La favola dei troppi comunicatori e dei pochi ingegneri

di Patrizio Paolinelli

La mattina presto mi capita di ascoltare le rassegne radiofoniche dei giornali appena usciti. Mi sintonizzo soprattutto su <Prima pagina>, trasmissione quotidiana che va in onda su Rai3.Recentemente un paio di giornalisti hanno mosso un’esortazione di questo tipo: <L’università italiana sforna una massa di laurearti in scienze della comunicazione che non troverà mai lavoro mentre abbiamo bisogno di più ingegneri per rispondere alle sfide della globalizzazione>. La stessa affermazione ho potuto ascoltarla anche in Tv.

Come noto non è l’opinione pubblica che fa l’informazione. Viceversa è l’informazione che fa l’opinione pubblica a causa del potere asimmetrico tra chi scrive e chi legge, tra chi sta al di qua e chi sta al di là dello schermo. Perciò ammonimenti sull’eccesso di laureati in scienze della comunicazione meritano attenzione perché indicano un preciso tracciato ideologico degli opinion maker sia per quel che dicono sia per quello che non dicono.

L’apparente buon senso sul bisogno di un maggior numero ingegneri e di un minor numero di laureati in scienze umane in modo da essere più competitivi sul mercato mondiale nasconde una discreta dose di autoritarismo. Intanto, perché niente prova la validità dell’affermazione. Per dimostrarla seriamente occorrerebbe una serie di complicati studi socio-economici. In secondo luogo, è strano che comunicatori per eccellenza quali sono i giornalisti affermino che i laureati del Dams costituiscono un problema per l’economia nazionale. Sorge un sospetto: non sarà che giornalisti garantiti stiano in realtà difendendo il proprio posto di lavoro e quello dei soliti predestinati? Meglio un attacco preventivo contro potenziali nuovi sbarchi.

C’è un terzo elemento, che scardina il buon senso dell’opinionista ultramoderato. Meno laureati in discipline della comunicazione e più ingegneri dà come risultato una società in cui il pensiero unico ha maggiori possibilità di affermazione. Se l’ipotesi è plausibile allora l’equazione trova una spiegazione: l’informazione ufficiale teme l’irruzione di saperi non controllabili. La messa sotto tutela avviene per mezzo di tre procedure: creare paure collettive (la disoccupazione intellettuale), impedire un reale pluralismo delle idee (abbassare il numero dei comunicatori), creare conflitti ad arte (tra umanisti e ingegneri).

Il liberismo è una pratica discorsiva che non ammette concorrenti. La sua attuale versione neocon è molto pragmatica: chi non è inglobato è fuori dalla globalizzazione. Ma questo non si può dire apertis verbis. Altrimenti resta poco del coro mediatico sulla società dell’informazione. Per ritrovare l’armonia perduta interviene con tutta la sua autorevolezza il buon senso del giornalismo ultramoderato. Lo stesso buon senso che ha giustificato le guerre preventive, dimenticato la balla sulle armi di distruzione di massa irakene e che oggi tuona contro il programma nucleare iraniano fingendo di non vedere gli arsenali atomici delle rinate potenze coloniali.

Purtroppo nell’universo dei mass-media il passaggio dall’autorevolezza all’autoritarismo è breve. Si pensi alla retorica della crescita del PIL. Mai sentito nelle fasce di massimo ascolto un opinionista affermare che il nostro modello di sviluppo economico è semplicemente folle e che gli interessi delle multinazionali non coincidono con quelli della società in generale. Il mediattivismo nato con il movimento altermodialista ha contrastato queste logiche captando l’attenzione di importanti segmenti della popolazione. Ha diffuso un modo di pensare antiliberista grazie al quale ingegneri e comunicatori hanno molto da dirsi per costruire un mondo migliore. Ecco allora che le major dell’informazione vanno alla controffensiva. Assai slealmente a dire la verità. Perché finché saperi antisistema circolano in aree socialmente minoritarie (artistiche, studentesche, giovanili) la macchina mediatica lascia fare, anzi può trarne persino vantaggi in termini di finte proteste e finte libertà da vendere sul mercato della cultura di massa. Ma quando conoscenze critiche si diffondono nel corpo sociale rischiando di diventare senso comune è necessario estirpare le radici delle nuove idee. Nasce così la favola dei troppi comunicatori e dei pochi ingegneri.

Liberazione, 27 lulgio 2005