Intervista al grafico pittore - Stefano Momentè

Di Massimo D’Andrea

Allora oggi parliamo con Stefano Momentè. Un gran lavoro il suo… Lei è veneziano, se non sbaglio.

Sì, di Jesolo, vicino a Venezia.

La base, insomma, di un mio professore, Emilio Vedova,…

Ahimé, mancato da poco.

…al quale siamo tutti legati, io anche per questioni pittoriche, professionali. Ho avuto la fortuna di averlo come insegnante. Credo che in tutti i lavori che circolano in quella terra chiamata Venezia ci sia un po’ anche la sua storia.Come nascono i suoi lavori, Momentè?

I miei lavori nascono da lontano. Nel senso che ho cominciato molto giovane, poi ho interrotto, per vari motivi. Perché sono sempre stato interessato a molte cose. Però non ho mai smesso di dedicarmi all’arte e alla creatività. Ho ripreso alcuni anni fa in maniera più costante, più che altro per farne un percorso spirituale.

Come, un “percorso spirituale”?

Perché ho iniziato facendo una ricerca di un certo tipo, tra Oriente e Occidente, un percorso verso l’interno, una cosa un po’ complessa da spiegare. Un’arte un po’ meno basata sull’estetica e un po’ più sulla ricerca.

E ci voleva il “percorso spirituale” per poterla fare?

Per me sì…

Senta, lei inizia come informale?

No, inizio come figurativo.

E come arriva all’informale? Questo informale che contiene ancora tracce di figurativo…

Lo lascio e lo riprendo. Io non abbandono mai, in definitiva, la figura. Ma il percorso è quello seguito da molti: si parte dalla figura e poi la si distrugge, mantenendola ad un altro livello.

Come mai fa questo lavoro?

Per andare oltre le apparenze.

I suoi studi nell’arte quali sono stati?

Non ci sono stati studi specifici. Non ho fatto l’Accademia, non ho fatto l’Istituto d’Arte, ma ho sempre disegnato e colorato fin da piccolo. Diciamo che i miei studi hanno comunque un’affinità con l’arte, perché sono anche un grafico pubblicitario.

Quali sono i maestri, i pittori, che l’hanno maggiormente coinvolta, le hanno lasciato un segno, che lei può ritenere i padri della Storia dell’Arte?

In Italia ce ne sono molti. Dall’arte classica, che ha lasciato, ad esempio, qualcosa di importante in merito alla costruzione armonica delle opere, con la Sezione Aurea e tutto quello che ne consegue. Regole che sarebbe importante che tutti gli artisti conoscessero.

Ma che l’hanno maggiormente ispirata? Ognuno di noi ha alcuni pittori di preferenza…

Sì, ne ho, sono molto più recenti. A me piace Vedova, adoro Celiberti e Tapiés. Se poi passiamo alla Scuola Romana amo moltissimo alcuni lavori di Schifano. Soprattutto un certo periodo di Schifano, la sua gestualità e la sua forza, che è molto simile per certi versi – pur nella diversità – a quella di Vedova.

Certo, anche se poi in Vedova non si trovava neanche un po’ di figurativo.

Sì, assolutamente.

Era l’istinto allo stato puro

Sì infatti, lo era. E poi inVedova c’era la forza..

C’era forza, c’era vitalità, ma c’era anche molto molto sociale. Mentre in Schifano c’è spesso il ritorno ad un pensiero figurativo e il sociale non è determinante. Sembrano simili ma sono completamente diversi.

Sono d’accordo. Diciamo che io, nell’andare e venire, nello spostarmi continuamente, assomiglio a Schifano, ma solo in quello.

Senta, perché c’è questa assenza nei quadri contemporanei della Società contemporanea? Non ce lo aspettavamo dopo l’11 settembre 2001, che ha determinato realmente un cambiamento mondiale, Come mai tutto questo manca, non nei suoi quadri, ma nei quadri dei pittori in generale?

Lei intende soprattutto nelle opere di successo?

