Lietta Tornabuoni

(La Stampa)

Grandissimo attore, ha recitato le maschere del potere e dell'impotenza d'Italia, i protagonisti della violenza, della mitezza paziente e delle zone torbide d'ambiguità, il bene, il male, la reticenza: come i veri grandi, la cui ambizione eroica e impossibile è sempre quella di rappresentare tutto. Uomo coraggioso e morale, ha fatto le sue scelte con coerenza senza rinunce nei momenti difficili, senza compromessi né viltà. È stato il più ideologico degli attori italiani: non per passione d'ideologia o perché fosse di sinistra o partecipasse a manifestazioni o si esibisse nel teatro di strada, ma perché ha voluto, cercato e spesso avuto ruoli forti significativi, personaggi da vivere e far vivere, non da indossare come vestiti. Con gli anni era diventato quasi bello (così magro, così elegante, così desolato), ed era molto simpatico. Oltre la timidezza scontrosa, la riservatezza riottosa, la fermezza pudica nell'astenersi dai riti banali e a volte scemi dello spettacolo, in certe piccole risate sussultanti o in certi scatti tempestosi riconoscevi l'uomo delle passioni: quello che andava in barca per mare durante intere giornate o settimane, che amava la politica, che amava le donne (dopo la separazione dalla prima moglie Tiziana Mischi, altre compagne o mogli erano state Carla Gravina, Armenia Balducci, Angelica Ippolito), che amava la vita e aveva saputo battersi da guerriero anche contro un tumore ai polmoni costatogli anni di sofferenza e d'assenza. Milanese, s'era diplomato all'Accademia d'arte drammatica nel 1957, aveva recitato in teatro (Fedra, Sacco e Vanzetti, Sogno d'una notte di mezza estate, Romeo e Giulietta, Zio Vanja) e alla televisione (Rogozin ne L'idiota, sceneggiato da Dostoevskij). Era arrivato al cinema nel 1960 in Sotto dieci bandiere di Duilio Coletti come ci arrivano gli attori di teatro: con diffidenza, per caso, per fare un po' di soldi. Invece era un destino. Ha portato sullo schermo uomini- chiave (Enrico Mattei, Aldo Moro, Ben Barka, Lucky Luciano) e figure cruciali della società (operaio settentrionale, contadino meridionale, militare, magistrato, comunista sotto il fascismo, sindacalista, poliziotto, criminale, leader politico, giornalista e direttore e proprietario di giornali). Ha lavorato per registi stranieri (Theo Anghelopulos con Lo sguardo di Ulisse era soltanto l'ultimo, prima c'erano stati Jean-Luc Godard, Miguel Littin, Claude Goretta, altri). Ha creato un'intesa straordinaria di reciproca necessità con alcuni dei migliori registi italiani: Elio Petri (A ciascuno il suo, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, La classe operaia va in paradiso, Todo Modo); Francesco Rosi (Uomini contro, Il caso Mattei, Lucky Luciano, Cristo si è fermato a Eboli); Paolo e Vittorio Taviani (Un uomo da bruciare, Sotto il segno dello Scorpione). Ma anche quando, agli inizi, compariva in Ercole alla conquista di Atlantide, oppure quando recitava ghignanti banditi sadici per Sergio Leone o rivoluzionari messicani per Damiano Damiani, a quei personaggi dava spessore, significati, una rilevanza non mestierante. Le lodi maggiori andavano alla sua versatilità, al camaleontismo perfezionista, alle impressionanti capacità di trasformarsi, all'abilità di cogliere somiglianze, al talento di diventare un altro, altri: ma chissà se erano tanto giuste. Gian Maria Volonté non imitava, non impersonava. La sua arte arrivava a svelare e restituire le caratteristiche anche più segrete d'una persona, a condensare d'un personaggio quell'essenza fatta pure di memoria, cultura, psicologia e funzione nella collettività. Vederlo recitare il poliziotto di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, l'operaio nevrotico de La classe operaia va in paradiso, il giudice ostinato di Porte aperte di Gianni Amelio, il professore testimone lucido e scorato di fatti intollerabili alludente a Leonardo Sciascia in Una storia semplice di Emidio Greco, voleva dire per gli spettatori comprendere meglio e in profondità quei ruoli sociali e anche l'Italia: non semplicemente aver assistito a uno spettacolo ma aver vissuto un'esperienza, e non dimenticarla. A Volonté piaceva andarsene per il mondo, anche per imprese imperfette come Tirano Banderas di José Luis Garcia Sanchez, storia ispano-cubana d'un dittatore latinoamericano, o come L'opera al nero di André Delvaux tratto dal romanzo di Marguerite Yourcenar o come Pestalozzi Berg di Peter van Gunten, cinebiografia svizzero-tedesca dell'educatore esemplare: "Amo girare per le culture, conoscere, dare il mio contributo soprattutto agli scambi europei". Aveva, come tanti, brutti periodi di depressione, ma tentava di combatterli con la razionalità: "Cerco di capire, di intuire le ragioni della mia depressione, di superarla se è possibile". Come tanti, provava il sentimento di vuoto e di solitudine di chi ha impegnato se stesso nelle speranze di cambiamento per ritrovarsi con il dubbio che tutto sia stato invano: "Ma disperato no, non sono. Resta sempre un terreno inesplorato dove la speranza può rinascere, e questo terreno può essere il domani".


