LUANA - carino l'articolo... ora il sogno non c'e' piu'... e BERLUSCONI puo' vincere ovunque ?... attenzione opposizione... cercate di finiere sul comosino del guascone, altrimenti e' la fine....

DA - IL CORRIERE DELLA SERA

Berlusconi: un protagonista della scena mondiale

Il commento gelido di Bossi: «Emblematico, muore quando finisce il tempo degli agganci con lo Stato»

ROMA - «Io ero il giovane imprenditore rampante» e Gianni Agnelli era Gianni Agnelli. Silvio Berlusconi racconta il suo primo incontro con l’Avvocato, lui un po’«gaffeur» che arriva in Mercedes, l’altro curioso, «gli avevano parlato bene di me». In Mercedes non arriverà più a quegli incontri, lo capisce subito, si tratta di occasioni speciali e meritano l’acquisto di una Fiat 130. A quell’epoca, Berlusconi confidava agli amici: «L’Avvocato è di un altro pianeta. Con tutti gli altri posso giocare e vincere. Con lui no, non si può sfidare un sogno». Nel giorno in cui il sogno svanisce, Silvio Berlusconi si concede ai ricordi, cominciando dalla mattina in cui si presentò a villa Frescot, sulla collina torinese, perché l’Avvocato «aveva sentito parlar bene di me e voleva conoscermi». «Mi son lasciato andare, ho raccontato cose che dovevano rimanere private», si pentirà una volta ritornato nei suoi uffici. Ma, in verità, non ha svelato molto, né ha citato l’aneddoto che pure, nel ’94, aveva conquistato i titoli di tutti i giornali: «Da giovane, tenevo la foto dell’Avvocato sul comodino». Quello era un altro Berlusconi, era il Berlusconi sul punto di cadere dalla poltrona di palazzo Chigi, il Berlusconi che, inaugurando gli stabilimenti Fiat di Melfi, in Basilicata, tentava un disperato recupero su quei poteri forti che lo avevano ormai abbandonato.
Il Berlusconi di oggi non ha bisogno di quella citazione di giovanile devozione. Può permettersi, piuttosto, di ricordare un uomo che ha sinceramente ammirato, utilizzando parole vere, parole sue. Lo si intuisce dagli aggettivi che accompagnano un’immagine (Gianni Agnelli «promotore di cose belle»), dal paragrafo del comunicato ufficiale che sottolinea come loro due, l’Avvocato e il Cavaliere, venissero da mondi diversi. «Giovanni Agnelli è stato un campione dell’imprenditoria italiana e un protagonista regale della scena mondiale. E’ stato anche un maestro di stile, un cultore e promotore di cose belle. L’Italia perde con lui una personalità piena di fascino e di curiosità». Questo l’omaggio. Poi, la rivendicazione della diversità: «Il suo mondo era diverso da quello in cui sono cresciute la nuova imprenditoria e la nuova politica italiana, ma il presidente d’onore della Fiat è tra coloro che hanno saputo accettare i cambiamenti e le curve della storia, con intelligenza e con proverbiale fair play».
Un fair play di cui Umberto Bossi fa a meno, consegnando una dichiarazione che brandisce la «diversità» con durezza: «Finisce un’era, il liberalismo è riemerso dopo cinquant’anni. In questo frangente - accusa il senatùr - Agnelli ha guidato la Fiat. Quando per vivere bisognava avere gli agganci con lo Stato e i soldi pubblici, lui era una specie di re». La fine dell’Avvocato è, per Bossi, «emblematica». Ma, non come tutti dicono, perché coincide con certe morti dei romanzi di Thomas Mann. No, «è emblematica perché Agnelli muore quando finisce il tempo degli agganci con lo Stato».
Bossi, però, con gli Agnelli non andava a pranzo. Non come Silvio Berlusconi che ai giornalisti confida: «Sono stato ospite dell’Avvocato a St. Moritz, in Corsica, a Torino, e lui veniva ad Arcore. Atterrava col suo elicottero e facevamo lunghe passeggiate nel parco. E’ venuto nelle mie case e si è sempre trovato a suo agio. Le permanenze non sono mai state brevi». Istantanee di familiarità, si sa che i due in fondo si trovavano simpatici, lontani anni luce l’uno dall’altro, ma simpatici. Si sa pure che il Cavaliere chiese consiglio al monarca: «Andai a St. Moritz per annunciargli che scendevo in campo». Si disse, allora, che l’Avvocato non benedì ma nemmeno condannò l’iniziativa. «Non ho mai creduto alle voci maligne secondo cui, allora, Agnelli disse: "Lasciamolo fare. Se vince, vinciamo tutti. Se perde, ha perso solo lui"». Non ci ha mai creduto, a quelle voci, il Cavaliere. Però le ricorda, nella sala stampa di palazzo Chigi.
«L’ho ammirato» ha scritto nel comunicato fatto distribuire ieri. Ed è vero. «I ricchi diventano modelli - scrive Richard Conniff nel suo recente saggio "The natural history of the rich" - Soggetti indispensabili per l’evoluzione della società». La foto dell’Avvocato, Berlusconi non aveva bisogno di tenerla sul comodino, ce l’aveva stampata nella testa: è stato il suo modello. Oggi, negli uffici di tanti piccoli e medi imprenditori, troneggia la foto (con autografo) di un Berlusconi sorridente. Ma il Cavaliere suggella il comunicato di addio ad Agnelli con un aggettivo che Umberto Bossi non condividerà: «Insostituibile».

