LUANA - PINTOR sul manifesto, fa una bella critica all'uomo GIANNI AGNELLI, io avrei anche ricordato quel bel lancio DI ROMITI, che ci rimane sul groppone, colui che automatizzo' le fabbriche licenziando migliaia di operai. E' VERO AGNELLI ha fatto tutto quello che ricorda LUIGI in questo articolo, e forse anche peggio, il problema pero', ritorno a monte, che ora ci sono - IL FONDO - e per combatterli ci stava pensando SUA PERSONA IN STILE, cosa faranno e penseranno gli operai del SUD per quello che li attende ?.

caro PINTOR, non credo stiano tanto a badare per il sottile, devono mangiare e la cordata BERLUSCONI FRATELLO DI AGNELLI, non la vede di buon occhio nessuno, ne tanto meno LA GENERALMOTOR.

DA - IL MANIFESTO.

Fiat
LUIGI PINTOR


Molti gareggeranno nel tessere l'elogio funebre di Gianni Agnelli e nel rendergli onore in morte come gli hanno tributato adulazione in vita. Era un uomo potente, per privilegio di nascita o forse anche per sua virtù, che ha influenzato il destino di tante persone e di un intero paese ed è naturale che sia celebrato. Ma meglio sarebbe se fosse semplicemente rispettato come qualsiasi persona che finisce di vivere. Il rispetto non è ricevere l'estrema unzione da un cardinale in conformità alle gerarchie e non è una riunione familiare che due ore dopo formalizza la successione. Personalmente preferirei di no.

Quest'uomo che tutti conosciamo da decenni, come modello positivo o negativo, ha avuto una vita invidiabile secondo i valori correnti ma una morte tragica. Così almeno ci appare, per la perfetta e quasi beffarda coincidenza tra la fine della persona e il crollo della sua opera, della «creatura produttiva» in cui ha identificato la propria esistenza.

Che fallimento, che fallimento, chissà se nelle ultime ore ha pensato in questi termini e mormorato queste parole come capita facilmente quando si tirano le somme. Probabilmente no, è sempre stato o almeno è sempre apparso molto sicuro di sé anche di fronte a vicende sfortunate. O forse sì, perché per un grande proprietario dev'essere amaro non lasciare una degna eredità.

La Fiat non era un bene patrimoniale ma il lavoro vivo di milioni di uomini e donne che ora finisce in un buco nero, al nord e al sud, dentro e fuori i confini nazionali. L'auto non era una merce ma un idolo e una filosofia che ora è in rottamazione. La Fiat era il capitalismo familiare italiano, che non vuol dire buono e affettuoso e che ora è all'asta. Era anche un governo ombra, un regime nei regimi, ora detronizzato e sottomesso a una repubblica delle banane.

In eredità ci lascia le autostrade, grandioso monumento funebre, il traffico urbano e lo smog, uno sviluppo che ci inorgoglisce ma di cui non si può dare a Gianni Agnelli né il merito né la colpa. Ha fatto la sua parte, come si dice, ma al massimo è stato il simbolo di una storia, un simbolo «signorile» che i successori faranno magari rimpiangere.

Dunque una bella vita e una tragica morte, una caduta degli dei, che ridà spazio a umane considerazioni. Anche per il fatto che non ci piacciono in generale i grandi uomini o i reputati tali non ci sentiamo «percossi e attoniti» per la scomparsa del principale azionista di una grande fabbrica ma lo vediamo un po' più piccolo e perciò più umano.

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LUANA - melanconica intervista.... ma interessante, sul finale non sono d'accordo, LA FIAT e' mancata in - modelli - insomma e' stata fuori dai tempi e tutta troppo italiana.... e questo lo voleva AGNELLI.

DA - IL MANIFESTO

«Lui almeno sapeva cosa è un'auto»
Parla Luciano Gallino. Agnelli? L'ultimo imprenditore «competente». «I nuovi fanno solo alchimie di bilancio»
MANUELA CARTOSIO
Con Gianni Agnelli scompare «l'ultimo imprenditore elegante». E «competente», aggiunge il sociolgo torinese Luciano Gallino, «lui almeno sapeva cos'è e come si fa un'automobile».

L'eleganza non gli costava fatica; solo chi non deve applicarsi a costruirsi uno stile, ce l'ha davvero. Ma imprenditore Gianni Agnelli lo è stato per obbligo dinastico o per intima vocazione? Lo spleen, la noia del vivere che secondo alcuni l'avvocato aveva in dosi massicce, indurrebbe a pensare che fare l'imprenditore gli è costato uno sforzo.

