domanda la dovrei rivolgere a Lei. Perché le emozioni le dà a Lei, cioè al fruitore…

Ma a nessuno interessano le mie emozioni, le sue sì.

No, no. Io sono… beh dire creatore è troppo, io sono quello che fa il quadro, ma sinceramente io non guardo volentieri i miei quadri perché sono qualcosa che è già passato. Io penso al quadro futuro. E’ un momento mio che mi auguro possa essere fruito dagli altri, quindi sono gli altri che devono essere, spero, suggestionati da queste mie intonazioni, dal modo di comporle, dalla sorpresa dell’immagine, non io. Io sono stato sorpreso nel momento in cui l’ho fatta, poi non mi appartiene più, appartiene a voi.

Poi si riparte da zero.

Ogni volta è come giocare al lotto, si ritenta tutto daccapo. Poi viene il momento successivo, in cui si sente di lavorare e che non si può sapere quand’è. Ogni giorno mi si presenta lo stesso dubbio: cominciare a lavorare senza una vera sollecitazione è fruttuoso? … lambiccare nello studio non è certo un vero lavorare. Tra me e me così rimugino: aspettare questa benedetta sollecitazione è per me un comportamento fuorviante. Invece provare ad eseguire l’atto a me più naturale, cioè mettermi di fronte alla tela e cominciare, è probabilmente la sola cosa saggia che posso fare, come respirare. E’ un affidarsi al caso. Certo! Ma è anche un voler annullare la mia ritrosia. Un gesto di volontà. Rompo così la mia solitudine e la mia coscienza resta come sospesa. Mi sento un nulla, che si libra a volo, ma eternamente accolto da un altro Nulla. E, a volte, qualcosa nasce sulla tela, che mi sorprende, se pure non saprò mai perché e da dove

Una costante quasi ossessiva di tutta la sua produzione è il tema del volto. Nel 1958 il grande critico Francesco Arcangeli parlava in questi termini dei volti affioranti dalle sue tele: “Quasi captando barbagli, egli fa riaffiorare dalla materia la nuova immagine ancora di un volto, ma ormai sempre più reliquia, parvenza, traccia d’uomo, veronica”. Vasco Bendini, perché questa persistente esigenza di rappresentare il volto umano?

Direi che non è un’esigenza di rappresentare il volto umano. È cercare, come prima esigenza, di capire me stesso, di rappresentare il mio volto che non considero come un oggetto esterno da rappresentare in una forma psicologica o d’altro genere. Io voglio col mio volto esprimere qualcosa di assolutamente interno, è questo che vado a pescare e allora cerco la soglia del volto, che significa o riuscire ad andare ancora più all’interno oppure andare all’esterno, ma non un esterno oggettivo, bensì un esterno sconosciuto, in una lotta continua. Io non ritrovo mai me stesso, ma qualcosa di me. Forse non sono ancora riuscito a dare una visione completa di quello che sono, io ancora non mi conosco. E credo che questa sia la storia di tutti gli uomini: non conoscono gli altri, né se stessi.

Arcangeli parlava appunto di reliquia, veronica. Esiste una risonanza sacra, religiosa nella sua arte?

Io dico che qualunque cosa vi sia di profondo in un uomo può essere chiamato religioso, perché è un lato sacro che non conosciamo e che ci meraviglia. Ma bisogna andare molto all’interno di noi stessi, non tanto nel nostro modo normale di comportarci, che ormai è quasi automatico. Mi augurerei che si cercasse finalmente di guardarsi allo specchio, non solo per mettersi il rossetto o altro, ma anche per vedere cosa c’è dietro, per conoscerci, cercando qualcosa che possa rivelarci cosa siamo, anche se non è sufficiente perché spesso abbiamo già delle maschere viziate dall’abitudine: si sa come si deve sorridere, come si deve piangere, ma poi né si sorride, né si piange. Bisogna invece cercare la traccia delle cose segrete.

Quali sono le sue letture religiose, se ne ha?

Questo resterà sempre un segreto, perché io dico, e non sono il solo, che se si fa un nome si parlerà per tutta la vita di quel nome, attribuendogli cose che non sono e cadendo quindi nel blasfemo. E poi c’è il rischio maggiore per cui si finisce per appoggiarsi a qualcuno pur non avendolo compreso, facendo così un’altra opera blasfema, cioè di alterazione. È bene quindi che non si cerchino le origini e si cerchi invece di esaminare esattamente il proprio lavoro e capire cosa io sono riuscito a dare. Ma dire io significa avere già assimilato qualcosa degli altri e assimilare significa non doverlo poi necessariamente riconoscere.

