Lietta Tornabuoni
(La Stampa) Grandissimo attore, ha recitato le maschere del potere e dell'impotenza d'Italia, i protagonisti della violenza, della mitezza paziente e delle zone torbide d'ambiguità, il bene, il male, la reticenza: come i veri grandi, la cui ambizione eroica e impossibile è sempre quella di rappresentare tutto. Uomo coraggioso e morale, ha fatto le sue scelte con coerenza senza rinunce nei momenti difficili, senza compromessi né viltà. È stato il più ideologico degli attori italiani: non per passione d'ideologia o perché fosse di sinistra o partecipasse a manifestazioni o si esibisse nel teatro di strada, ma perché ha voluto, cercato e spesso avuto ruoli forti significativi, personaggi da vivere e far vivere, non da indossare come vestiti. Con gli anni era diventato quasi bello (così magro, così elegante, così desolato), ed era molto simpatico. Oltre la timidezza scontrosa, la riservatezza riottosa, la fermezza pudica nell'astenersi dai riti banali e a volte scemi dello spettacolo, in certe piccole risate sussultanti o in certi scatti tempestosi riconoscevi l'uomo delle passioni: quello che andava in barca per mare durante intere giornate o settimane, che amava la politica, che amava le donne (dopo la separazione dalla prima moglie Tiziana Mischi, altre compagne o mogli erano state Carla Gravina, Armenia Balducci, Angelica Ippolito), che amava la vita e aveva saputo battersi da guerriero anche contro un tumore ai polmoni costatogli anni di sofferenza e d'assenza. Milanese, s'era diplomato all'Accademia d'arte drammatica nel 1957, aveva recitato in teatro (Fedra, Sacco e Vanzetti, Sogno d'una notte di mezza estate, Romeo e Giulietta, Zio Vanja) e alla televisione (Rogozin ne L'idiota, sceneggiato da Dostoevskij). Era arrivato al cinema nel 1960 in Sotto dieci bandiere di Duilio Coletti come ci arrivano gli attori di teatro: con diffidenza, per caso, per fare un po' di soldi. Invece era un destino. Ha portato sullo schermo uomini- chiave (Enrico Mattei, Aldo Moro, Ben Barka, Lucky Luciano) e figure cruciali della società (operaio settentrionale, contadino meridionale, militare, magistrato, comunista sotto il fascismo, sindacalista, poliziotto, criminale, leader politico, giornalista e direttore e proprietario di giornali). Ha lavorato per registi stranieri (Theo Anghelopulos con Lo sguardo di Ulisse era soltanto l'ultimo, prima c'erano stati Jean-Luc Godard, Miguel Littin, Claude Goretta, altri). Ha creato un'intesa straordinaria di reciproca necessità con alcuni dei migliori registi italiani: Elio Petri (A ciascuno il suo, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, La classe operaia va in paradiso, Todo Modo); Francesco Rosi (Uomini contro, Il caso Mattei, Lucky Luciano, Cristo si è fermato a Eboli); Paolo e Vittorio Taviani (Un uomo da bruciare, Sotto il segno dello Scorpione). Ma anche quando, agli inizi, compariva in Ercole alla conquista di Atlantide, oppure quando recitava ghignanti banditi sadici per Sergio Leone o rivoluzionari messicani per Damiano Damiani, a quei personaggi dava spessore, significati, una rilevanza non mestierante. Le lodi maggiori andavano alla sua versatilità, al camaleontismo perfezionista, alle impressionanti capacità di trasformarsi, all'abilità di cogliere somiglianze, al talento di diventare un altro, altri: ma chissà se erano tanto giuste. Gian Maria Volonté non imitava, non impersonava. La sua arte arrivava a svelare e restituire le caratteristiche anche più segrete d'una persona, a condensare d'un personaggio quell'essenza fatta pure di memoria, cultura, psicologia e funzione nella collettività. Vederlo recitare il poliziotto di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, l'operaio nevrotico de La classe operaia va in paradiso, il giudice ostinato di Porte aperte di Gianni Amelio, il professore testimone lucido e scorato di fatti intollerabili alludente a Leonardo Sciascia in Una storia semplice di Emidio Greco, voleva dire per gli spettatori comprendere meglio e in profondità quei ruoli sociali e anche l'Italia: non semplicemente aver assistito a uno spettacolo ma aver vissuto un'esperienza, e non dimenticarla. A Volonté piaceva andarsene per il mondo, anche per imprese imperfette come Tirano Banderas di José Luis Garcia Sanchez, storia ispano-cubana d'un dittatore latinoamericano, o come L'opera al nero di André Delvaux tratto dal romanzo di Marguerite Yourcenar o come Pestalozzi Berg di Peter van Gunten, cinebiografia svizzero-tedesca dell'educatore esemplare: "Amo girare per le culture, conoscere, dare il mio contributo soprattutto agli scambi europei". Aveva, come tanti, brutti periodi di depressione, ma tentava di combatterli con la razionalità: "Cerco di capire, di intuire le ragioni della mia depressione, di superarla se è possibile". Come tanti, provava il sentimento di vuoto e di solitudine di chi ha impegnato se stesso nelle speranze di cambiamento per ritrovarsi con il dubbio che tutto sia stato invano: "Ma disperato no, non sono. Resta sempre un terreno inesplorato dove la speranza può rinascere, e questo terreno può essere il domani".
