DA - L'UNITA'

Gli ispettori sulla via di Baghdad incalzano Saddam Hussein
di Toni Fontana

È probabile che quest’oggi all’aeroporto di Baghdad non vi saranno fanfare bandiere ed autorità ad accogliere Hans Blix, settantaduenne ex ministro svedese e attuale capo degli ispettori. Per sottolineare ancora una volta in preparativi per la «madre di tutte le battaglie» i capi iracheni hanno festeggiato sabato il dodicesimo anniversario dell’attacco missilistico (39 Scud) compiuto contro Israele ai tempi della guerra del Golfo. Ma, al di là delle coreografie di regime ad uso prevalentemente interno, Saddam dovrà scoprire qualche carta davanti a Blix che domenica 19 arriva a Baghdad deciso a prolungare le ispezioni, ma non a fare sconti al raìs.

Al suo arrivo a Larnaca, nella base cirpiota dove gli emissari dell’Onu hanno allestito il loro quartier generale, il capo degli ispettori ha subito messo in chiaro che la sua visita a Baghdad punta ad ottenere una «cooperazione sostanziale» che finora è mancata. Gli iracheni - ha spiegato il diplomatico svedese - «ci hanno dato accesso immediato ai siti, accesso dovunque, e questo va bene. Ma nella sostanza non c’è stata alcuna cooperazione sufficiente, mentre abbiamo bisogno di una cooperazione reale e sostanziale». Blix, in particolare, ha citato il ritrovamento di 11 ogive a Baghdad definendolo «un’omissione» rispetto ai doveri imposti all’Iraq dalle risoluzioni.

Da Vienna gli ha fatto eco il capo dell’Aiea, El Baradei, che, prima di mettersi a sua volta in viaggio sulla rotta Cipro-Baghdad ha detto di aspettarsi «una cooperazione più attiva» aggiungendo che per concludere la missione in Iraq vi è ancora bisogno di «qualche mese». Da un lato dunque i capi della missione premono su Saddam affinchè apra le porte ancora chiuse, e dall’altro si fanno garanti della prosecuzione dei controlli che implica ovviamente il rinvio dell’attacco armato.

Le recenti prese di posizione di molti leader europei (ieri il capo della diplomazia tedesca Fischer ha detto che la risoluzione 1441 può essere applicata «senza ricorso all’uso della forza») hanno dato forza agli ispettori che, oggi più che mai, sono rimasti l’unica ancora alla quale gli iracheni si possono aggrappare. Saddam si dimostrerà flessibile e disponibile con i capi della missione Onu che saranno suoi ospiti?

Negli ultimi giorni il contrastato rapporto con gli ispettori si è ulteriormente guastato.
Uno scienziato iracheno, il fisico Faleh Hassan, ha definito «mafiosi» gli inviati Onu che gli hanno fatto visita. A suo dire gli ispettori avrebbero tentato di persuadere la sua consorte malata a fuggire assieme a lui dall’Iraq in cambio di cure mediche (e di informazioni sui segreti di Saddam). El Baradei ha però fatto sapere ieri che nell’abitazione di uno scienziato è stato sequestrato un documento di 3000 pagine «non dichiarato» nelle relazioni di Baghdad relativo a tecnologie sull’arricchimento dell’uranio.

Il fallimento della missione Blix a Baghdad potrebbe accelerare non poco l’inizio dell’attacco americano. Il capo di Stato maggiore statunitense, generale Richard B. Myers, ieri in visita a Roma, ha detto che «dal punto di vista militare non siamo al punto di non ritorno», ma subito dopo ha aggiunto che il regime iracheno deve sapere che «questa è l’ultima occasione per liberarsi dalle armi di sterminio». Myers (che ha incontrato il ministro della Difesa Martino) ha anche rivelato che gli Stati Uniti hanno fornito agli ispettori un areo-spia U2 che permetterà di rendere più efficaci i controlli in Iraq. Oggi il generale americano sarà ad Ankara per discutere con i capi turchi sull'uso delle basi ed, eventualmente, del transito delle truppe dirette in Iraq.