Anche questa è una forma di prudenza.

Certo. Fa sempre parte di quello che io chiamo modestia, e non solo io, anche Moretti ne ha parlato. Ma non una falsa modestia e neanche una falsa prudenza. Deve essere proprio un principio etico. Tutti gli altri atteggiamenti per me sono disgustosi.

Lei molto spesso dice che l’arte che predilige arriva fino al 1300, massimo 1400. Un’arte religiosa quindi.

La possiamo chiamare religiosa. Ecco, per esempio, qui sono a Parma e c’è l’Antelami, cioè quell’intensità umana che non necessariamente è religiosa e che per me è propria della grande arte. Man mano che si scende si scoprono delle bellissime cose di carattere estetico, si scoprono delle bellissime donne, si pensi ai pittori bolognesi, vediamo dei colori fantastici, dei seni bellissimi. Non è che io non li ami, però c’è qualcosa di più profondo e che non dobbiamo dimenticare, pur senza dimenticare il resto.

E l’oro, questo colore che Lei ama molto e che è un’eco della pittura medievale. Che cosa manifesta l’oro?

Luce. Che poi non si sa esattamente cosa sia, ma è quell’immagine che non ha quasi nessun riferimento con la realtà. Anche quando si pensa al sole o anche ad altri riferimenti artificiali, non è quella la luce di cui parlo. È un modo di rappresentare in forma… come potrei dire… assoluta, una luce nostra interna, non esterna, che quindi non ha nessun riferimento con le cose oggettive. È una luce che però mi sostiene, o ci sostiene.

Nella sua pittura, Vasco Bendini, è evidente un continuo ricercare intorno al bianco e ai bianchi. Che cosa esprime il bianco?

Il bianco, e anche il nero, sono i colori più lontani dalle immagini che danno piacere, dolcezza, incanto. Bisognerebbe cercare un’altra forma armonica che sia altrettanto… potremmo dire divina, io direi semplicemente umana. Per me il bianco o il nero e pochi altri colori, che però appaiono sempre in quantità minima, possono essere il massimo dei valori umani, siano essi la sensibilità o la razionalità. Bisogna operare con tutti noi stessi, come quando si guida la macchina, si guida con tutte le proprie forze, non solo con la testa o con il corpo. E quando tutto funziona forse viene l’ispirazione, ma non si sa mai per quale ragione e da quale parte.

E gli incontri della sua vita?

Sembrerò anche presuntuoso, ma direi che non sono incontri. Bisogna evitare gli incontri, perché prima bisogna bisogna creare se stessi per andare incontro agli altri. Io infatti non faccio parte di nessun gruppo, perché prima debbo mettere in rilievo, in risalto me stesso. Finché non conosco me stesso con chi mi posso rapportare? Tutta la nostra civiltà non riesce a rapportarsi e infatti siamo nella civiltà di massa che anonimizza tutto. Invece io sono per l’individuo.

Lei è stato allievo di Morandi e di Guidi all’Accademia di Bologna. Mi vuole raccontare un aneddoto su Morandi, sulla parsimonia di Morandi?

Bisogna pensare a lui come ad un artigiano di una volta, che ama le materie che usa, che capisce quanto sono essenziali, non solo a livello quantitativo, ma anche qualitativo. Disprezzare il mezzo, per lui doveva essere come disprezzare ciò che ci porta a delle conclusioni di valore. Poi era anche un uomo civilmente etico, quindi qualunque cosa fosse proprietà dello Stato non poteva essere oggetto un po’ banale di uso, di sciupio, lui si irritava di fronte a questi comportamenti. C’era sempre un profondo senso del sociale, della persona che sentiva di avere più doveri che diritti. Anche verso le persone poteva sembrare prudente o evasivo, ma era più una forma di rispetto che altro. Ma insomma, in conclusione io so di averlo un po’ inventato questo Morandi, ma se non si fa così non ci si avvicina. Perché anche le persone che io ritengo molto grandi, forse bisogna inventarle, e anche qui diventa blasfemo pensare di avvicinarsi.