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LUANA - non potevo non inserirla nella rassegna stampa... L'INTERVISTA DEL ROMITI... suo amico, per un lungo periodo, poi gli volto' le spalle, quando decise AGNELLI di eliminare un potere consistente nelle mani di un uomo che non gli sara'riconoscente economicamente e che si gettera' a capofitto nelle privatizzazioni per aumentare i suoi capitali in borsa....CESARE ROMITI...

DA - IL CORRIERE DELLA SERA

«Venticinque anni dandoci del "lei" Non gli piacevano bugie e bugiardi»

Romiti: rispettava le persone, odiava i salamelecchi, era educato a nascondere i sentimenti «Era una persona sensibile e credo che gli sia capitato anche di piangere. Da solo, però»

MILANO -

A chi mancherà?

«A molti. A sua moglie, ai suoi amici, a tanta gente. Mancherà a me».


E a chi non mancherà?


«"Mah... Agli avvoltoi».


Cesare Romiti ha passato un pezzo della sua vita con l’Avvocato. Venticinque anni, gomito a gomito, giorno dopo giorno: «Mi fanno ridere le formule, "corporate governance", tutti quegli avvocati che scrivono, le persone che interpretano... La "corporate governance" per me è una sola: il rapporto di stima e di fiducia tra due persone. L’Avvocato ed io lo avevamo».
Per questo, spiega, gli è rimasto qui, via via che Gianni Agnelli si spegneva, il montare di «giudizi ingiusti e ingenerosi. Ne abbiamo anche parlato, insieme. Se hai un po’ di potere sei assediato da cortigiani che non hanno il fegato neppure di farti le critiche che magari sono meritate. Poi...».


Che lezione ne ha tratto?


«Mi ha dato la certezza che viviamo tra persone misere... Ecco: credo sia stata una cosa ingiusta. Anche perché io l’ho conosciuto bene, l’uomo».


E come lo ricorda?


«Intelligente. Molto. Brillante. Spiritoso. Divertente. Signorile. Ironico. Curiosissimo. Al punto che era un termine di paragone: "Tizio è curioso come l’Avvocato"».


Curioso di cosa?


«Di tutto. Era goloso dei fatti della vita. Della grande politica internazionale come dei dettagli della Juventus. A Roma facevano spesso un pokerino col cognato, Carlo Caracciolo. Lui non amava stare alzato. Ma la mattina moriva dalla voglia di sapere com’era finita. Era capace di approfittare del fuso orario chiamando a mezzanotte gli amici americani per farsi spiegare meglio una posizione della Casa Bianca o svegliare la mattina Trapattoni per sapere dell’infortunio di una mezzala».


Era una passione, quella per il Trap. Disse: "Il nostro Trapattoni è un tale signore che non smetto di stupirmi per quanto smoccola nello spogliatoio".


«Sì, lo attraevano le persone diverse o diversissime da lui. Era di una curiosità inesauribile. Intellettuale e umana. Capitava che telefonasse a un calciatore per farsi spiegare bene cosa era successo durante una certa azione: "ma tu che gli hai detto, lui che t’ha fatto, che ti ha preso...". Era un tifoso vero. Quando andavamo a vedere una partita ce la filavamo sempre via qualche minuto prima della fine. A quel punto si metteva al volante e accendeva la radio ma poi la spegneva subito. Soffriva troppo».


