intervista allo scultore di ombre

MARIO MARTINELLI

di massimo d'andrea -

redazione namir www.namir.it

Parliamo con Mario Martinelli l’artista che fa incontrare la persona con la sua ombra.

-Da più di vent’anni ormai lavoro alla emancipazione dell’ombra e alla sua materializzazione.

A che scopo?

-Per rendere visibile, col linguaggio del mio tempo, la meraviglia che è l’uomo. All’epoca del socialforum di Firenze la città-museo era preoccupata per i possibili disordini, un giorno i giornali mostrarono un signore con un cappello di carta con la scritta: "rispettatemi sono un’opera d’arte". Più che mai svalutato e anonimo l’uomo d’oggi si sente marginale e inutile in città sempre più indifferenti. Io gli presento la sua ombra, una cosa a cui nessuno dà importanza e poi ne faccio un’opera d’arte plastica destinata alla città come erano le statue degli antichi greci.

I punti di riferimento di questo lavoro?

-Il poeta Rilke dice che il corpo si consuma svaporando.

L’ombra è la figurazione di questa continua, inarrestabile svaporazione del corpo. Quasi un dissanguamento. Ma a ben pensarci, l’ombra è molto di più. Essa assume il simbolo dell’essenza stessa dell’uomo, della sua coscienza.

Giorgio De Chirico, il padre di tutte le ombre moderne, diceva: " C’è più enigma nell’ombra di un uomo che cammina al sole che in tutte le religioni passate presenti e future".

De Chirico dipingeva scure ombre sulle piazze dopo averle svuotate della presenza degli uomini.

- Lui le dipingeva sulla tele. Grandi ombre lunghe e sinistre, che spiazzavano qualunque attesa, preconizzando tanti disastri che sarebbero accorsi, da Hiroscima a Cernobil.

Io ora le installo direttamente sui muri delle città, dappertutto dove mi chiamano, dove capita… un po’ come fanno i cani con la pipì, per marcarle di umano.

Ma come avviene questo?

-L’operazione avviene in due momenti diversi. Il primo, quello della scoperta, si ha con l’installazione interattiva Incontro con l’ombra.

Giro le città del mondo con un magico telo e un flash che vi soffia l’ombra dei passanti. La quale si ferma sul telo illuminato dal lampo emancipandosi dai movimenti del corpo e, sotto lo sguardo meravigliato dello spettatore, assumendo pian piano le sembianze di un altro da sé, di una gemella dell’anima. Un invito, in fondo, alla scoperta e al dialogo con sé, contro la solitudine.

Queste ombre svaporate dalla gente e fermate sul grande telo registrano la dolce indifferenza dell’attimo, affermano una pura volontà di esistenza e suggeriscono alla città un rapporto non massificato con l’uomo: il luogo diventa spesso un palcoscenico dove l’ombra ti invita a recitare fantastici giochi di ruolo.

Una digitale riprende la scena della scoperta della propria ombra emancipata e la consegna ad un sito web dal quale ognuno può scaricarla.

E le ombre in permanenza sui muri degli edifici?

-Questa è la seconda parte dell’operazione. Avviene quando davanti al telo c’è uno speciale reticolo metallico. Che, illuminato dal flash, resta pregno dell’ombra del passante. Se io ritaglio la rete lungo il profilo dell’ombra ottengo una figura in rete che ne è lo scrigno. Non solo immagine, ma icona. L’ombra-in-rete è monumento ad un attimo irripetibile della essudazione del corpo, la contiene come una reliquia e le dà visibilità per sempre.

Una specie di scultura grafica, quindi, abitata dall’ombra.

-O un graffito plastico leggero e trasparente che, come l’ombra, emergerà su un muro con grande forza evocativa. Io stesso a volte mi colgo a parlare con l’ombra-in-rete di mio padre che ho in casa.

Perché il ricorso a una rete metallica?

-E’ inatteso e sorprendente. Quando il graffito appare sul muro d’una città, magari grande come un palazzo, vedi soltanto l’ombra perché il reticolo vi si è sciolto, un po’ come la capsula ingoiata che si scioglie per liberare la medicina contenuta.

Mi serviva un materiale che non sostituisse l’ombra per rappresentarla, ma in qualche modo la contenesse e si mettesse da parte per mostrarla. La rete è una materia-metafora del mondo. E’ fatta di vuoto più che di pieno, e nel vuoto si annida la maggior parte di realtà (in un millimetro cubo possono entrare 10.000 miliardi di miliardi di atomi. Ma il nucleo è 10.000 volte più piccolo dell’atomo, che è pressoché vuoto. Più vuoto che se il nucleo fosse il sole e l’elettrone fosse la terra nella sua orbita).

Nelle ombre-in-rete quello che conta non è la maglia metallica, ma l’ombra invisibile che le ha dato forma e che la abita così come nella sua armatura abita il calviniano Cavaliere Inesistente.

Il vuoto tra le maglie metalliche chiede di essere riempito dalla percezione, dalla memoria, dalla immaginazione dello spettatore che finisce così, con l’essere un po’ spettatore di sé stesso. E’ Un guardare che diventa un silenzioso colloquio, un prezioso intervallo, tra l’esterno e l’interno di sé.

Viviamo in un mondo fatto di immagini, le ombre-in-rete sono immagini no-logo che inviano direttamente e unicamente all’uomo, dando alle città, si può dire? un supplemento d’anima.

Qualche ombra d’affezione?

- "Il volto del grattacielo" progettato per il concorso per il grattacielo dell’INAIL a Roma di Gino Valle e scelto dall’ architetto stesso col quale è poi nata una bella amicizia. E’ l’ombra-in-rete di un volto pensoso, quello di Duchamp, che compare e scompare sull’edificio secondo le condizioni meteorologiche, come una visione ammonitrice.

Poi la grande ombra del David, portata a Toronto nel 5° centenario della statua di Michelangelo su incarico di una galleria che costituì un comitato per importare dall’Italia un po’ d’anima e fare piazza (ancora De Chirico) nella moderna città tecnologica.

Infine il progetto, in corso, per l’Unesco che vuole celebrare l’anno dell’infanzia: le ombre di due bimbi che fanno l’altalena emergono immense e silenziose sulle pareti degli edifici che fanno da sfondo alla giocosa fontana di Tinguely, a Parigi, accanto al Centre Pompidou.

Un lavoro, quindi, costantemente rivolto all’uomo.

-E’ vero. Anche il lavoro precedente quello degli stessuti, le grandi tele o gli oggetti fatti con il trash, gli scarti della lavorazione del tessile che allora forzava il Nordest ad un drammatico cambiamento, registrava ora la pena della gente stremata ai telai, ora la riflessione ironica su un momento storico importante.

In fondo tutto il mio lavoro si sviluppa sullo scacco alla superficie su cui l'eccesso di luce impedisce di vedere gran parte della realtà, e sul recupero dell'ombra, dato che la luce può anche essere solo la differenza tra due diversi gradi di oscurità.