--------------------------------------- Aldo Fittante (Film TV) Gian Maria Volonté aveva il volto scavato dal talento. Era un curioso, voleva sapere tutto. Ciò che stava davanti e ciò che rimaneva nascosto dietro, quello che si poteva dire e j mille misteri di un paese che non lo ha mai amato come meritava e che lui stesso contestava e rimetteva in discussione con la sua arte, ma anche con la sua militanza politica. È stato un caso unico, un caso raro. E infatti è stato il Caso Mattei e il Caso Moro, ha ridipinto le manie, i tic, i vezzi, le oscurità del potere dei più importanti personaggi dei dopoguerra, dai citati industriali e statisti (il leader della Dc addirittura due volte) ai direttori di giornale (seppur non citati espressamente, era Ottone in Sbatti il mostro in prima pagina ed era Scalfari in Tre colonne in cronaca), dai mafiosiillustri (Lucky Luciano) ai criminali che colpirono limmaginario popolare (il CavaIlero di Banditi a Milano). E, proprio perché così onnivoro di conoscenza, eccolo -parallelamente, contemporaneamente - nei panni dellispettore Moroni che indaga sulle rapine di Luciano Lutring (in Svegliati e uccidi), in quelli del primo poliziotto emancipato (Io ho paura), nel sindacalista (ispirato alla figura del socialista Salvatore Carnevale) che combatte la mafia, delloperaio che contrasta cottimizzando il padrone (nel mitico film di Petri), delluomo delle istituzioni che sfida e si beffa del potere dellaltrettanto epocale Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Non sono mai banali i personaggi scelti da Volonté: sono persone, siano grandi o piccole, che fanno la Storia, che procedono investigando, che tramano ribaltando i connotati, che non si arrendono, che non di rado pagano con la morte (come Bartolomeo Vanzetti), che con puntuale, tignosa caparbietà, ribadiscono i parametri democratici del vivere civile (come la straordinaria figura del giudice Di Francesco in Porte aperte, come il professore Franzò nello sciasciano Una storia semplice). Indimenticabile la sequenza di questultimo film diretto da Emidio Greco, quando Volonté riflette sul senso dei rraggionare, di far funzionare -come si dovrebbe sempre - il cervello e la propria coscienza. Vedere o rivedere le pellicole con Gian Maria Volonté significa ripercorrere la Storia, la nostra storia, la storia dItalia (anche Giordano Bruno, la Grande Guerra di Uomini contro, i fratelli Cervi, il Partito dAzione nel Terrorista, Le quattro giornate di Napoli, il fascismo che spediva in viaggio daffari intellettuali e trotzkisti in Cristo si è fennato a Eboli e Il sospetto) e non solo dItalia (il terrorismo basco di Ogro, le eresie della Bruges del 500 nellOpera al nero tratto dalla Yourcenar, il dittatore Santos Banderas nella sua ultima interpretazione). Riattraversandola con gli occhi di artista che consentiva agli spettatori comuni (ben prima della voyeuristica televisione contemporanea) di avvicinarsi a quel sapere, a quella conoscenza, di cui lui si faceva paladino e promotore finanche nella vita privata. Uomini e storie semplici appunto. E personaggi stanci e accadimenti complicatissimi che il cinema abitato da Gian Maria Volonté voleva, al contempo popolare e impegnato aiutato da una stagione irripetibile per il nostro cinema, affollato da registi che facevano i registi (e non gli autori), da sceneggiatori che scrivevano informandosi e vivendo il loro tempo (e non quello speso e filtrato, oggi, dallo psicanalista). Dimenticato presto (gli anni 80 e i primi 90 lo costrinsero allestero), premiato pochissimo, ricordato di rado, Gian Maria Volonté è stato, senza dubbio alcuno, il più grande attore italiano (e, per chi vi scrive, anche non italiano), il più poliedrico, il più duro, il più malleabile, il più fertile. Nessuno ha inciso come lui. Persino negli spaghetti-western ha lasciato il segno, con pseudonimo doc (John WelIs) che tanto faceva yankee negli anni in cui si pensava bisognasse esserlo, ghigno in grado di gareggiare con Kinski, e timbro di voce dagli echi lontani. Una vera, autentica, vulcanica forza di Volontà.