Da La Stampa, 7 Dicembre 1994

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Aldo Fittante

(Film TV)

Gian Maria Volonté aveva il volto scavato dal talento. Era un curioso, voleva sapere tutto. Ciò che stava davanti e ciò che rimaneva nascosto dietro, quello che si poteva dire e j mille misteri di un paese che non lo ha mai amato come meritava e che lui stesso contestava e rimetteva in discussione con la sua arte, ma anche con la sua militanza politica. È stato un caso unico, un caso raro. E infatti è stato il Caso Mattei e il Caso Moro, ha ridipinto le manie, i tic, i vezzi, le oscurità del potere dei più importanti personaggi dei dopoguerra, dai citati industriali e statisti (il leader della Dc addirittura due volte) ai direttori di giornale (seppur non citati espressamente, “era” Ottone in Sbatti il mostro in prima pagina ed “era” Scalfari in Tre colonne in cronaca), dai mafiosiillustri (Lucky Luciano) ai criminali che colpirono l’immaginario popolare (il CavaIlero di Banditi a Milano). E, proprio perché così onnivoro di conoscenza, eccolo -parallelamente, contemporaneamente - nei panni dell’ispettore Moroni che indaga sulle rapine di Luciano Lutring (in Svegliati e uccidi), in quelli del primo poliziotto emancipato (Io ho paura), nel sindacalista (ispirato alla figura del socialista Salvatore Carnevale) che combatte la mafia, dell’operaio che contrasta cottimizzando il padrone (nel mitico film di Petri), dell’uomo delle istituzioni che sfida e si beffa del potere dell’altrettanto epocale Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Non sono mai banali i personaggi scelti da Volonté: sono persone, siano “grandi” o “piccole”, che fanno la Storia, che procedono investigando, che tramano ribaltando i connotati, che non si arrendono, che non di rado pagano con la morte (come Bartolomeo Vanzetti), che con puntuale, tignosa caparbietà, ribadiscono i parametri democratici del vivere civile (come la straordinaria figura del giudice Di Francesco in Porte aperte, come il professore Franzò nello sciasciano Una storia semplice). Indimenticabile la sequenza di quest’ultimo film diretto da Emidio Greco, quando Volonté riflette sul senso dei rraggionare, di far funzionare -come si dovrebbe sempre - il cervello e la propria coscienza. Vedere o rivedere le pellicole con Gian Maria Volonté significa ripercorrere la Storia, la nostra storia, la storia d’Italia (anche Giordano Bruno, la Grande Guerra di Uomini contro, i fratelli Cervi, il Partito d’Azione nel Terrorista, Le quattro giornate di Napoli, il fascismo che spediva “in viaggio d’affari” intellettuali e trotzkisti in Cristo si è fennato a Eboli e Il sospetto) e non solo d’Italia (il terrorismo basco di Ogro, le eresie della Bruges del 500 nell’Opera al nero tratto dalla Yourcenar, il dittatore Santos Banderas nella sua ultima interpretazione). Riattraversandola con gli occhi di artista che consentiva agli spettatori comuni (ben prima della voyeuristica televisione contemporanea) di avvicinarsi a quel sapere, a quella conoscenza, di cui lui si faceva paladino e promotore finanche nella vita privata. Uomini e storie semplici appunto. E personaggi stanci e accadimenti complicatissimi che il cinema abitato da Gian Maria Volonté voleva, al contempo popolare e impegnato aiutato da una stagione irripetibile per il nostro cinema, affollato da registi che facevano i registi (e non gli autori), da sceneggiatori che scrivevano informandosi e vivendo il loro tempo (e non quello speso e filtrato, oggi, dallo psicanalista). Dimenticato presto (gli anni 80 e i primi 90 lo costrinsero all’estero), premiato pochissimo, ricordato di rado, Gian Maria Volonté è stato, senza dubbio alcuno, il più grande attore italiano (e, per chi vi scrive, anche non italiano), il più poliedrico, il più duro, il più malleabile, il più fertile. Nessuno ha inciso come lui. Persino negli spaghetti-western ha lasciato il segno, con pseudonimo doc (John WelIs) che tanto faceva yankee negli anni in cui si pensava bisognasse esserlo, ghigno in grado di gareggiare con Kinski, e timbro di voce dagli echi lontani. Una vera, autentica, vulcanica forza di Volontà.


