intervista al fotografo ROBERTO SANCHEZ

di massimo d'andrea

Roberto Sanchez , un fotografo, io direi stranissimo. Lei costruisce oggetti in piccolo e poi li rifotografa creando questa fotografia ‘surrealista’, giusto?

Si, come un piccolo teatro in cui muovo gli oggetto come fossero personaggi, e ogni oggetto è caricato di significati che cambiano in funzione delle relazioni tra gli stessi. Tra i vari elementi ci sono anche i miei quadri perché io nasco pittore. I miei quadri compaiono come il monolite di Kubrik, una specie di presenza, anche attiva, che interagisce nel contesto. In questo spazio teatrale ogni oggetto significante si relaziona agli altri in uno schema che, seppure da me preordinato, permette allo spettatore, al fruitore, l’ interpretazione della rappresentazione in modo diverso, come un rebus a soluzione multipla."

Certo, la cosa che ci coinvolge è il fatto che siano fotografie tipicamente surrealiste, o sbaglio?

Diciamo... Ma c’è anche la realtà in molte di queste, non in presa diretta come nella foto tradizionale, ma seppure mediata la realtà irrompe anche se l’atmosfera è onirica. E’ presente anche la vita vissuta, la rappresentazioni dei luoghi in cui esprimo le mie esperienze, le mie inquietudini.

Quindi lei fa anche dei modellini, tutto…

Si, io sono un vecchio appassionato di modellismo, la manualità che ho acquisito l’utilizzo nella costruzione di questi spazi ambigui: cose che dovrebbero essere piccole sono grandi e viceversa.

Esatto, è a questo mi riferivo con surrealismo.

E poi non utilizzo granchè il digitale. Nel senso che l’apparato di ripresa è digitale però non ho inserito effetti particolarmente sofisticati. Tutto è in presa diretta, la luce è naturale perché altrimenti risulta fredda, strana.

Quindi lei illumina queste scene, no?

Si,si, come nel teatro: ci sono degli spot, dei faretti e raramente intervengo col digitale. La fotografia,c ome si sa, è luce. L’illuminazione può rendere drammatica o meno una scena, può mettere l’accento su qualcosa ed in ombra un’altra…

Volevo sapere cosa la spinge a realizzare un’opera.

Come ho già detto, nasco pittore, per decenni ho portato avanti una pittura astratta a piani geometrici ma calda. Ad un dato momento è sorta l’esigenza di esprimermi in maniera più ampia, anche recuperando la pittura, ma rifotografandola in un rapporto passato-presente. La fotografia mi permette di esplorare la figurazione senza entrare in immediata contraddizione col mio passato di ricerca pittorica: una nuova avventura con un mezzo diverso. "

Lei ha fatto esposizioni con questi lavori?

Si, qui a Napoli al Museo Minimo di Fuorigrotta, al Garage n°3 Gallery di Mestre,ancora a Napoli all’Ipogeo dell’Annunziata che è uno spazio del comune. In oltre ho partecipato ad Artissima a Torino con lo stand del PAN di Napoli che poi ha acquisito un’opera per il suo centro di documentazione.

Quanto tempo ci mette per realizzare una scena?

Devo costruirla piano piano: inizio con uno schizzo e poi vado a costruirla col cartoncino; cerco le immagini di fondo che mi servono, miniaturizzo degli elementi in special modo i quadri, divento una sorta di cercarobe. Se mi serve una clessidra devo vedere dove recuperare questo oggetto, animali impagliati e via così. Fino a costruire l’ambiente che avevo in mente mediando comunque con gli elementi reali che ho trovato.

Le volevo chiedere: quale rapporto ha con i critici, quale pensa dovrebbe essere quello giusto?

Màh, si sa che recentemente il critico tende ad essere protagonista, Bonito Oliva docet, ed anche i piccoli critici locali hanno imitato questa impostazione. Su questo mi sono spesso trovato in conflitto mentre potrebbe essere molto più proficuo un rapporto di collaborazione che pure ho sperimentato. Il critico infatti fa da specchio rendendo visibili all’artista cose che lui non nota, preso comè dal suo ego. Migliora e accompagna il rapporto col pubblico.

Dovrebbero fare comunque un lavoro di collaborazione col pittore.

Si, anche se ci troviamo in un periodo di crisi permanente, si bruciano continuamente le tappe mentre una volta l’evoluzione era più lenta. Una rincorsa ai ritmi consumistici :ripetizioni o la ricerca della trovata per la trovata. Da Duschamp in poi non ci sono state novità enormi.

Tra gli artisti contemporanei non manca la voglia e il desiderio di poter comunicare e voler comunicare quello che accade socialmente. Anche lei fa un tipo di arte molto interessante, però non ci sono evidenti contenuti sociali: non c’è la guerra, non ci sono gli scioperi, le contestazioni, l’economia, la politica. Sono opere molto riflessive, se vuole ,ma perché c’è questo distacco dalla realtà?