Secondo alcune fonti l’accordo tra Ankara e Washington sarebbe ormai stato raggiunto, anche se la Turchia non rinuncia all’iniziativa diplomatica per scongiurare il conflitto e propone di organizzare una conferenza assieme ad Egitto, Giordania, Arabia Saudita, Siria ed Iran. Turchi, arabi e addirittura i pakistani starebbero (secondo voci che rimbalzano su giornali tedeschi e inglesi e non solo) complottando per favorire un’uscita di scena di Saddam in seguito ad un colpo di stato o ad un patteggiamento. Ieri il governo di Ryiad ha nuovamente smentito l’esistenza di un piano (golpe, cambio di regime, fuga di Saddam con salvacondotto) ed anche fonti diplomatiche arabe, citate dal britannico Guardian, ammettono che vi sono «poche speranze» di evitare la resa dei conti, cioè la guerra. Nonostante infatti le «rassicurazioni» del generale Myers anche ieri i caccia anglo-americani hanno proseguito i blitz nel sud dell’Iraq.

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«Non in nostro nome». Firmato: le vittime dell'11 settembre


di Massimo Cavallini

«Il nostro grido di dolore non è un grido di guerra». Questo è lo slogan che l'associazione «September Eleventh Families for Peaceful Tomorrows» - fondata un anno fa da 50 persone ed oggi sostenuta da oltre 2000 simpatizzanti - porta scritto sulle proprie immaginarie bandiere. E questo è anche quel che Kristina Olsen, 44 anni, di professione infermiera, è andata nei giorni scorsi a ripetere in un paese che, sebbene distante più di 9mila chilometri dalla sua casa di Boston, proprio d'una guerra combattuta nel nome del suo dolore sta oggi per diventare teatro.
Kristina Olsen è - insieme a Kathleen Tinley, Terry Key Rockefeller e Collen Kelly - una delle quattro donne che - avendo perduto un pezzo della propria famiglia e dei propri affetti tra le macerie delle due Torri Gemelle - si sono recate assieme in Iraq per testimoniare la propria avversione ad un conflitto da molti ormai considerato inevitabile. Più ancora: per testimoniare la loro avversione per ogni tipo di violenza, nel punto del pianeta che oggi più sembra prossimo ad una «violenza senza senso».
«Il nostro messaggio era chiaro - dice oggi Kristina, appena rientrata a Boston -: noi siamo qui come esseri umani per incontrare altri esseri umani. Per dare alla guerra, a questa guerra e ad ogni guerra, quel volto, o quella moltitudine di volti di uomini e di donne, che, inevitabilmente ne mettono in risalto l'intima, disumana ferocia. Perché proprio questo, ne sono convinta, è la vera radice d'ogni guerra e d'ogni violenza: l'incapacità di vedere i volti degli altri, di guardare, di sentire, di ascoltare negli altri le nostre stesse passioni, le nostre stesse paure, il nostro stesso dolore…».
Kristina rammenta come, in quella mattina dell'11 settembre 2001, sua sorella Laurie Neira fosse salita sul volo numero 11 dell'America Airlines per andare da Boston a Los Angeles, dove le era stato offerto un posto di lavoro. E come sia morta perché i terroristi «non l'hanno vista». O meglio: perché l'hanno guardata senza vederla, senza neppure immaginare - oltre i loro obiettivi di autodistruzione e di morte - la creatura dolce che era, le sue speranze e la sua voglia di vivere, di essere felice. La sua e quella di tutte altre persone sedute su quell'aereo o ammassate, come animali da macello, dentro le Twin Towers. «Noi, invece - spiega - in Irak ci siamo andate proprio per vedere, per toccare, per parlare con gente che qualcuno vorrebbe considerare soltanto un potenziale ed irrilevante 'danno collaterale'».
Anche per questo, del suo viaggio, Kristina rammenta soprattutto la visita ad un luogo che, dei «danni collaterali» di quel fulmineo ed «indolore» conflitto che fu la prima Guerra del Golfo, è una sorta di macabro monumento: il rifugio antiaereo di Amariyah, dove, il 14 febbraio del 1991 una bomba intelligente uccise - stando alle cifre ufficiali - 403 civili, 52 dei quali bambini. Tutti «invisibili», come invisibile, per i terroristi-suicidi, sarebbe stata Laurie più di dieci anni dopo. Gli uni e l'altra «collateral damage» lungo la strada verso l'obbrobrioso paradiso dei martiri, o in direzione di quello che i servizi d'intelligenza americani avevano erroneamente identificato come - questa fu la giustificazione a posteriori del massacro - un «bunker della guardia repubblicana di Saddam Hussein». «Gli effetti del bombardamento - ricorda Kristina - sono ancor oggi evidenti: macerie, piloni d'acciaio contorti, un paesaggio infernale come quello del World Trade Center…».
Ad Amariyah ed in molti altri punti dell'Irak, Kristina, Terry, Colleen e Kathleen hanno stretto molte mani, abbracciato molte persone. Ed in tutte hanno rivisto, riascoltato il proprio dolore. Quello del ricordo di Laurie, di Bill, fratello ventenne di Koleen Kelly, o di Laura, la sorella più grande di Terry Rockefeller. «Qualcuno - ricorda oggi Kristina - ci ha prima accolto inveendo contro il nostro governo. Ma poi tutti ci hanno invitato ad entrare in casa. E non credo che l'abbiano fatto per compiacere il governo. La cosa più difficile è stato proprio il congedo. Come potevamo salutare quella gente? Dicendo: 'Speriamo che tra un mese non siate tutti morti'?».
Un anno fa, chiediamo a Kristine, la vostra associazione si è recata, con un analogo messaggio, anche nell'Afghanistan ancora sotto il controllo dei Talebani. Non crede che, quella almeno, sia stata una «guerra giusta»? La risposta è perentoria. «No, perché anche quando è 'giusta', la guerra è in sé la negazione della giustizia. Peggio: è la negazione della nostra umanità. Il nome della nostra associazione nasce da una frase di Martin Luther King: 'le guerre sono un pessimo scalpello per scolpire dei domani di pace' (Peaceful Tomorrows). E credo che mai come oggi questo principio resti valido. La guerra non combatte il terrorismo. La guerra è, sempre, il peggiore dei terrorismi».

