I SEGNI SEGRETI

…Queste pennellate grasse o asciutte, ampie o sincopate, su una superficie povera sembrano, in effetti, «offrire» al mondo un gesto altrettanto perentorio, segnato dalla «volontà», di quello grafico, non limitandosi, cioè, a «prendere» dal mondo una tavolozza già significativa, essenzialmente tattile [1.

Riscoprendo ldella distinzione ’aspetto pre-culturale, pre-accademico - nel senso, ad esempio, sopraccitata artisti della sua – del fare artistico, Bendini, come d’altronde molti generazione, vibra la propria mano nellimpulsi oscuri e ’ignoto, animato da primordiali, di cui la stessa intenzionalità dellmistero. Quasi a ’autore è veicolo e sottolineare quanto la condizione di “macchia”, prima ancora di essere la unun accaduto, ’esperienza tattile dello spazio, un dato chimico e sensoriale, sia Bendini, illuminato dallmusicali, traccia ’incertezza, da un lato improvvisa figure lineamenti cavi e arborescenti, da unaddensati, ’altro scioglie pigmenti cristallizzati, liberando un fondale in cui ci è dato scorgere la sagoma di un paesaggio il cui codice non è sostanza, ma impermanenza. Le scolature, ad esempio, che ravvisiamo in certe sue opere, diversamente da quelle di altri artisti a lui contemporanei, lungi da essere il semplice residuo di un lavoro, di una protesta, sono piuttosto l’effetto della giusta impressione inferta dal pittore alla materia affinché questa torni a fluire e a significare lungo falde immaginarie.

Con tonalità a volte bituminose, a volte vegetali, questi segni si direbbero i testimoni, i terzi di una corrispondenza silenziosa fra lo psichico e l’organico, grazie ai quali movimento e gestazione, distruzione e rigenerazione, si comunicano. Frutto, cioè, di una «alchimia»  interiore che mira a trasferire alla visibilità i caratteri dell’invisibilità, all’inerzia il movimento, queste immagini non sono più, sia dal punto di vista dell’aspetto che dell’intenzione, analoghe alla «cosa», ma «emanazioni di una località», dove il tatto non «è indirizzato verso una potenziale pienezza dei dati sensibili», piuttosto verso quegli stati subliminali della coscienza a cui questo è sottomesso.

Così come l’analfabeta, inseguendo il senso, incontra dimentico sulla carta la mano e la materia, la forma e il movimento, e scopre di possedere una calligrafia che gli restituisce un volto non per sé, ma per altro, Bendini incontra nel segno il calco, il guscio, la Testa appunto, di uno sguardo che ha assunto una sembianza inconsapevolmente e inconsapevolmente la custodisce quale cosmo enigmatico e onirico. Nascosti come nodi, come innesti, questi occhi, emblemi di una metamorfosi, paiono acquisire un’espressione proprio in quanto marcati dal vuoto che li ha accolti o dalla sua cancellazione, da una somiglianza e da un’estraneità. “Perché, se la struttura dell’opera è espressione simbolica anche di me stesso, da un lato rappresenta i miei processi mentali, le mie invarianti, dall’altro si fa e vive fuori di me, autonomamente, si autoesprime

 

Sebbene queste opere possano talora apparirci debitrici a tradizioni lontane, le loro pennellate presentare, ad esempio, similitudini con la pennellata kan pi o fei pai dei calligrafi cinesi, ciò non lo si deve soltanto all’influenza esercitata su Bendini dai maestri dell’Oriente o dalla condivisione di un gusto piuttosto diffuso fra gli artisti di quella stagione, ma anche all’inevitabilità di un tale confronto una volta che la pittura occidentale accetta di portare la sfida del segno in un ambito che sino ad allora gli era rimasto precluso. 

Sconvolgendo e nello stesso tempo rinnovando, per così dire, i canoni della tradizione artistica descritti da Florenskij, Bendini sembra, allora, risalire dalla macchia al gesto, dal movimento all’intenzione, per restituirci l’evento di un’immagine che lo ha cercato e che ha reso a tal punto indissolubile l’autore dalla materia, il movimento dalla sensibilità, da farne sulla carta un aperto segno che nulla indica se non se stesso. Opere della ricognizione interiore, interrogazioni sull’origine stessa del fare pittorico, queste tempere su carta, scavano come ogni vero esordio, quel solco che tutte le altre amplieranno e rischiareranno.

È così che I segni segreti, segni efficaci di un’ispirazione, satureranno la tela sino al suo inesorabile schianto, per poi ricomporsi nel Ricordo di un inizio liberamente evocato e nascosto dalle sue nebulose; che la Testa malinconica dalle palpebre socchiuse, guadagnerà, parallelamente alle esperienze di Gesto e materia, una progressiva frontalità, per diventare poi, nella piena maturità di quest’artista, un vero e proprio Autoritratto,,, non più parvenza trasognata o lacerata di un disegno incomprensibile, bensì icona terribile e radiosa di una dinamica cosmica e spirituale in cui il soggetto ritratto si vede - come auspicava Florenskij – “elevato a norma divina, all’idea di Dio che è in lui”. Affermazione questa che difficilmente Bendini, sempre cauto nell’evocare parole altisonanti, si sentirà di condividere, ma a cui l’amico non può rinunciare, ammirando in questa e in altre sue opere recenti la bontà di un percorso che oggi più che mai ci è d’insegnamento.

 

Gianluca Manzi   

Dalla presentazione alla mostra di Vasco Bendini, “I  segni segreti”, all’interno del Seminario di Ricerca e Formazione  su “Il segno” organizzato dalla Libera Accademia di Belle Arti di Brescia, 29 novembre 2002