Sono d’accordo fino ad un certo punto. C’è una mia opera, per esempio, dal titolo’La dismissione’. Fa riferimento alla fabbrica dell’Italsider di Bagnoli, a quel mondo operaio che ho vissuto tramite dei parenti che vi hanno lavorato e da piccolo ho vissuto nelle immediate vicinanze. A sinistra dell’immagine si vede una grande clessidra che rappresenta il tempo scaduto per un’epoca, con tutti i chiaroscuri; al centro sul fondo uno squarcio sulla fabbrica .Un luogo non-luogo: non è più un’area produttiva né il luogo ameno di una volta. Un momento di vuoto…C’è anche questa croce a destra che ricorda il sacrificio del lavoro, per dare un futuro anche ai figli, ma anche il distacco…Il territorio, non dimentichiamo, era spaventoso: le case erano tutte dello stesso color ruggine. Non vi è nostalgia per chi guarda ecologicamente il problema, ma che almeno il territorio prenda la via di un riassetto, di una funzione. La sfera nera al centro per me rappresenta il futuro ancora misterioso. In un altro lavoro che ho realizzato per il bicentenario di Garibaldi, per esempio, ho posto l’accento sulle navi che si sono riempite di emigranti dopo l’unità. Diciamo che non è il manifesto politico, che tanti anni fa li ho fatti pure…

Il problema è che, a parte qualche piccola cosa, il resto è molto suggestivo, molto emozionale…ma questo non capita soltanto a lei, capita ormai a tantissimi artisti e appunto volevamo comprendere perché c’è questo taglio dal contesto sociale.

Io appartengo a quella generazione, parlo del fine anni sessanta- inizio settanta, che ha consumato le scarpe nelle manifestazioni. Allora c’era ad esempio la guerra del Vietnam ma mi sono accorto che la critica o si pone a trecentosessanta gradi…Ricordo che né io né i miei amici abbiamo marciato contro i massacri di Pol pot o contro i gulag…

Bisognava farlo…quello non era mica comunismo!

Dove i diritti dell’uomo sono calpestati, prescindendo dalle ideologie, poi si tirano le somme di dove esiste una maggiore oppressione…

Si ,si, ma non ne facevo una questione di destra o sinistra, ma una questione di impegno

C’è sempre la paura o il pericolo, almeno nella mia esperienza, di non essere esaustivo nell’analisi e quindi nel riproporre attraverso il proprio lavoro una visione del presente chiara: non ci riesce lo storico, ancor meno il giornalista. Si può stare in una zona non a ridosso del contingente ma a contatto con i valori di sempre. Per esempio nelle mie opere traspare un horror vaqui del senso, tutti e non da ora si domandano se la nostra realtà, la nostra vita, ha un senso o meno…

Lei quindi dice di affrontare temi molto più ampi…

Anche se questo non vuol dire che i problemi del presente non possano avere in sé un valore universale, dipende anche dalla nostra capacità di interpretare.

Per concludere volevo sapere…ne abbiamo discusso fino adesso, però ce lo dica adesso chiaramente, quale messaggio intende comunque lasciare, attraverso queste immagini fotografiche, alle nuove generazioni e, soprattutto mi dovrebbe dire in poche parole perché questa società evita le diversità, quindi anche gli artisti, quindi tutto quello che appare strano.

Io vivo una realtà provinciale, quella napoletana…

Bè, quella napoletana provinciale, voglio dire! Eduardo de Filippo…!

Adesso c’è uno sforzo col Madre, col Pan, il tentativo di inserire l’arte nel quotidiano; ma siamo ancora ad uno slancio iniziale. Posseggo infatti un piccolo spazio, appunto il Museo Minimo, in cui accolgo giovani , con un sito web teso a dare visibilità alle iniziative. Accolgo anche meno giovani che non hanno avuto spazi adeguati, in sostanza a tutt’oggi a Napoli si vive una situazione che anni fa è stata sintetizzata da Lea Vergine così:’Napoli lazzaretto d’ingegni’. Tanti artisti, tanta voglia ma in un contesto poco coinvolto, con problemi di visibilità, di committenza, poche gallerie disposte a rischiare…Gallerie anche storiche che non riescono a coinvolgere i media…Ma la committenza è un grosso problema se non ci si proietta a livello nazionale ed internazionale, qui la situazione è asfittica. Se l’artista non supera una certa soglia ha dei problemi notevoli ,non parliamo di quelli over cinquanta che spesso attaccano il pennello al chiodo.

Per quanto riguarda il messaggio che intende lasciare?"

Forse sono ripetitivo…cercare il senso delle cose. Spesso nelle mie immagini compaiono i dadi o il giochino dei numeri ad incastro…non esiste il caso ma neanche un preordinamento assoluto, come se tutto fosse già scritto. E’ tutta una dinamica di relazioni, di incontri, di fatti piccoli e grandi;’ come in alto così in basso’ dicevano gli alchimisti. Una rete in cui anche la casualità rientra in un flusso. Cerco, in primis con me stesso, di fugare l’angoscia del vuoto. Ed ai giovani, che spesso hanno timore della vita e che vedo mancare spesso di forti riferimenti - per la mia generazione erano la politica, l’impegno- di ricercare cose nuove, oppure di rinnovare quelle considerate vecchie se sono valide veramente".

Con questo messaggio finale in cui si spronano i giovani a fare una ricerca non solo del senso ma del progetto ricerca, se quegli oggetti, persone, idee che abbiamo avuto fino ad oggi sono ormai considerate passate bisogna proporre altro."