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Il presidente della Corea del Sud rivela: «Bush voleva bombardare Pyongyang»
di red

Alle prese con Saddam, hanno scelto la strada della diplomazia con la Nord Corea. Anche le ultimissime notizie vanno in quella direzione. Tanto che proprio stamane il vice segretario di Stato, Richard Armitage, ha detto che Washington «è pronta a fornire garanzie di non aggressione, se Pyongyang smantellerà il suo programma di riarmo nucleare». Ma non è stato sempre così. Non fu questa la tattica scelta dall'amministrazione Bush quando Pyongyang decise di denunciare il trattato di non proliferazione. L'ha rivelata - una rivelazione che avrà effetti dirompenti sui delicati equilibri dell'area - il presidente della Corea del Sud, Roh Moo-hyun. Che in un'intervista alla tv di Seul ha detto così: «Al tempo delle elezioni, alcuni ufficiali Usa, che godevano di una certa considerazione all'interno dell'amministrazione Bush,
hanno parlato della possibilità di attaccare la Corea del Nord».

Roh, eletto il 19 dicembre e che entrerà in carica il prossimo mese al posto del presidente uscente Kim Dae-jung, ha aggiunto: «Mi sentivo così disperato. Non potevo dire niente a nessuno. Se avessi rivelato che gli Stati Uniti volevano attaccare la Corea del Nord avrei gettato nel panico la nostra gente. Dopo ho detto basta e mi sono opposto con tutte le mie forze all'idea di un eventuale attacco. Per fortuna l'opinione di Washington è cambiata in favore di una soluzione pacifica», ha concluso Roh.

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Pestaggi a punti. Si scrive skin, si legge neofascisti
di Vittorio Locatelli

C’è un videogioco che assegna i punti in base a quante persone si riescono ad investire con l’automobile, dando un tot a seconda che le vittime siano donne, bambini, anziani eccetera. Aberrante, no? Ma c’è un gruppo di giovani del Bergamasco, condannati nei giorni scorsi, che aveva deciso che era più «divertente» giocare dal vivo. Il principio era lo stesso: picchiare delle persone e assegnarsi un punteggio per «categorie», con l’aggravante del razzismo.

