l'emarginato elia

Eccomi qui. Mi chiamo Simonetta e, anche se sabina di nascita (Collevecchio è il mio amatissimo paese) dal 1984, anno del mio matrimonio con Mario, vivo ad Ostia. La mia parrocchia è Nostra Signora di Bonaria. A questo punto mi sembra di sentirvi dire che a voi di tutto questo non vi importa nulla. Non è per esibizionismo che lo sto scrivendo: il fatto è che da tantissimo tempo è accampato di fronte alla mia parrocchia il clochard Elia, in un modo non proprio conforme alle regole dell’igiene, tenuto conto che non è possibile definire salubre, pulito e sterilizzato l’ambientino che si è “costruito”. Oltretutto nella parrocchia ci sono sempre tantissimi bambini e ragazzi che frequentano i locali dell’Oratorio, situati proprio di fronte all’alloggiamento-bivacco di Elia.

Tutto questo mi ha fatto riflettere. Alcune mie amiche, mamme dei compagni di scuola delmio secondogenito, Alessandro, mi hanno detto che sono circa cinquecento a Roma i cosiddetti barboni e più di duemila le persone senza fissa dimora, dedite all'accattonaggio. Del resto noi li vediamo, passiamo rapidi e voltiamo la testa. Macome passa la giornata un senza dimora? Dove e come mangia? Parla con qualcuno, fala spesa, legge? Ma di che cosa hanno davvero bisogno le persone senza dimora? Pasti caldi? Un letto al coperto? Ernesta, mia suocera, mi ha detto che cause -e conseguenze- più frequenti sono la perdita del lavoro o  una bassa retribuzione che non consente di pagare un affitto, ma anche disturbi di tipo mentale e “da dipendenza” (alcol, droghe). Donne e bambini, infine: una metà del totale finisce in strada in seguito a violenze domestiche.

L’aumento della povertà e delle disuguaglianze sociali, con il relativo insorgere di nuovi modelli di marginalità sociale ed economica, è un fenomeno comune a tutti i paesi occidentali. Per quanto riguarda le povertà estreme come quella di Elia, la presenza di un consistente numero di persone senza casa costituisce un elemento ricorrente di marginalità sociale nei paesi economicamente avanzati, come l’Italia. Tanto è vero che, nell’ambito di fenomeni di impoverimento di vasti strati della società, della crisi occupazionale, della perdita di peso dei sistemi tradizionali di welfare, particolare attenzione va rivolta alla crescente diffusione di forme di povertà che si collocano oltre la tradizionale soglia di indigenza, sia in termini di qualità oggettiva delle condizioni di vita, sia per quanto si riferisce all’invisibiltà sociale ed istituzionale delle persone portatrici di tali forme di disagio.

Secondo mio cognato Stefano e mia sorella Antonella  -con i qualiho recentemente avuto modo di dissertare cordialmente sull’argomento- all’interno dell’area delle povertà estreme si devono comprendere i gruppi sociali e le situazioni a rischio di esclusione sociale come le persone senza fissa dimora, gli immigrati, i nomadi, i malati di mente, i tossicodipendenti, i portatori di handicap, i malati di Aids, i malati terminali, gli anziani non autosufficienti, gli ex degenti in ospedali psichiatrici e gli ex carcerati. Il fenomeno delle persone senza fissa dimora va incluso in quello più vasto della povertà economica e, in modo specifico, delle povertà estreme, però è possibile rintracciare in queste persone senza dimora caratteristiche che differenziano tale condizione dalle tradizionali categorie di povertà. Assumono, infatti, particolare peso, in questo fenomeno, i fattori legati alla dimensione affettiva e relazionale, la presenza di disturbi psichici e di situazioni di dipendenze da sostanze, le caratteristiche essenzialmente urbane del fenomeno e la centralità dell’esclusione abitativa.

Ed in questi homeless e clochard nostrani si osserva un processo di graduale impoverimento culturale e di perdita dell’identità sociale. E, anche se è difficile trovare questi clochard in luoghi circoscritti e delimitati (non esistendo in Italia dei veri quartieri-ghetto, come, invece, avviene negli stati Uniti) alcuni luoghi -come la mia parrocchia di Nostra Signora di Bonaria ad Ostia- risultano comunque, abitualmente frequentati da tali categorie di persone, come Elia, che si fermano alla soglia minima di sopravvivenza, in un orizzonte che si appiattisce sempre di più nel bisogno del momento presente, giorno per giorno, ora per ora. Si adattano, quindi, ad una vita fatta di espedienti, senza tentativi di reale cambiamento, quasi a proteggersi, in quell’immobilismo, dalla paura di nuovi fallimenti. L’accattonaggio è la forma più diffusa per il reperimento di risorse economiche.

La fonte privilegiata per l’esercizio dell’accattonaggio è, appunto, costituita dagli Istituti religiosi e dalla parrocchie, a cui le persone senza fissa dimora si rivolgono. Ci sono infine una serie di espedienti che dipendono dalla fantasia e dalla capacità psichiche dei soggetti: la vendita di santini o di immagini sacre di fronte alle Chiese, la richiesta di spiccioli presso le fermate degli autobus o vicino alle parrocchie, la vendita di beni reperiti nei centri di assistenza (indumenti, alimenti vari, ecc.), il baratto tra emarginati realizzato in funzione del grado di urgenza del bisogno, ecc. E’ risaputo che il loro etichettamento viene applicato da noi cittadini “normali” in modo definitivo: i clochard perdono il riconoscimento di appartenenza alla reciprocità tra persone civili, venendo considerati oziosi o parassiti ed in tale condizione vengono lasciati, poiché rifiutano ormai ogni pressione al cambiamento dello stile di vita. Io ritengo che per fronteggiare soddisfacentemente il problema le amministrazioni locali dovrebbero poter mobilitare una persona ogni mille abitanti, come affiancatore di un emarginato grave (sia un suo familiare o un volontario o un operatore stipendiato) per far avanzare gradatamente la persona che esce dall’emarginazione. Difatti, riassumere in carica questi cittadini espulsi dalla piena cittadinanza comporta certamente il costo di un coinvolgimento tanto dell’amministrazione pubblica, quanto delle reti di solidarietà.

A mio parere questa è la sola strada da seguire per aiutare persone come Elia, permettendo loro di poter tornare a vivere come persone normali ed evitando, tra l’altro, che loro stessi possano diventare veicolo di gravi infezioni sia verso loro stessi che verso gli altri.

Simonetta D’Ippoliti Pulimanti (Lido di Ostia –Roma)

 

 

 

 

 

 

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