Da Film Tv, n. 49, 2004

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Serena d’Arbela

Gian Maria Volonté, grande attore del cinema italiano, è scomparso improvvisamente, in Grecia, mentre stava girando Lo sguardo di Ulisse di Theo Anghelopoulos. La sua morte suscita il rammarico di tutti coloro che hanno a cuore il film d’impegno e di significato civile. E ricordandolo non si potrà tacere una riflessione sull’ottusità di chi soprattutto negli anni Ottanta non ha voluto offrirgli occasioni adeguate. Gian Maria Volonté è stato per il nostro schermo ben più di un attore; è stato una fonte e un testimone dei travagli degli anni dal ‘60 in poi delle aspirazioni sociali, e delle loro radici, delle trame sotterranee che hanno solcato e solcano la vita politica nazionale e internazionale.
Una storia nelle storie. Così potrebbe definirsi l’insieme delle sue interpretazioni nella dimensione filmica. Si è calato volta a volta nei panni del bracciante, del bandito, dell’operaio, del professore, del soldato, del sindacalista, del rivoluzionario, dell’anarchico, del partigiano. È ancora del funzionario di polizia, dell’uomo politico, del manager pubblico, del filosofo, nei film dei Taviani, di Petri, di Rosi, di Lizzani, di Maselli, di Montaldo, di Bellocchio, di Pontecorvo, di Puccini, di Damiani, di Loy, di Monicelli, di Goretta, di Comencini, di Vancini, di Boisset, di Littin, di Delvaux e di altri. Ha parlato dell’antifascismo militante, della Resistenza, della questione meridionale, della mafia e della criminalità metropolitana, della aggressività dei grandi gruppi capitalistici internazionali. Ha sottolineato i mali della democrazia reale e delle istituzioni nel nostro Paese negli anni 60-70, ha descritto l’abuso di potere, la caccia al rosso, la corruzione, la strumentalizzazione dei mass media, la condizione operaia moderna; è risalito alle tenebre dell’oscurantismo antico e sempre acquattato nella società italiana e nel mondo come il fascismo, come il conservatorismo, l’autoritarismo, come l’eversione.
Ha impersonato Giordano Bruno, Enrico Mattei, Aldo Moro, Carlo Levi, Aldo (il maggiore dei fratelli Cervi), Bartolomeo Vanzetti, Cavallero, Lucky Luciano, Ben Barka. Rivedendo idealmente questa vasta galleria di personaggi ci sembra a un tratto di percorrere una storia non casuale, in cui ogni figura è elemento significante di una architettura autonoma che travalica le varie trame ove l’attore svolge il suo ruolo concreto. Il carattere emblematico dei protagonisti di queste realtà conflittuali è uno dei dati più originali dell’apporto di Volonté. La funzione dell’attore non si esaurisce nell’azione ma nella capacità di far convivere il personaggio e il suo messaggio.
La sua straordinaria professionalità è pari alla chiarezza di obiettivi. Egli dà alle sue incarnazioni di primo piano e intermedie un’impronta decisiva, penetrando nella umanità dei caratteri, nelle loro sfaccettature. Pochi attori hanno scelto le parti da interpretare, con il suo rigore e deliberazione, entrando attivamente nel gioco della regia. Il segreto della sua recitazione creativa è nella preparazione accurata, nell’approfondimento del copione, nella concentrazione per afferrare in profondità il. carattere del personaggio sul piano psicologico, gestuale, mi-mico, linguistico, nella situazione in cui è calato, come dato rappresentantivo.