Secondo me, invece, ci credeva proprio. Almeno per una parte della sua vita il mestiere d'imprenditore penso l'abbia fatto con convinzione, pur avendo molti altri interessi.

La morte è arrivata un'ora prima della riunione di famiglia che ha sancito l'investitura del cadetto che da una vita si sentiva schiacciato dal fratello maggiore. Un perfetto incrocio di Shakespeare e di Dinasty.

La combinazione dei due eventi è in parte fortuita, la malattia durava da tempo e la morte non è stata un fulmine a ciel sereno. In effetti, però, la concomitanza sembra il segno di un doppio destino, personale e aziendale.

Dentro questa complicata famiglia, strabordante e senza eredi, Gianni Agnelli a suo parere era «il difensore dell'automobile».

Sono convinto che se Gianni Agnelli avesse avuto ancora le redini in mano, la Fiat non si sarebbe ridotta in questa crisi nera.

L'errore fatale che lei imputa alla Fiat - aver abbandonato il baricentro dell'auto per buttarsi nella finanza, nell'editoria, nell'energia - risale almeno a dieci anni fa. E' stato commesso con l'avvocato ancora al potere.

La crisi della Fiat non data da oggi. Già Romiti, arrivando a Torino, disse che la situazione era molto critica. Quella però era una crisi congiunturale e fu superata nel modo che sappiamo. Quella attuale è una crisi di fondo. Tutto il settore auto è in sofferenza per la sovraproduzione. La Fiat soffre più delle case concorrenti perché, diversificandosi, ha trascurato l'auto. La diversificazione non era certo ignota a Gianni Agnelli che, quindi, ne porta la responsabilità. Solo i verbali delle riunioni del Cda potrebbero dirci se fu messo in minoranza da chi riteneva che globalizzare significava portare la Fiat fuori dall'auto. Fossi un banchiere svizzero, francese o tedesco, non investirei nemmeno un euro in una Fiat che persevera nell'errore.

La morte dell'avvocato «libera» la sinistra, il lavoro, dal rapporto di odio-amore con il padrone per antonomasia, con la personificazione del capitale. Era successo già tutto da un pezzo, ma con Agnelli finisce davvero il fordismo, il torinesismo gramsciano della classe operaia.

E' un sigillo tombale apposto a una storia chiusa e irripetibile.

Qualcuno sostiene che per Torino è come se fosse morto il re. Troppa enfasi?

In una certa misura Torino aveva già metabolizzato la morte del patriarca. Quanto metabolizzerà la crisi della Fiat, le cui conseguenze devono ancora dispiegarsi per intero, è tutto da vedere. La scomparsa di Gianni Agnelli tocca un certo numero di persone che lo sentivano come una presenza ingombrante, ma gli riconoscevano un ruolo.

Che padrone è stato Gianni Agnelli?

Un padrone duro che ha lasciato mano libera anche a chi la mano l'aveva pesante. Mi riferisco a Romiti, perché il vallettismo non può essere messo sul conto dell'avvocato. Molti sindacalisti riconoscono che era un buon avversarsio, a suo modo leale e per di più competente nel suo ramo. Sapeva cos'è un'automobile e come si produce. Oggi si è costretti a trattare con manager che non sanno di cosa stanno parlando. Per quanto riguarda i vertici della Confindustria, c'è un abisso tra un Agnelli e un D'Amato.

A un torinese come lei che effetto fa un Gnutti che vuol mettere le mani sulla Fiat?

Mi fa rizzare i capelli in testa. Non perché è di Brescia, ma perché ciascuno dovrebbe fare il suo mestiere. Nelle cordate in lizza non ce n'è uno che sappia fare le automobili. La crisi Fiat viene affrontata solo sul versante finanziario. Certo, ci sono i debiti. Ma li si paga facendo auto che si vendono, non con alchimie societarie e di bilancio. La promozione di Barberis è stata una buona cosa. La Fiat ha bisogno come il pane di manager competenti. Se non li trovano in Italia, li facciano venire dall'estero.

E' favorevole a un intervento dello Stato nella Fiat?

L'intervento giusto sarebbe avere una politica industriale. L'Italia non ce l'ha da trent'anni e non s'improvvisa in un mese. Potevamo decidere d'uscire dall'auto. Non l'abbiamo fatto, abbiamo dato soldi a fondo perduto alla Fiat e ci ritroviamo con l'auto come unico pezzo di industria rimasto, per di più in queste condizioni.