Dicono corresse come in Formula Uno.


«Ma no, non è vero. Forse era un po’ distratto, ma neanche. Tranquillo. Un giorno, a Roma, sfiorò appena la macchina di una signora. Un piccolo sfregio, niente di più. Era mortificato. Scese e si scusò e si scusò ancora. Gli piacevano molto le auto. E ci capiva sul serio. Anche per questo, forse, per lui era inimmaginabile la Fiat senza l’auto o l’auto senza la Fiat».


Buttava giù dal letto anche lei all’alba?


«Raramente. Sapeva che ci saremmo visti in ufficio. Anni e anni. Abbiamo parlato molto di lavoro. Ma anche di un sacco di altre cose».


Venticinque anni dandovi del "lei".


«Sempre».


Anche dopo aver smesso di lavorare insieme?


«Sì. La pensava come me: si può essere villani dandosi del "tu", si può essere amici dandosi del "lei". Ricordo quando è morta mia moglie. Un momento brutto, per me. Lui non è che la conoscesse molto. Sa, lei era riservata. Disse: "Romiti, mi dispiace, era una donna che rispettavo profondamente". Aveva un’idea forte, del rispetto. Era un signore nato e la sua prima preoccupazione era rispettare le persone, sempre».


Parlaste anche del dolore suo dopo la scomparsa di Edoardo?


«Ero in Cina, quando successe. Da lì no, non lo chiamai. Sapevo che in certi momenti preferiva chiudersi. Lo feci al rientro. Ne parlammo appena. Allontanò subito l’argomento. Non amava mostrare la commozione, il dolore... Teneva tutto dentro».


Sta dicendo che era un uomo incapace di piangere?


«No, credo invece che fosse un uomo sensibile. E che gli sia capitato di piangere. Da solo, però».


E perché questo scudo?


«Il nonno, la sua figura di riferimento visto che aveva perso il padre così presto, l’aveva cresciuto con una educazione militare: non si mostrano i sentimenti. Ricordava con dolore come quel nonno fosse morto proprio in un brutto momento per la Fiat. Senza poter dare il suo contributo all’azienda in difficoltà».


Chissà se in questi mesi...


«Se gli è tornato in mente? Ne sono sicuro. E’ stato il suo tormento: vedere la Fiat in crisi e non poter incidere. Qualche volta sapeva essere cinico e un giorno mi aveva detto: "Puoi lasciare tutte le istruzioni che vuoi, ma dopo morto quelli che arrivano fanno quello che gli pare. E forse è meglio così". Ma sono certo che sperava, come spero io, che i suoi ammonimenti venissero ricordati».


Secondo lei, l’ultima decisione che ha preso lui quale è stata?


«Non ne sono sicuro, ma per quanto ne so quella sul "Corriere della Sera". Con la Fiat in difficoltà girava voce che potesse cedere la sua partecipazione nell’HDP. Lui parlò con Bazoli e gli disse: "Fintanto che ci sono io, il Corriere non si tocca"».


E adesso?


«L’azienda va avanti lo stesso».


Vi vedevate spesso, ultimamente?


«Non molto. Un giorno glielo dissi: ci frequentiamo poco. E lì credo che mi abbia raccontato l’unica bugia. Disse: "A me fa molto piacere vederla ma non vorrei che la gente pensasse che mi sento vedovo di lei". In realtà credo che, per cortesia, si preoccupasse di dispiacere, frequentandomi troppo, a certe persone a Torino».


E fu quella, lei dice, l’unica bugia?


«Sì. Se proprio non voleva dire una cosa, taceva. Ma non mentiva. Era un uomo, sotto questo aspetto, esemplare. Non gli piacevano le bugie e i bugiardi. E non gli piaceva l’ipocrisia. Era cortese, ma mai ipocrita. Le rare volte in cui gli capitava di alzare la voce arrivava a dire, nel colmo dell’ira: "quello ha fatto una bricconata, certe cose non si fanno". Il massimo che poteva arrivare a dire era questo: briccone».


Con la politica che rapporto aveva?


«Di grande curiosità. Credo sarebbe stato un eccellente politico. Ci fu anche un momento, ai tempi di Ugo La Malfa... In realtà l’unica cosa che lo allettò davvero, quando il Pci entrò nell’area di governo, fu l’idea di fare lui l’ambasciatore a New York. Chi meglio di lui poteva spiegare agli americani che la svolta poteva anche non essere una evoluzione negativa? Ma non lo vollero...».