Questa capacità di entrare ed uscire da figure molto diverse ci ha offerto personaggi lontani fra loro, ma accomunati dalla stessa forza di espressione del proprio tempo. Ne ricordiamo alcuni fra i tanti, indimenticabili, e lunga sarebbe la lista.
Salvatore in Un uomo da bruciare (regia dei fratelli Taviani, 1962): il personaggio trae ispirazione dalla figura del sindacalista siciliano Carnevale, ma se ne discosta divenendo eroe relativo, uomo in carne ed ossa, non astratto, credi-bile nelle sue luci ed ombre. Salvatore rappresenta una volontà di lotta, ma anche momenti di debolezza, è un uomo armato di coraggio, ma solo di fronte alla mafia onninotente. Secondo l’ottica dei Taviani, Volonté fonde con molta efficacia il momento soggettivo a quello demistificatore dei fatti. Salvatore si muove in una situazione complessa, caratterizzata da precisi rapporti di forza, lo strapotere della mafia da un lato, la linea sindacale dall’altro, tesa a non isolare i contadini dal resto dell’opinione pubblica. Salvatore è un uomo d’avanguardia, è anche un temerario e quindi destinato ad essere solo. Volonté evidenzia questo stato d’animo, lo riflette nei suoi gesti, nel suo sguardo quando, promosso capo cava, cerca di studiare le mosse dei mafiosi, quando nella sua stanza, si guarda nello specchio, quando è di fronte alla morte.
Chi non ricorda l’operaio Lulù Massa in La classe operaia va in paradiso (Elio Petri, 1971), altra interpretazione significativa di Volonté? Simbolo della rivolta delle «tute blu» contro lo sfruttamento del lavoro in fabbrica degli anni caldi e insieme demistificazione delle illusioni degli anni 70, il metalmeccanico lombardo entra nel firmamento cinematografico più come un proiettile tracciante che come una stella. Cottimista convinto, integrato nel lavoro e nell’ideologia, illuso di avere una funzione nella produzione che gli sarà riconosciuta dai padroni, si muove nella sua stressante altalena tra casa e lavoro, spremuto e frustrato. Con sferzante autoironia l’attore ci mostra il parcheggio di Lulù ogni sera di fronte alla TV in un interno familiare gremito di simbolici oggetti kitsch cari alla sua convivento. Ancor più illuminante la sua presa di coscienza e ribellione dopo un incidente sul lavoro. Lulù ha perduto un dito tranciato dalla macchina e attraverso il suo corpo scopre di non essere che merce nella fabbrica del consumo e vittima di un inferno quotidiano. Volonté fa attraverso Lulù un ritratto delle lotte operaie nelle fabbriche dopo il ‘68, dello scontro politico tra sindacati e movimenti extraparlamentari e nello stesso tempo del prezzo umano di angoscia, confusione e finale follia del protagonista. Il suo simbolico sogno di un paradiso, con i compagni circondati da un muro di nebbia, ha un sapore profetico.
E infisso nella nostra memoria anche l’ispettore di Indagine su un cittadino ai di sopra di ogni sospetto (1969) sempre di Elio Petri, figura dal sottofondo grottesco in cui il gioco interpretativo di Volonté riesce a cogliere gli elementi di normalità, qualificanti e correnti del poliziotto politico di allora, il linguaggio, i metodi, gli interrogatori duri, le schedature, la sicurezza dell’impunità. In questo senso il discorso «pubblico» inneggiante alla repressione («Sotto ogni criminale può nascondersi un sovversivo») pronunziato dal protagonista alla sezione politica dopo la sua promozione, è un capolavoro in cui l’attore non riflette solo ma megalomania e la nevrosi di un frustrato ma anche e soprattutto la ben riconoscibile psicosi di sospetto del tempo.