Guardi, anche in questo viaggio periferico che stiamo facendo, tra gli artisti – diciamo - fuori dal giro, manca questa scoperta della società, che prima invece era determinante in tantissime opere, ricordiamoci l’espressionismo.

Non credo sia sparito del tutto. Conosco alcuni artisti, tra l’altro di questa terra, che continuano a riferirsi al sociale. Pierluigi De Lutti ad esempio, che con le sue “Doppie ferite” ha ottenuto un grandissimo successo a livello commerciale. Questo delle “Doppie ferite” è un chiaro riferimento alle Torri Gemelle. Tra l’altro sono anche esposte al MOMA di New York. Io ritengo però che chi ha approfittato di questo - non mi riferisco a De Lutti -, di situazioni come la tragedia dell’11 settembre intendo, non è riuscito a farlo come si doveva. Sono cioè un po’ caduti nella banalità. Io amo cercare di andare oltre, non dico di riuscirci, cerco però di fare in modo che le mie opere colpiscano anche a livello subliminale, inserendo cifre, lettere e simboli. Forse l’unica opera che si riferisce al sociale, alla situazione attuale, è un’opera che ho appena concluso e non c’è nel materiale che avete visto. Si intitola, tradotto in italiano: Chi ha paura dell’uomo nero?, ed è un’opera tra il figurativo e l’informale. Rappresenta un talebano che ti guarda dritto negli occhi, ma con un abito molto informale. “Chi ha paura dell’uomo nero?”, significa che la persona raffigurata è sì un talebano ma potrebbe essere chiunque vestito di nero che ti guarda storto e ti fa paura solo per come si presenta. Invita cioè ad andare oltre.

Dietro all’uomo nero c’era poi la paura che ci mettevano da piccini quando ci dicevano: Guarda che arriva l’Uomo Nero!

Sì, il riferimento del titolo è a quello. Ma invita ad andare oltre.

Credo che questo suo riferimento sia abbastanza logico, perché c’è una società che cerca sempre di trovare qualcuno per metterti paura, annichilirti, non farti pensare. Ottimo lavoro, anche se spero non sia totalmente figurativo…

La considero più un’opera concettuale, se vogliamo restare nelle etichette, anche perché è difficile restare completamente all’interno di una categoria. È l’elaborazione di un concetto e in quel momento ho sentito di doverlo realizzare in quel modo.

Senta, gli artisti hanno bisogno dei critici?

Ne hanno bisogno per accrescere l’amor proprio e andare avanti. Di critici che parlino bene, intendo. Chi viene a vedere i tuoi lavori e ne parla in un certo modo ti aiuta a migliorarti…

Quelle sono critiche, io invece parlavo di critici. Gli artisti ne hanno bisogno? Oppure sono i critici ad aver bisogno degli artisti?

Gli artisti non hanno bisogno dei critici, hanno bisogno di stimoli per la loro arte, di trovarli dentro di sé.

Quali sono i suoi rapporti con le gallerie?

Sono minimi. Io faccio un altro lavoro, artisticamente produco cose davvero poco commerciali. Però mi piace la ricerca e in questo modo riesco a fare quello che mi piace.

È strano sentirle dire poco commerciale.Vent’anni fa la sua arte sarebbe stata molto più comprensibile. Però ci siamo arenati lì. Sì, ogni tanto qualcuno ci prova ma non riesce a fare qualcosa di nuovo. Perché secondo lei c’è questa incapacità di andare oltre?

Secondo me l’innovazione c’è ancora. Nei materiali, nelle tecniche. È ciò che piace anche a me.

Perché diceva che la sua arte non è commerciale?

Non è immediata. Mi hanno sempre detto che non è facile da capire.

A Venezia?

Anche altrove.

Ma a Venezia c’è Vedova! Non possono essere difficili i suoi lavori se si sono compresi quelli di Vedova. Diciamo che c’è piuttosto un sistema che sta tentando di bloccare qualsiasi idea contraria ad una regola che dev’essere generalizzata.