---------------------------------- Serena dArbela Gian Maria Volonté,
grande attore del cinema italiano, è scomparso
improvvisamente, in Grecia, mentre stava girando Lo
sguardo di Ulisse di Theo Anghelopoulos. La sua morte
suscita il rammarico di tutti coloro che hanno a cuore il
film dimpegno e di significato civile. E
ricordandolo non si potrà tacere una riflessione
sullottusità di chi soprattutto negli anni Ottanta
non ha voluto offrirgli occasioni adeguate. Gian Maria
Volonté è stato per il nostro schermo ben più di un
attore; è stato una fonte e un testimone dei travagli
degli anni dal 60 in poi delle aspirazioni sociali,
e delle loro radici, delle trame sotterranee che hanno
solcato e solcano la vita politica nazionale e
internazionale.
-------------------------------------------- Leonardo Jattarelli (Il Messaggero) Volontè, il
pensattore. Luomo del sociale,
lattivista politico prima che linterprete. Il
volto serio e non serioso prima che la maschera. Quel
volto di chi coscientemente decide di stare dietro un
obiettivo o su un palcoscenico «per una scelta
esistenziale: no alle forze conservatrici,
sì alle filosofie progressiste». Il ribelle a modo suo,
eternamente schivo, lanticonformista a costo di
tutto, lintellettuale per il quale ogni cosa è
politica «e il cinema apolitico è solo
uninvenzione del cattivo giornalismo». Gian Maria
Volontè, il 6 dicembre del 94 a 61 anni moriva a
Florina, in Grecia, sul set de Lo sguardo di Ulisse di
Theo Anghelopoulos. E oggi, a dieci anni dalla sua
scomparsa, oggi che non solo il mondo del cinema ma anche
tv e istituzioni universitarie gli tributano il giusto
omaggio, ci manca forse più di qualsiasi altro grande
attore italiano che dal dopoguerra abbia attraversato una
porzione di storia del nostro Paese.
------------------------------------------ Roberto Silvestri (Il Manifesto) Vale la pena rischiare
di morire girando un film? E se ti dirige Angelopoulos?
Gian Maria Volonté morì proprio sul set, durissimo,
faticosissimo, di Lo sguardo di Ulisse, nel `94. A
10 anni di distanza il monopolio satellitare Sky e il
comune di Roma (più Fandango, Ambra Jovinelli, Csc,
Achivio audiovisivo del movimento operaio e teatro
Ateneo) dedicano al più ribelle e mai riconciliato dei
grandi attori italiani del cinema, non solo italiano, una
serie di omaggi. Martedì alle 19.50 Sky Cinema Classics
presenta Indagine su un cittadino di nome Volonté,
documentario inedito di Andrea Bettinetti, con una sua
rara intervista tv, dell'ottobre '92, al programma
uruguayano Hablamos. E testimonianze, tra l'altro,
di Angelica Ippolito, Carlo Cecchi, Francesco Rosi,
Fabrizio Gifuni, della figlia Giovanna Gravina e del
cugino Franco Volonté. Verranno anche trasmessi, via
satellite, La classe operaia va in paradiso ('71)
di Elio Petri (martedì 7, ore 20.45); Sotto il segno
dello scorpione ('69) di Vittorio e Paolo Taviani
(martedì 14), Un uomo da bruciare ('62) di
Vittorio e Paolo Taviani (martedì 21) e Indagine su
un cittadino al di sopra di ogni sospetto ('70) di
Elio Petri (martedì 28). «Gian Maria Volonté - Lo
sguardo ribelle» è invece un libro di saggi e
testimonianze su Gian Maria Volonté (a cura di Franco
Montini e Piero Spila, edizione Fandango) e anche il
titolo dell'iniziativa romana che vuole ripercorrere,
approfondire e recuperare gli aspetti principali di una
carriera (teatrale, televisiva, cinematografica) e di un
lavoro politico esemplare, anche attraverso un dvd, un
convegno e un documentario. Per rimettere a fuoco temi e
problematiche rivoluzionarie, ancora necessarie nel
nostro sempre meno civile paese. Volonté è stato
infatti protagonista di primo piano nello scontro di
classe avvenuto negli anni Sessanta e Settanta in Italia,
sia dentro il sindacato attori e che affiancando il
movimento in film collettivi: Dedicato a Giuseppe
Pinelli, sull'assassinio dell'anarchico milanese, le
responsabilità del commissario Calabresi e la «strage
di stato»; La tenda in piazza (`70), sulla lotta
degli operai romani della Fatme, Reggio Calabria
sui moti neofascisti nel capoluogo calabrese.