Ricordiamo Emilio protagonista di Il sospetto di Maselli (1974), l’operaio comunista fuoriuscito in Francia, rientrato clandestinamente in Italia per ricostituire il centro del partito decimato dagli arresti. Volonté entra nella parte di quest’uomo chiuso che, caduto in disgrazia presso i compagni per le sue simpatie trozkiste, vuole riconquistarne la fiducia. Immagine riuscita di un militante dei difficili anni ‘30 che si è dato alla causa fino in fondo sfidando i tranelli della polizia fascista in un terreno infido dove chiunque può trasformarsi in un delatore. E nello stesso tempo ritratto evocato-re di un clima politico eccezionale in cui all’interno del movimento operaio affiorano episodi foschi. L’attore riesce con la sua mimica e i suoi gesti a rendere palpabile nel film, forse il più concentrato di Maselli, il contrasto fra la vita normale che non smette il suo corso e il cupo e guardingo isolamento del clandestino, il suo essere braccato ed estraneo in mezzo alla folla. Nella fisionomia di Emilio, si riflette la scelta di una morale politica assoluta fino al lucido sacrificio, tipica di un travagliato periodo storico, forse comprensibile solo alla luce dei valori dell’utopia.
Nel personaggio del tenente Ottolenghi in Uomini contro (1970, di Francesco Rosi), Volonté ci conquista con la sua dignitosa opposizione alle decimazioni, alla repressione, e al gioco della guerra come forza cieca, rievocando il crudele scenario della trincea.
Nella parte di Aldo Moro (li caso Moro, di Giuseppe Ferrara, 1986) incarna, con interna misura, la sofferenza fisica e spirituale dello statista, la sua forza d’animo e, nel contempo, l’amara sensazione del tradimento degli amici.
Nel ruolo di Renato Braschi, il gappista convinto dill terrorista (Gianfranco De Bosio, 1963), ispirato dalla figura dell’ingegnere veneto Pighin, impersona un partigiano inflessibile, esponente del partito d’azione che non dà tregua ai nazifascisti con le sue azioni ed attentati, in conflitto con la linea più morbida del CLN. La sua è una scarna ma precisa visualizzazione delle differenze interne alla Resistenza.
In ipotesi su Giuseppe Pinelli (1970, Petri), episodio del film Documenti su Pinelli (Elio Petri, Nelo Risi, 1970), requisitoria sulla fine oscura e ancora mai chiarita dell’anarchico Pifolli, ci appare un Volonté entrato nel vivo della cronaca e della battaglia politica che scalza con ironia demolitrice le tre versioni della polizia sul «suicidio» dell’interrogato.
Introversione ed estroversione, sfrontatezza e silenzio, comicità e dramma, grottesco e realismo, assenza di provincialismo, ecco l’arte di Volonté che nasce da una coerente passione politica e civile e da un’esplicita scelta di campo. Tutta la sua carriera cinematografica è contrassegnata da questa chiarezza e dal rifiuto dell’effimero e del commerciale. Le sue interpretazioni che compongono un’antologia di ritratti e metafore in cui si svolge intensamente l’azione — illuminazione del sociale nella storia — riassumono passato e presente e sarebbe utile rivederle tutte insieme in una grande rassegna, dedicata a questo grande e «scomodo» attore.


Serena D’Arbela

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Leonardo Jattarelli

(Il Messaggero)

