LETTERA A E PER VASCO

di Walter Guadagnini


Caro Vasco,


perdona il grande ritardo con cui ti scrivo, ma, come tu ben sai, il caso gioca nelle nostre esistenze una parte non indifferente. Dopo aver visto la strepitosa serie di fogli (spiace un po' chiamarli così, che sembra diminutivo, quando
invece per qualità sono certo opere maggiori, ma è anche vero che ribadire la natura del supporto nel tuo lavoro - sempre più vicino, per intensità e concentrazione, a un esercizio zen o a un hajku, se preferisci -può forse aiutare a definirne una delle caratteristiche anche concettuali), dopo aver visto quelle carte, dicevo, mi pareva da un lato di aver molte cose da dire, sensate o no che fossero, dall'altro la loro, come dire, grazia assoluta (o aggraziata potenza), spingeva verso una specie di afasia o, meglio ancora, a una riduzione altrettanto estrema dell' ipotesi interpretativa.

Ci sono dei momenti -rari in verità -in cui questo nostro saprofitico mestiere -che è poi una passione, degenerazione estrema del voyeurismo -appare fondamentalmente inutile e spuntato di fronte al vostro, alla vostra capacità di creare dal nulla qualcosa che sembra esserci sempre stato, del quale non si può assolutamente più immaginare la mancanza, e che pure è totalmente nuovo e impreveduto, un'immagine che tocca i sensi, e che sta'lì, dentro la testa. E di fronte alla quale hai solo voglia di dire "i nuovi lavori di Bendini sono bellissimi", senza aggiungere altro, con un sottinteso fastidio per qualsiasi tipo di spiegazione, di commento, non tanto perché credi che non sia possibile, o perché pensi di interrompere una magia (sarebbe solo cattiva letteratura, che un attento lettore di versi come te non sopporterebbe), ma proprio il fastidio nei confronti di chi, eventualmente, non riesca a percepire quella bellezza (parola sempre estrema, da usare con moderazione, eppure talvolta accade), non sappia perdersi finalmente, anche solo una volta al giorno, dentro quell'immagine, dentro quelluxe calme et volupté che rappresenta la tua pittura oggi (sulla calma si potrebbe forse discutere, tanto sono tempestose alcune di quelle carte, viene da pensare a Turner, però a una bella citazione è concesso un margine di menzogna).


Per giunta, pochi giorni dopo quella visita, ci si è rivisti -vedi i casi -in Accademia a Bologna, in occasione di una tua piccola ma davvero concentrata antologica, e tu hai chiuso il tuo breve discorso agli studenti dicendo "perché,
vedete, la cosa più importante per un artista è esprimersi, è ancora più importante che comunicare, se tu riesci a esprimerti, poi forse la comunicazione verrà, ma non è quello l'obiettivo primario di un artista".

Ora, non so se sono del tutto d'accordo (quanto meno, avverto i rischi di una posizione di questo genere se portata alle estreme conseguenze, ma credo sia anche un fatto di generazioni, parlava per bocca tua forse gran parte della generazione cresciuta nei Cinquanta, non solo i pittori), ma certo in quel momento quella frase non faceva altro che confermare il sentimento di cui sopra, al più poteva tradurlo in "nei suoi nuovi lavori, Bendini ha trovato la sua perfetta forma di espressione".

Allora il testo è rimasto lì, sospeso, un viaggio oltre oceano ha fatto il resto (e confermato su alcune questioni, perché di fronte ai grandi quadri di Barnett Newman o a quelli piccoli di Vermeer, quadri tutti alla fine del tempo, oltre la storia, l'afasia ti riprende. E anche un po' di scoramento per quel che si vede intorno, se è concesso: per carità, nessuna intenzione di divenire i laudatores temporis acti, però la sensazione di un cambiamento di sensibilità così radicale nel passaggio di una sola generazione, fa capire meglio i ripetuti accenni che tu fai alle differenze d'età, al tuo "disinteresse" -che certo non è snobistico né naturale -di fronte ai fatti dell'attualità artistica; è che, ancora una volta, l'unica cosa che sembra possibile è guardare in silenzio, ma questa volta perché non si capisce cosa stanno dicendo, o si ha il timore di capirlo sin troppo bene...).

Ma proprio di fronte a questa confusione, di fronte a un grande fotografo come Paul Caponigro (un grande lirico della macchina fotografica) che dice, senza alcuna autocommiserazione né aria di rivendicazione, ma come pura assunzione di fatti, "vedi, io sono ormai un dinosauro, appartengo a una razza in via di estinzione", torna la voglia, quasi la necessità, di provarsi ancora a spiegare, interpretare, ragionare, quasi come un atto di resistenza, perché si fa strada la sensazione, niente affatto gradevole, che
quel silenzio (che per altri aspetti uno agogna), quell'afasia, siano esattamente ciò che qualcuno, da qualche parte, sta cercando di imporci. Ecco allora il motivo di questa lettera e del suo ritardo, una lunga e silenziosa gestazione.