-------------------------------- Gianni Rondolino A dieci anni dalla morte prematura (a 61 anni), la figura e l'opera di Gian Maria Volonté ci appaiono stranamente lontane, come di qualcosa di diverso, quasi di opposto, da quanto avviene oggi nel cinema italiano nel campo della recitazione, costruzione dei personaggi, interpretazione dei testi drammatici. Di diverso, o addirittura di opposto, perché Volonté, a differenza di molti attori (anche suoi contemporanei), sapeva dare ai personaggi che di volta in volta interpretava, in una serie di film di varia natura e genere, uno «spessore» che ne garantiva l'autenticità drammatica, la presenza schermica. Sapeva, in altre parole, calarsi nella parte, dopo averla attentamente studiata, non limitandosi a fornirle un volto, un corpo, una gestualità particolari, ma portandola a un alto livello di espressione, che spesso, quando il film non era del tutto riuscito, si imponeva per la sua forza originale, anche contro la struttura dello spettacolo, fuori del quadro di riferimento in cui era collocata. Valga per tutti l'ultimo suo film, «Tiranno Banderas» (1993) di Sanchez, tratto dall'omonimo romanzo di Ramon del Valle-Inclan. Un film mediocre, di scarsa rilevanza, che tuttavia rimane nella memoria proprio per la figura del protagonista, il tiranno Santos Banderas, a cui Volonté ha dato un proprio carattere inconfondibile, dopo averne studiato attentamente tutti gli aspetti pubblici e privati. Un personaggio che concluse quella galleria di figure reali o immaginarie che egli tratteggiò da par suo nella sua non breve carriera d'attore. Figure spesso emblematiche di una situazione storica o di un momento particolare della vita di relazione, quasi «scolpite» sullo schermo nella loro forza rappresentativa. Ma soprattutto figure diverse fra di loro, appartenenti a diversi contesti drammatici, protagoniste di film anch'essi diversi per genere e carattere, che ogni volta Volonté sapeva rendere vere. A cominciare dalla sua prima vera interpretazione cinematografica, quella del Salvatore di «Un uomo da bruciare» (1962) dei fratelli Taviani. Un film politico, di sinistra, come saranno molti altri da lui interpretati in quegli anni, in cui la sua azione a favore dei contadini sfruttati (ispirata a quella del sindacalista Salvatore Carnevale) si carica di una propria valenza paradigmatica. E saranno ancora i Taviani a fornirgli l'occasione di creare il personaggio di Renno in «Sotto il segno dello Scorpione» (1969). Ma intanto Volonté aveva dato vita a personaggi ben altrimenti sfaccettati, dal Renato del «Terrorista» di De Bosio al Ramon Rojo di «Per un pugno di dollari» di Leone, dal Teofilatto dell'«Armata Brancaleone» di Monicelli al Paolo Laurana di «A ciascuno il suo» di Petri, dall'Aldo dei «Sette fratelli Cervi» di Puccini al Cavallero di «Banditi a Milano» di Lizzani. Una versatilità addirittura camaleontica e quindi una galleria per molti versi straordinaria, per la varietà dei caratteri e dei risultati espressivi raggiunti. Galleria che si andò arricchendo, soprattutto nel corso degli Anni 70, con i personaggi dell'ispettore di polizia in «Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto» di Petri, del sottotenente Ottolenghi in «Uomini contro» di Rosi, del Bartolomeo Vanzetti in «Sacco e Vanzetti» di Montaldo, dell'operaio Lulù Massa in «La classe operaia va in Paradiso» di Petri, di Enrico Mattei nel «Caso Mattei» di Rosi, del direttore del giornale in «Sbatti il mostro in prima pagina» di Bellocchio, di Lucky Luciano nel film di Rosi, di Giordano Bruno in quello di Montaldo, di Emilio nel «Sospetto» di Maselli, del Presidente in «Todo modo» di Petri, di Carlo Levi in «Cristo si è fermato a Eboli» di Rosi, di Aldo Moro nel «Caso Moro» di Ferrara. E si potrebbe continuare, se l'elenco non fosse troppo lungo. Ma almeno un cenno meritano ancora le sue interpretazioni in «L'opera in nero» di Delvaux, in «Porte aperte» di Amelio, in «Una storia semplice» di Greco e soprattutto in «Morte di Mario Ricci» di Goretta, che gli valse il premio per la migliore interpretazione al Festival di Cannes del 1983.Insomma una carriera esemplare, per impegno artistico e civile, che forse non ha paragoni nel cinema italiano. Una carriera che la morte stroncò il 6 dicembre 1994, mentre Volonté stava lavorando con Anghelopulos a «Lo sguardo di Ulisse», che rimane la sua interpretazione incompiuta.
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