Volontè, il “pensattore”. L’uomo del sociale, l’attivista politico prima che l’interprete. Il volto serio e non serioso prima che la maschera. Quel volto di chi coscientemente decide di stare dietro un obiettivo o su un palcoscenico «per una scelta esistenziale: ”no” alle forze conservatrici, sì alle filosofie progressiste». Il ribelle a modo suo, eternamente schivo, l’anticonformista a costo di tutto, l’intellettuale per il quale ogni cosa è politica «e il cinema apolitico è solo un’invenzione del cattivo giornalismo». Gian Maria Volontè, il 6 dicembre del ’94 a 61 anni moriva a Florina, in Grecia, sul set de Lo sguardo di Ulisse di Theo Anghelopoulos. E oggi, a dieci anni dalla sua scomparsa, oggi che non solo il mondo del cinema ma anche tv e istituzioni universitarie gli tributano il giusto omaggio, ci manca forse più di qualsiasi altro grande attore italiano che dal dopoguerra abbia attraversato una porzione di storia del nostro Paese.
Forse perché, come Pasolini al quale in molti da sempre lo accomunano, Volontè é stato il primo, vero intellettuale dell’arte dotato di “trasversalità”. O forse, in questi tempi anestetizzati non solo al cinema, per la sua tenacia ideologica. Forse anche per il fatto di essere stato troppo colpevolmente “dimenticato”. Sicuramente per il suo essere artista volitivo, camaleontico, stanislavskijano. Irripetibile come le stagioni della vita, Gian Maria Volontè, che le scottanti stagioni dell’Italia le ha incarnate tutte.
Inizia negli anni ’50 all’Accademia d’Arte Drammatica con Orazio Costa e già nel ’59 ha il merito di far conoscere l’inedito L’ultimo nastro di Krapp di Beckett ed ancora di proporre un testo scomodo, difficile come Sacco e Vanzetti che più tardi, diretto da Giuliano Montaldo, riproporrà al cinema. Negli anni ’60 del “boom” e della dolce vita felliniana, Volontè nuota controcorrente e parla di mafia con Un uomo da bruciare dei Taviani, sulla vita del sindacalista siciliano Carnevale ucciso da Cosa nostra. Spiazzante, “trasversale”, se nel ’64 e nel ’65 si dà in pasto alla grande platea grazie a due gioielli di Sergio Leone, Per un pugno di dollari e Per qualche dollaro in più e negli stessi anni porta in scena quel Il Vicario di Rolf Hochhuth sui rapporti tra la Chiesa, Pio XII e il regime nazista che darà scandalo alla prima berlinese. Scomodo ma sempre pronto a stemperarsi in progetti più popolari come per L’armata Brancaleone di Monicelli, dove diventa lo sgangherato Teofilatto dei Lenzi, Volontè si immerge negli anni 70 con la forza, la granitica certezza delle proprie idee in quello che sarà il cinema politico pre e post terroristico firmato da due maestri come Elio Petri e Francesco Rosi. E’la stagione di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto , La classe operaia va in paradiso , Il caso Mattei , Lucky Luciano e più tardi del discusso Todo modo dove per la prima volta incontra la figura di Aldo Moro (che ripescherà nell’86 con Il caso Moro di Giuseppe Ferrara), ritrova il suo amato Sciascia lasciato in A ciascuno il suo che non abbandonerà fino a Porte aperte di Gianni Amelio. Impossibile citare tutte le sue opere, sicuramente indimenticabili il Carlo Levi di Cristo si è fermato ad Eboli e il giornalista Bernard Fontane ne La morte di Mario Ricci , ma doveroso sottolineare la sua scrupolosità, il suo lavoro certosino, costante sul personaggio (Rosi racconta «Con me non interpretava Mattei, era Enrico Mattei») che lo stesso Volontè illustrava così: «Lavoro con carta e penna e copio e ricopio tutta la sceneggiatura, non solo il mio ruolo, per avere un rapporto con tutti i personaggi. Bisogna capire la cifra stilistica e linguistica dell’autore, poi via via si va a stringere sul proprio personaggio».
Aveva il coraggio dei “no”, al Padrino di Coppola, all’Identificazione di una donna di Antonioni, al Casanova di Fellini, al Novecento di Bertolucci, e il coraggio dei “sì”, come l’ultimo, l’estremo, pronunciato per Lo sguardo di Ulisse , girato in Bosnia in piena zona di guerra. Lui che aveva fatto della sua vita un manifesto non violento, contro l’odio e la morte: «Non è esatto dire che sullo schermo io racconto sempre la morte - disse una volta Volontè -. E’più esatto affermare che i miei film sono, al contrario, una sequenza ininterrotta contro la pena di morte e la cultura della morte». A noi piace ricordarlo con le parole di Giuliano Montaldo, un flash durante le riprese di Sacco e Vanzetti : «Mentre giravo mi accorsi che una delle due guardie che gli stavano accanto, piangeva. Fermai tutto e quella comparsa mi bisbigliò ”A dottò, me scusi, ma ’sto Volontè me commuove davvero”».


Da Il Messaggero, 7 Dicembre 2004

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Roberto Silvestri

(Il Manifesto)