Noi sappiamo che le gallerie che dettano legge in Italia sono tre o quattro. E le altre seguono la scia. A meno che non vengano a chiederti soldi per partecipare ad una qualche esposizione presso di loro. In quel caso va bene tutto. Ma io non ci sto.

Così come fanno le collettive no?

Esattamente.

L’idiozia che regna in questa situazione sottoculturale è vergnognosa.

Si autoalimenta. È un po’ come le vendite multilivello.

C’è una sua opera prediletta?

Ce ne sono diverse alle quali sono affezionato, dei diversi periodi. Andando a ritroso. Delle lastre, che lei forse ha visto, la prima, Pesach, Passaggio, che è stata la prima del ciclo.

Che a noi ci ha molto colpito. Ce l’ha lei quella?

Sì, l’ho ancora io.

Senta, alcune sono senza titolo però?

No, per me il titolo è fondamentale. È parte integrante dell’opera. Le mie opere hanno tutte il titolo. Un’altra che prediligo è Novo Liber Abbaci, perché sento che mi rappresenta, ha i miei colori, le mie cifre, il mio sguardo. È qualcosa che sento molto.

Tornando al suo viaggio mistico, rapporti con la religione ce ne sono?

Diciamo con la spiritualità. Cerco sempre di viaggiare dentro di me, perché in questo modo porto anche all’esterno ciò che riesco a ricavare. Sono molto vicino alle religioni orientali più che alle nostre. Se dovessi riferirmi alla religione cristiana, diciamo che sono più prossimo a quella delle origini che non a quella attuale. Io ritengo che ci sia un Principio al quale tendiamo e dobbiamo tendere. Questo è il mio rapporto con la religione, con la spiritualità.

Tra i tanti suoi quadri ce n’è uno dedicato ad Andy Warhol, come mai?

Non gli è dedicato, utilizza anche un immagine di Andy Warhol. Il titolo è: Scuotendo al sole i miei bianchi capelli. In quell’opera c’è Warhol, ma c’è anche Che Guevara, c’è un’immagine orientale e un mio vecchio lavoro astratto. Le mie opere nascono da un assieme di memorie, di pensieri di riflessioni. Utilizzo le immagini a seconda dei momenti.

La spiritualità e la sessualità come legano? Vedo che in alcune sue opere ci sono donne con il seno nudo…

Non c’è nulla di male, non sono in antitesi. La sessualità fa parte dell’uomo, proprio come la spiritualità. Tornando alle mie opere preferite e alle indagini sociali, ce n’è un’altra del mio periodo delle lastre che accenna al mio essere vegan. Il titolo è: Non c’è vittoria senza compassione. È quella con le tre nike e la mucca.

Essere vegan salverebbe milioni e milioni di animali…

Anche di persone.

Per concludere questa bella intervista, cosa pensa di lasciare alle generazioni future, anche se lei è molto giovane…

Due figli li ho anch’io…

Cosa pensa di lasciare loro. E ancora: perché questa società ha bisogno del diverso?

La società ha bisogno del diverso perché solo nella diversità si può crescere.

Vogliamo ricordare che la natura non ha fatto una foglia uguale all’altra?

Infatti…

Cosa spera di lasciare?

Qualcosa di buono. Che sia un’opera, un insegnamento, che possa servire a crescere nella maniera giusta. Lavoro per questo, per non essere qui solo di passaggio.

I suoi figli sono vegetariani?

Per obbligo o per scelta?

Nemmo io ho potuto scegliere. Sono nato in una famiglia onnivora e ho dovuto mangiare carne. Loro sono nati in una famiglia vegetariana.... Se i miei insegnamenti sono corretti, se capiranno, come pare stiano facendo, soprattutto le motivazioni, da adulti manterranno la scelta.

Non è vero che siamo per forza onnivori…

No, assolutamente. Onnivoro significa che si può mangiare di tutto, non che si deve.

È una scelta che rispetta le diversità. Mentre c’è una società, un sistema, che cerca di imporre una regola generale.