Un'eventuale uscita della famiglia Agnelli da Fiat auto che conseguenze avrà?

Se usciranno lasciando in Fiat auto somme consistenti per rilanciarla, la cosa sarà sopportabile. Se invece usciranno portandosi dietro l'intero malloppo e chiudendo la porta, sarà un guaio persino sotto il profilo della psicologia delle masse. Se non si fidano loro, perché la gente dovrebbe fidarsi a comprare un'auto Fiat?

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LUANA - e' un dialogo storico, non potevo non inserire BOBBIO.

DA - IL CORRIERE DELLA SERA.

«Veniva a trovarmi per chiacchierare, mi mancherà»
IL RICORDO DI BOBBIO

TORINO - Norberto Bobbio piange Giovanni Agnelli, piange il suo amico e il «gentiluomo torinese». «La morte dell’Avvocato Agnelli - dice Bobbio - è per me un grande dolore, perché era una persona che conoscevo da tanti anni. Da piemontesi purosangue ci sentivamo particolarmente vicini e ci capivamo». Il filosofo rimpiange, fra l’altro, le lunghe chiacchierate in casa sua e ricorda: «Agnelli veniva spesso a trovarmi semplicemente per far due chiacchiere, come si dice. Mi mancherà molto».
Con i suoi 93 anni, il grande filosofo del diritto e della politica, anch’egli senatore a vita come Giovanni Agnelli, era un fratello maggiore per l’Avvocato. Il quale, racconta Bobbio, «forse apprezzava in me la capacità di parlare di tutto, di fare discorsi di carattere culturale che a lui premevano molto. Anche l’Avvocato, del resto, era un uomo di cultura, e quindi, specialmente in questi ultimi vent’anni, parlavamo da vecchi amici, ed erano sempre amabili conversazioni». Un «maestro di stile nella vita pubblica e nella vita privata», lo definisce Bobbio. E aggiunge: «Mi piaceva il suo stile di vita, e a lui probabilmente piaceva il mio. Ma quel che mi colpiva sempre nella sua personalità era il fatto che riusciva a essere sobrio nonostante la potenza finanziaria che rappresentava. Aveva una grande signorilità: e per essere signori, si sa, non basta essere ricchi e potenti». E al rimpianto si aggiunge un velo di profonda amarezza: «Lui era molto più giovane di me, il vero decano ero io...».

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LUANA - anche FASSINO, fu invitato da giovane in casa AGNELLI, e il figlio lo spediva da OCCHETTO.... per sentire cosa pensava.... abbiamo avuto la distruzione del vecchio PCI - e un nuovo RIFORMISMO ROSSO, lasciato in mano alla destra nel momento piu' importante.... AGNELLI incontrava sempre le persone giuste...

DA - IL CORRIERE DELLA SERA INTERVISTA

Fassino: io giovane segretario del Pci, e quell’invito a pranzo

«Mi disse: "Gli italiani mi vogliono bene perché io ci sono sempre stato". Credo che avesse ragione»

ROMA - «Una volta mi disse: "Sa, gli italiani mi vogliono bene perché, in fondo, io ci sono sempre stato". E credo proprio che avesse ragione, Agnelli. E’ uno dei pochissimi di cui, nel momento del commiato, si possa dire senza retorica che ha fatto la storia di questo Paese». E’ una vicenda lunga e complicata, quella dei rapporti fra la sinistra e la Fiat, e Piero Fassino, che è il segretario dei Ds, ma è anche, e forse prima di tutto, un torinese, la conosce come le sue tasche. Compresi gli anni di Valletta, quando lui era un ragazzino, e l’Avvocato le cose della Fiat le seguiva a grande distanza: «Quella vallettiana è stata l’epopea della Fiat, ma anche della ricostruzione postbellica. E il simbolo di questa epopea è stata la Seicento, che ha cambiato la vita degli italiani. Pensi che il primo prototipo della famosa vetturetta fu elaborato, subito dopo la guerra, su mandato del Consiglio di gestione, da un gruppo di disegnatori comunisti».


Ma l’età vallettiana è considerata a sinistra come una stagione di lacrime e sangue...