Vale la pena rischiare di morire girando un film? E se ti dirige Angelopoulos? Gian Maria Volonté morì proprio sul set, durissimo, faticosissimo, di Lo sguardo di Ulisse, nel `94. A 10 anni di distanza il monopolio satellitare Sky e il comune di Roma (più Fandango, Ambra Jovinelli, Csc, Achivio audiovisivo del movimento operaio e teatro Ateneo) dedicano al più ribelle e mai riconciliato dei grandi attori italiani del cinema, non solo italiano, una serie di omaggi. Martedì alle 19.50 Sky Cinema Classics presenta Indagine su un cittadino di nome Volonté, documentario inedito di Andrea Bettinetti, con una sua rara intervista tv, dell'ottobre '92, al programma uruguayano Hablamos. E testimonianze, tra l'altro, di Angelica Ippolito, Carlo Cecchi, Francesco Rosi, Fabrizio Gifuni, della figlia Giovanna Gravina e del cugino Franco Volonté. Verranno anche trasmessi, via satellite, La classe operaia va in paradiso ('71) di Elio Petri (martedì 7, ore 20.45); Sotto il segno dello scorpione ('69) di Vittorio e Paolo Taviani (martedì 14), Un uomo da bruciare ('62) di Vittorio e Paolo Taviani (martedì 21) e Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto ('70) di Elio Petri (martedì 28). «Gian Maria Volonté - Lo sguardo ribelle» è invece un libro di saggi e testimonianze su Gian Maria Volonté (a cura di Franco Montini e Piero Spila, edizione Fandango) e anche il titolo dell'iniziativa romana che vuole ripercorrere, approfondire e recuperare gli aspetti principali di una carriera (teatrale, televisiva, cinematografica) e di un lavoro politico esemplare, anche attraverso un dvd, un convegno e un documentario. Per rimettere a fuoco temi e problematiche rivoluzionarie, ancora necessarie nel nostro sempre meno civile paese. Volonté è stato infatti protagonista di primo piano nello scontro di classe avvenuto negli anni Sessanta e Settanta in Italia, sia dentro il sindacato attori e che affiancando il movimento in film collettivi: Dedicato a Giuseppe Pinelli, sull'assassinio dell'anarchico milanese, le responsabilità del commissario Calabresi e la «strage di stato»; La tenda in piazza (`70), sulla lotta degli operai romani della Fatme, Reggio Calabria sui moti neofascisti nel capoluogo calabrese.
Il programma (6-12 dicembre) coinvolgerà, e speriamo sconvolgerà, Teatro Ambra Jovinelli, Sala Trevi-Alberto Sordi, Politecnico Fandango, Casa del Cinema. Inaugurazione il 6 dicembre all'Ambra Jovinelli con sonorizzazioni live dei Sikitikis, un documentario di Mario Sesti, Giordano Bruno. Martedì, ore 21, La classe operaia va in paradiso di Elio Petri. Mercoledì Todo modo di Elio Petri; Giovedì Sacco e Vanzetti di Giuliano Montaldo; venerdì Uomini contro di Francesco Rosi; sabato Porte aperte di Gianni Amelio e domenica Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri. Ingresso gratuito.
Nella Sala Trevi - Alberto Sordi (ingresso 4 euro) la retrospettiva sarà più completa. Martedì 7 Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri, Lucky Luciano di Francesco Rosi, Banditi a Milano di Carlo Lizzani. Mercoledì 8 Le quattro giornate di Napoli di Nanni Loy, Cristo si è fermato a Eboli di Francesco Rosi, I sette fratelli Cervi di Gianni Puccini. Giovedì 9 A ciascuno il suo di Elio Petri, Una storia semplice di Emidio Greco, Un uomo da bruciare di Paolo e Vittorio Taviani.Venerdì 10: Giordano Bruno di Giuliano Montaldo, Todo Modo di Elio Petri. Il caso Moro di Giuseppe Ferrara. Sabato 11: Il magnifico cornuto di Antonio Pietrangeli, Faccia a faccia di Sergio Sollima, Per qualche dollaro in più di Sergio Leone. Domenica 12 L'amante di Gramigna di Carlo Lizzani; Sbatti il mostro in prima pagina di Marco Bellocchio, Sotto il segno dello scorpione di Paolo e Vittorio Taviani.
Più raro, radicale (e gratuito) il programma del Politecnico Fandango perché verrà programmata l'intera opera televisiva di Gian Maria Volonté, oltre a una selezione di interviste e documentari politici. Volonté ha esordito in tv nel 1959, in L'idiota, da Dostoevskij, regia del grande Giacomo Vaccari. Seguiranno La Pisana (1960) da Ippolito Nievo, sempre di Giacomo Vaccari, Zio Vania (1962) da Cechov, di Claudio Fino, Il taglio del bosco (`63) da Carlo Cassola, di Vittorio Cottafavi, Michelangelo (`64) di Silverio Blasi, Caravaggio (`67) di Blasi, La Certosa di Parma (`82) da Stendhal, di Mauro Bolognini, e il più recente La signora delle camelie, da Dumas.
Alla Casa del Cinema infine lunedì Il caso Mattei (ore 15), e incontro con Francesco Rosi. Martedì un convegno di studi coordinato da Callisto Cosulich e Felice Laudadio.