Gestazione, nascita: molte di queste tue immagini mi paiono, in effetti, come delle piccole, concentratissime cosmogonie, il venire al mondo della forma sub specie di pittura; talvolta c'è un più diretto richiamo a una natura in qualche modo evocata -quanto
volontariamente? -, talvolta l'immagine si dà come pura astrazione (termine di comodo, lo so, però questo, in fondo, è ciò che noi comunemente intendiamo di fronte a determinati segni, a determinati gesti), eppure sempre è un'idea di
cominciamento, di origine a dare il tono complessìvo dell'immagine. D'altra parte, caro Vasco, non titola "L'origine del mondo" quel mirabile quadro tenuto nascosto per tanto tempo prima di venire dato in pasto anche ai forzati del turismo, dipinto da un pittore francese anarchico come te, del quale forse, tanti anni orsono, hai guardato quelle materie terrose, o quelle potenti marine ancora in odor d'origine, sebbene con un titanismo che certo non ti appartiene? Allora quella serie erotica mi si spiega anche meglio, così come, per converso, mi si spiega meglio la sensualità degli ovali, anche là dove non vi è riferimento alcuno, né al paesaggio naturale né a quello del corpo.

Cosmogonie sensuali... non suona bene, i tuoi titoli sono certo più belli (in particolare continua a ronzare nelle orecchie quel "come un suono, dal suono del mondo", che mi pare s'adatterebbe splendidamente anche a questa serie,
senza necessità d'ulteriori commenti), ma può forse sintetizzare i sensi di questo lavoro, o meglio, come i sensi possono reagire di fronte a queste immagini.


Un'ultima cosa, prima di lasciarti: ti confesserò che una domanda ricorrente in questi giorni è stata relativa al rapporto inversamente proporzionale tra la tua ormai lunga vicenda creativa e la straordinaria freschezza di queste carte (mentre un'affermazione certa è che esse sono la dimostrazione di come si possano ottenere ancora risultati altissimi e "nuovi" -perché comunque mai visti prima -anche utilizzando mezzi e linguaggio che a qualche sprovveduto paiono non corrispondere alle necessità dell'oggi, paiono ormai inutili sopravvivenze -"vedi, io sono un dinosauro... ").

Un testo critico risolverebbe la questione con una formula abusata ma indubbiamente credibile ("la splendida stagione ultima di Bendini, uno dei maestri dell'arte italiana del dopoguerra"); la storia ti fa ovviamente ricordare gli esempi altrettanto limpidi di Tiziano e Goya e Monet, gli esempi di maturità che in più d'un caso coincidono con i massimi raggiungimenti espressivi; eppure la domanda rimane, con quel tanto di indiscreto e fastidioso che essa trascina con sé. Ebbene, forse ancora una volta la risposta si trova riflettendo su di una proposizione alla quale ci vanno abituando da qualche tempo: l'aggettivo senile ha assunto una connotazione negativa che, in realtà, non merita e che va, tout simplement, rovesciata.

Opere senili vale, in questo caso, come opere nelle quali tutto il bagaglio d'una vicenda artistica si dà in piena potenza espressiva, eliminate le scorie di urgenze espressive in altri tempi incontrollabili, come riassunto degli elementi salienti della poetica che oggi verrebbe da dire puri, distillati; come opere nelle quali la sapienza tecnica trova il suo totale dispiegamento perché ormai tutte le tecniche sono state provate, perché il tempo degli esperimenti è finito dal punto di vista tecnico, senza che sia finito il tempo dello stupore di fronte al formarsi dell'immagine (perché alla fine una tecnica perfettamente padroneggiata aiuta a giungere più immediatamente ai risultati che ci si propongono, o sbaglio?); come opere non pacificate, ma
certo libere dalle cure dell'attualità, proiettate in una dimensione temporale differente (non dico che prima non fossero, queste, caratteristiche presenti nella tua arte, ma raramente, se non agli inizi, le ritrovi così assolute, così
insieme certe e dubbiose, certe della propria esistenza, dubbiose della propria irripetibilità, almeno così a me pare).

Caro Vasco, come vedi il silenzio non è il mio forte, e ancora molte cose avrei da scriverti, ad esempio rispetto agli
spazi infiniti che aprono questi lavori, a come, talvolta, la pittura paia guardarsi dipingere, paia guardare l'immagine apparire ("immagine accolta" la chiami tu), ma le lettere troppo lunghe diventano noiose, e mi auguro ci saranno altre
occasioni, tutti e due un po' più senili e meno saggi.


Un abbraccio e un saluto a Marcella,


tuo Walter