La banda che nel Bergamasco si divertiva così si è giustificata dicendo che era un innocente passatempo di un gruppetto di «amici», niente di politico, per carità, e niente di organizzato. Ma come la mettiamo allora con la tabellina degli obiettivi? (vedi qui accanto, ndr) Niente di politico? Difficile da credere. Martedì scorso il gruppo di skin bergamaschi (uno di loro è difeso dall’avvocato Bussinello, che è anche dirigente di Forza Nuova e fiero avversario della legge Mancino) è stato condannato dal giudice dell’udienza preliminare non solo per le aggressioni ma per associazione a delinquere finalizzata alle lesioni con l’aggravante delle motivazioni razziali.

Era da tempo che il gruppo era nel mirino degli inquirenti ma fino alla conclusione dell’altro giorno le vicende giudiziarie si erano fermate a singoli episodi: processi per aggressioni ai centri sociali, pestaggi di cittadini extracomunitari, risse nei locali. Tutte vicende che vedevano coinvolte quasi sempre le stesse persone e accadute in gran parte nella zona della provincia di Bergamo chiamata «Isola», perché è il territorio che si estende tra i due fiumi Brembo e Adda.

Ma è stato proprio il ritrovamento, a casa di Roberto Rigamonti (condannato a 4 anni), del «regolamento» a spingere il sostituto procuratore Domenico Chiaro ad ipotizzare e contestare agli undici indagati l’esistenza di una vera e propria organizzazione criminale razzista. Nel regolamento c’era anche una tabellina con i simboli che rappresentano ogni categoria di vittime e soprattutto un punteggio assegnato ai vari componenti della banda, molti «registrati» con il nome, altri con un soprannome, in base alle azioni portate a termine.

Dicevamo che le indagini affondano le radici in episodi iniziati poco dopo la metà degli anni ’90, quando un gruppo di cittadini di Mapello denunciarono un gruppo di ragazzi che si ritrovava regolarmente sotto le loro case schiamazzando fino a tarda notte. Condanne per 5 giovani, alcuni dei quali condannati poi per i pestaggi, a un mese con la condizionale.

Ancora nel ’98 altri processi e condanne per alcuni del gruppo dei «razzisti a punti». Fino ad arrivare al 2000 con il pestaggio a scopo di rapina di un extracomunitario (imputati due del gruppo) e aggressione ad altri due immigrati (sotto accusa ancora quattro della banda). Sono stati i carabinieri di Zogno, comune alle porte di Bergamo, ad individuare quattro giovani responsabili delle violenze (Guercio, Rigamonti, Nava e Mazzoleni) e ad indicarli nei loro rapporti come estremisti di destra.

L’uomo del «regolamento», Rigamonti, che tra l’altro era stato già condannato in appello a 2 anni per avere ferito gravemente (lesioni permanenti ai genitali) un ragazzo del Centro sociale Pacipaciana di Bergamo, durante le indagini aveva dichiarato che il «foglio» era una «buffonata».

Peccato che, a parte forse qualche aggiunta ai punteggi di episodi inesistenti o non denunciati (anche se è probabile che qualche immigrato, magari senza permesso di soggiorno, abbia preferito non sporgere denuncia), molte altre aggressioni registrate (una dozzina in tutto) coincidano con fatti realmente avvenuti, come ha accertato l’inchiesta. Rigamonti ha anche detto che il gruppo non era organizzato e che i «giochi» nascevano spontanei durante incontri al bar. Sarà, ma né il pubblico ministero né il giudice delle udienze preliminari Vito De Vita, gli hanno creduto, visto che sono state emesse nove condanne con il rito abbreviato e un’altro imputato andrà a processo.

Certo che a Bergamo e dintorni il clima non è dei migliori. Durante le perquisizioni a casa degli indagati gli inquirenti hanno trovato mazze, bandiere naziste, volantini e adesivi di Forza Nuova. Ovviamente i condannati negano di appartenere al movimento ma... Tra l’altro a Bergamo è già attiva l’alleanza operativa tra Forza Nuova e i Volontari Verdi leghisti capeggiati da Mario Borghezio (quello che è andato a trovare in carcere i «bravi ragazzi» di Verona).