Chi?


«Tutti. I democristiani, i socialisti... Tutti. Alla fine rinunciò. E restò a guardare la politica da fuori. Con il suo distacco. La sua ironia. Le sue battute folgoranti: "quel politico lì è più alto che intelligente". Ricorda quella su De Mita?».


«Un intellettuale della Magna Grecia».


«Fu straordinaria. Ma negli anni gliene sono venute diverse. Era molto legato, un tempo, al vecchio La Malfa, a Bruno Visentini... Negli ultimi anni a Ciampi».


Con Berlusconi invece...


«Erano diversi. Molto diversi. Nel 1994, poco dopo che si era insediato la prima volta a palazzo Chigi, lo invitammo a Melfi a inaugurare lo stabilimento nuovo e lì...».


E lì Berlusconi fece una battuta delle sue dicendo che teneva la foto dell’Avvocato sul comodino...


«Esatto. Non gli piacque. Come non piacerebbe a me e ad altri. Ma a lui in particolare non piacque per niente».


Non gli piaceva chi gli lisciava il pelo?


«No. Le lusinghe, i complimenti, i salamelecchi gli davano fastidio. Non amava riceverli, non amava farli. Non gliene ho mai sentito fare uno. Neppure alle persone che stimava».


E questo ha pesato anche sui rapporti successivi?


«Credo di sì».


Eppure nel 2001 sembrò farsi garante lui a livello internazionale del centro-destra bacchettando "El Mundo" per quella definizione del "Paese delle banane"...


«Aveva dell’Italia e di Torino l’idea che dell’America hanno gli americani: "right or not is my country". Giusto o sbagliato è il mio Paese. Aveva il culto dell’istituzione. Per questo arrivò a far giocare la Juve col lutto dopo la morte di Umberto. Per questo spinse Ruggiero a entrare nel governo. Era convinto che, con la sua esperienza...».


Finché Ruggiero non se ne andò e lui fece la battuta sui "fichi d’india": deluso?


«Non lo so. Certo ha inciso molto, su di lui, l’uscita di Ruggiero».


Che rapporto aveva con le donne?


«Le rispondo con una battuta sua. Eravamo a Varsavia. Dei giornalisti gli fecero la stessa domanda. Rispose: "Io con le donne parlo, ma non parlo di donne"».


Disse anche che essere un buon marito non significava automaticamente essere un marito fedele...


«Guardi, posso assicurarle che il rispetto che portava verso il matrimonio e verso sua moglie era assoluto. Assoluto».


Come viveva scelte difficili come quelle di licenziare cento, duecento, mille persone?


«Beh, lui personalmente non l’avrebbe fatto mai. Né saputo farlo, forse. Però quando abbiamo dovuto procedere a operazioni traumatiche come quella del 1980 in cui mandammo via addirittura 23 mila persone in un colpo... Ecco, lui metteva al primo posto il bene dell’azienda. Se si convinceva che era per il bene dell’azienda...».


E l’idea di andare in assemblea e dire: "lavoratori, scusate ma..."


«No, no. Non l’avrebbe fatto mai. Cedette una volta, negli anni 70, prima che arrivassi io, sul licenziamento (obbligato, mi creda) d’una cinquantina di operai. Donat Cattin gli disse: sto chiudendo il contratto dei metalmeccanici: li ritiri. Lui disse sì. Ma avrebbe confidato per anni di essersene pentito. Il fatto è che non doveva andare lui, a trattare».


Faticava a dire di no?


«Non amava dire di no. Poi, certo, se c’era necessità... Ma non l’amava».


I rapporti con la sinistra?


«Buoni, mi pare. Andava molto d’accordo con Lama. Erano addirittura diventati amici. Gli dicevo ridendo: "Avvocato, ricordatevi che voi due avete combinato il pasticcio dei punti di contingenza"».


E lui?


«"Romiti, ci hanno fregato a tutti e due", perché l’ipotesi era che, arrivando a quel punto, poi si placassero le vertenze sindacali, quindi si andasse verso un periodo in cui l’inflazione veniva tenuta più sotto controllo. Aveva ragione La Malfa: non si doveva fare. Ma l’Avvocato era un ottimista, quindi quell’accordo veramente lui lo vedeva, in un certo senso, come Lama. Sempre stato ottimista».


Secondo lei è stato felice?