Da Il Manifesto, 5 dicembre 2004

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Gianni Rondolino

A dieci anni dalla morte prematura (a 61 anni), la figura e l'opera di Gian Maria Volonté ci appaiono stranamente lontane, come di qualcosa di diverso, quasi di opposto, da quanto avviene oggi nel cinema italiano nel campo della recitazione, costruzione dei personaggi, interpretazione dei testi drammatici. Di diverso, o addirittura di opposto, perché Volonté, a differenza di molti attori (anche suoi contemporanei), sapeva dare ai personaggi che di volta in volta interpretava, in una serie di film di varia natura e genere, uno «spessore» che ne garantiva l'autenticità drammatica, la presenza schermica. Sapeva, in altre parole, calarsi nella parte, dopo averla attentamente studiata, non limitandosi a fornirle un volto, un corpo, una gestualità particolari, ma portandola a un alto livello di espressione, che spesso, quando il film non era del tutto riuscito, si imponeva per la sua forza originale, anche contro la struttura dello spettacolo, fuori del quadro di riferimento in cui era collocata. Valga per tutti l'ultimo suo film, «Tiranno Banderas» (1993) di Sanchez, tratto dall'omonimo romanzo di Ramon del Valle-Inclan. Un film mediocre, di scarsa rilevanza, che tuttavia rimane nella memoria proprio per la figura del protagonista, il tiranno Santos Banderas, a cui Volonté ha dato un proprio carattere inconfondibile, dopo averne studiato attentamente tutti gli aspetti pubblici e privati. Un personaggio che concluse quella galleria di figure reali o immaginarie che egli tratteggiò da par suo nella sua non breve carriera d'attore. Figure spesso emblematiche di una situazione storica o di un momento particolare della vita di relazione, quasi «scolpite» sullo schermo nella loro forza rappresentativa. Ma soprattutto figure diverse fra di loro, appartenenti a diversi contesti drammatici, protagoniste di film anch'essi diversi per genere e carattere, che ogni volta Volonté sapeva rendere vere. A cominciare dalla sua prima vera interpretazione cinematografica, quella del Salvatore di «Un uomo da bruciare» (1962) dei fratelli Taviani. Un film politico, di sinistra, come saranno molti altri da lui interpretati in quegli anni, in cui la sua azione a favore dei contadini sfruttati (ispirata a quella del sindacalista Salvatore Carnevale) si carica di una propria valenza paradigmatica. E saranno ancora i Taviani a fornirgli l'occasione di creare il personaggio di Renno in «Sotto il segno dello Scorpione» (1969). Ma intanto Volonté aveva dato vita a personaggi ben altrimenti sfaccettati, dal Renato del «Terrorista» di De Bosio al Ramon Rojo di «Per un pugno di dollari» di Leone, dal Teofilatto dell'«Armata Brancaleone» di Monicelli al Paolo Laurana di «A ciascuno il suo» di Petri, dall'Aldo dei «Sette fratelli Cervi» di Puccini al Cavallero di «Banditi a Milano» di Lizzani. Una versatilità addirittura camaleontica e quindi una galleria per molti versi straordinaria, per la varietà dei caratteri e dei risultati espressivi raggiunti. Galleria che si andò arricchendo, soprattutto nel corso degli Anni 70, con i personaggi dell'ispettore di polizia in «Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto» di Petri, del sottotenente Ottolenghi in «Uomini contro» di Rosi, del Bartolomeo Vanzetti in «Sacco e Vanzetti» di Montaldo, dell'operaio Lulù Massa in «La classe operaia va in Paradiso» di Petri, di Enrico Mattei nel «Caso Mattei» di Rosi, del direttore del giornale in «Sbatti il mostro in prima pagina» di Bellocchio, di Lucky Luciano nel film di Rosi, di Giordano Bruno in quello di Montaldo, di Emilio nel «Sospetto» di Maselli, del Presidente in «Todo modo» di Petri, di Carlo Levi in «Cristo si è fermato a Eboli» di Rosi, di Aldo Moro nel «Caso Moro» di Ferrara. E si potrebbe continuare, se l'elenco non fosse troppo lungo. Ma almeno un cenno meritano ancora le sue interpretazioni in «L'opera in nero» di Delvaux, in «Porte aperte» di Amelio, in «Una storia semplice» di Greco e soprattutto in «Morte di Mario Ricci» di Goretta, che gli valse il premio per la migliore interpretazione al Festival di Cannes del 1983.Insomma una carriera esemplare, per impegno artistico e civile, che forse non ha paragoni nel cinema italiano. Una carriera che la morte stroncò il 6 dicembre 1994, mentre Volonté stava lavorando con Anghelopulos a «Lo sguardo di Ulisse», che rimane la sua interpretazione incompiuta.


Da La Stampa, 7 dicembre 2004

 

 

 

 

 

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