«Non c’è dubbio, è stata una grande ristrutturazione produttiva dentro la quale Valletta ha ridisegnato i rapporti di forza anche con i reparti confino, i licenziamenti per rappresaglia, l’umiliazione dei militanti di sinistra. E’ il caso dell’operaio Pautasso, un bravissimo operaio professionale comunista costretto a lavori sempre più dequalificati fino a quando lo mandarono a raccogliere gli escrementi dei muli che tiravano le carrette utilizzate per i trasporti interni.
«Dopo due giorni si suicidò: una forma estrema di difesa della sua dignità. Ma il passaggio da Valletta ad Agnelli, nel 1966, rappresentò una svolta, che l’Avvocato stesso sottolineò riconoscendo che i metodi vallettiani erano stati ingiusti».


Quali furono i principali interlocutori di Agnelli nella sinistra?


«Agnelli è stato un uomo che ha sempre creduto nel compromesso sociale e, almeno per un lungo periodo, nella possibilità di un patto tra i produttori, tra capitale e lavoro, tra profitto e salario, contro la rendita e il parassitismo. Si capisce bene perché i suoi principali interlocutori a sinistra siano stati Luciano Lama e Giorgio Amendola».


E quali effetti concreti ebbe questa interlocuzione?


«Quello più visibile fu, alla metà degli anni ’70, l’accordo con il sindacato sul punto unico di scala mobile. Ma anche negli anni immediatamente successivi Agnelli guardò con simpatia e interesse alle scelte della Cgil di Lama, la cosiddetta linea dell’Eur. E non lesinò aperture di credito ai governi di solidarietà nazionale. Nel 1976 fu a un passo dal candidarsi con i repubblicani di Ugo La Malfa, che era tra i principali fautori di un coinvolgimento dei comunisti nel governo».


Lei conosce l’obiezione: la Fiat i governi li ha appoggiati più o meno tutti ...


«È vero. Ma mi sembra riduttivo dire che Agnelli lo abbia fatto solo per legittime convenienze aziendali».


L’Avvocato, nell’ultima campagna elettorale, diede una mano a Berlusconi.


«In quei giorni lo incontrai al Lingotto. Era sicuro che Berlusconi vincesse, ma era anche molto preoccupato per la scarsa credibilità internazionale del centro-destra».


Era preoccupato per Berlusconi?


«No, Agnelli ha amato molto il suo Paese: era preoccupato per l’Italia. E pensava che anche in questa circostanza la Fiat, e lui stesso, dovessero rappresentare un valore aggiunto per la credibilità e il prestigio dell’Italia nel mondo».


Che ricordo ha del suo primo incontro importante con Agnelli?


«Fu nel 1983, quando ero appena diventato segretario del Pci a Torino: avevamo il 40 per cento dei voti, governavamo Comune, Provincia e Regione. Mi invitò a pranzo. Si fece raccontare la mia storia, mi parlò della sinistra per come l’aveva conosciuta lui, sin da quando, nel ’45, entrò a Torino liberata da ufficiale del Corpo italiano di Liberazione e la trovò piena di bandiere rosse. Quella di Torino, la città degli Agnelli, ma anche di Gramsci, di Gobetti e del cattolicesimo sociale, è un’identità molto particolare e l’Avvocato che per educatore aveva avuto, non dimentichiamolo, Franco Antonicelli, lo sapeva benissimo».


Da che cosa lo capì?


«Non è che lo scoprissi quel giorno. Ma un paio di battute furono rivelatrici. Mi disse di avere chiaro perché mai a Torino, città operaia, i comunisti fossero tanto forti: ma come mai, mi chiese ironico, sono così forti a Roma, dove operai non ce ne sono? Poi mi comunicò che gli avevano riferito che io ero un contrattualista: per me era un complimento o un insulto? Gli risposi che lo consideravo un complimento. "Anch’io", mi disse sorridendo».


Secondo lei, è giusto dire che ieri si è conclusa un’epoca?


«Il primo segnale che una stagione stava finendo si percepì a Verona, nel ’94, quando gli industriali fischiarono Agnelli, reo di essersi detto dispiaciuto per la mancata conferma di Spadolini a presidente del Senato; il secondo fu l’elezione di D’Amato alla guida della Confindustria contro il candidato della Fiat. Gianni Agnelli ha vissuto tragicamente, prima con Edoardo, poi con il figlio di Umberto, Giovanni, l’impossibilità di avere un erede. Se ne va mentre ci s’interroga sull’esistenza stessa di un futuro per la Fiat. Il rilievo anche simbolico della cosa mi sembra fortissimo».

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