«Ha sofferto molto. Ma credo di sì».


Pensa che qualcuno lo ricorderà come un uomo buono?


«Buono... Forse buono non è l’aggettivo... Io credo sia stato un uomo giusto».

 

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LUANA - il sole 24 ore dedica poco all'avvocato, e si concentra sul PORTO ALEGRE.... DAVOS...

DA - IL SOLE 24 ORE

Davos-Porto Alegre:


il futuro in due ForumIniziano domani i due meeting più attesi: in Svizzera i grandi della Terra si riuniscono sotto la bandiera dell'economia, in Brasile il mondo delle Ong, del volontariato e del non profit sotto quella del sociale. di Giulia Crivelli

Inizieranno e si svolgeranno in contemporanea, da domani, giovedì 23 a martedì 28 gennaio, il summit "dei movimenti" e quello della grande finanza: Porto Alegre

Al terzo anno consecutivo, i due Forum "contrapposti" - uno in Brasile, l'altro in Svizzera - cadono a ridosso di una guerra che sembra difficilmente scongiurabile.

La guerra al centro dei dibattiti in Brasile
Così, la minaccia dell'attacco anglo-americano all'Iraq si trasforma in benzina sul fuoco di Porto Alegre, il cui dibattito sarà intorno a temi semplici e universali come la pace, il rispetto per l'ambiente, i diritti umani - e in spunto di ripensamento per il vertice di Davos - che si trova a dover tentare di includere a ogni costo le istanze della società civile di cui si fanno portatori non più, come un tempo, i partiti, ma i più fluidi e "rivoluzionari" movimenti.

La stagnazione economia a Davos
Il tutto mentre si continua a restare appesi a una stagnazione - l'Europa lenta, gli Usa fermi - di cui non si conosce la fine. E di cui si parlerà, ovviamente, molto a Davos. Ma quest'anno, credono in molti, il confronto Porto Alegre-Davos non sarà più lo scontro tra i cultori della mondializzazione e chi la contesta. I miti che hanno nutrito il liberismo vacillano, così come pure quelli che hanno raccontato l'utopia di una crescita economica infinita: ecco perché i no-global dovranno cominciare a cercare di gestire la globalizzazione piuttosto che rifiutarla tout court e i globalizzatori dovranno invece cominciare a dialogare con i movimenti.

Centomila persone in Brasile
Il Forum di Porto Alegre é diventato il più grande meeting mondiale di quanti sono impegnati nella costruzione di un mondo fondato su pace, giustizia, solidarietà e rispetto dei diritti umani. Quest'anno sono attese centomila persone da tutti i continenti e il programma prevede centinaia di conferenze, dibattiti, testimonianze, seminari, gruppi di lavoro, tavole rotonde di dialogo e confronto che ruoteranno attorno a cinque aree tematiche: sviluppo sostenibile democratico; principi e valori; diritti umani; diversità e uguaglianza; media e cultura; potere politico, società civile e democrazia; ordine mondiale democratico; lotta contro la militarizzazione e promozione della pace.

Lo scorso anno Chomsky si scagliò contro gli Usa
Nel 2002 il Forum sociale mondiale acclamò un professore americano del Mit di Boston, Noam Chomsky, quale icona antiliberista di Porto Alegre, l'intellettuale ufficiale del movimento. Chomsky, in piena guerra in Afghanistan, di fronte a diecimila persone, sostenne che i Masters of the universe, i Signori dell'Universo, le elites economiche (soprattutto americane) impongono il loro potere sul mondo attraverso la più spietata repressione, sostenendo che si tratta di democrazia. "I Signori dell'Universo - disse - sono in perenne lotta con "la grande Bestia", la massa di chi disobbedisce. E sono disposti a fare qualsiasi cosa per sottometterla". E ammonì: "Il capitale viene prima, le persone poi. Finché sarà così, ci sarà guerra". Quindi concluse affermando che "una definizione accettabile di terrorismo è l'uso calcolato della violenza per finalità politiche, ideologiche o religiose. Di conseguenza, non c'è alcuna differenza tra il terrore praticato dagli Stati uniti e quello dei gruppi terroristici". Quest'anno la guerra di cui si dovrà parlare è quella all'Iraq e quasi sicuramente pioveranno nuove accuse agli Usa, che secondo la maggior parte dei pacifisti vogliono scatenare un conflitto non contro il terrorismo ma per il petrolio.

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