Due settimame fa, in occasione di una festa in via Quarenghi, il quartiere degli immigrati, mentre oltre un migliaio di persone si era ritrovato per mangiare, cantare e discutere pacificamente, è arrivato un gruppo di Volontari Verdi accompagnato dai militanti di Forza Nuova per «difendere i commercianti padani». Una provocazione gravissima, accompagnata dall’esibizione di bastoni chiodati, interrotta solo per l’intervento delle forze di Polizia. Ma oltre a Forza Nuova a Bergamo e provincia ci sono ben tre sedi del Fronte Sociale Nazionale. E mentre il ministro Castelli si ostina ad impedire l’insediamento del nuovo procuratore capo di Bergamo nominato da tempo dal Csm, vale la pena di segnalare che in occasione delle ultime elezioni nel capoluogo orobico venne presentata anche la lista di Forza Nuova. Venne a fare un comizio il leader di Fn, Fiore, e ci fu una manifestazione di protesta del «movimento»: nessun incidente, ma sono arrivate 42 denunce agli antifascisti per «adunata sediziosa».

Comunque i baldi giovani condannati l’altro giorno non si preoccupino: il ministro della Giustizia Castelli sta preparando, anche e non solo per loro, una bella sorpresa in vista del processo d’appello. Delle tante aggressioni, grazie all’ingegnere, quelle a «negri» ed «ebrei» magari non saranno più reato. Odio razziale e religioso? Roba vecchia, da depenalizzare, sono solo «giochi da ragazzi».

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INTERVISTA A FAUSTO BERTINOTTI DA - L'UNITA'

sinceramente ... non chiedetemi di comprendere la sinistra perche' non so cosa dirvi... abbiamo visto tutti il faccia a faccia - D'ALEMA COFFERATI - per la questione sostanziale della linea da proseguire nella coalizione e soprattutto all'interno dei DS ... ebbene - ora e' passato il referendum per estendere il diritto a non essere licenziati senza giusta causa - anche nelle imprese che hanno meno di 15 operai .... COFFERATI - quello che ritniamo tutti la sinistra dei DS - non si trova d'accordo con BERTINOTTI - ..... e allora ditemi voi - QUANTE SINISTRE CI SONO... ma soprattutto - che cosa e' la sinistra e come la intendono quelli DELLA QUERCIA ?

Un'occasione di riscatto dei lavoratori

ROMA«Questa rondine può fare primavera, la nuova primavera dei diritti». Fausto Bertinotti crede nel referendum e crede anche nella vittoria. «Come dicono i francesi, on s’engage (ci si impegna), prima si combatte poi si vedrà».


Si farà sicuramente o ci sono strade alternative?


«Non vedo perché non si dovrebbe fare. È un esercizio fondamentale di democrazia che tra l’altro ha il merito straordinario di mettere nell’agenda politica la centralità della questione dei diritti sul lavoro. Costruisce una gerarchia reale contro una fittizia, se solo si pensa che fino alla settimana scorsa rischiava di essere centrale il discorso sulle riforme istituzionali, mentre il Paese guardava in tutt’altra direzione».


Insomma, si torna a parlare di lavoro?


«Certo, e ci può anche essere l’occasione per una svolta da un lungo periodo - di quasi 20 anni - in cui il lavoro è stato una variabile dipendente e i diritti dei lavoratori sono stati compressi ai fini di garantire la competitività delle merci».


Anche la Cgil chiede le tutele, ma pensa ad una legge.


«Intendiamoci, se uno crede di poter convincere Berlusconi a votare una legge per estendere l’articolo 18 va benissimo. Io dubito che lo si possa fare. Mi pare un esercizio assolutamente retorico. Tutti sanno bene che Berlusconi e il governo delle destre sono intenzionati a ridurre i diritti sul lavoro. Del resto il centrosinistra stesso (o una sua parte), quando ha presentato una legge come nell’ipotesi Treu-Amato, si è mosso su posizioni opposte a quelle del contenuto proposto dal referendum».


Quindi per lei non ci sono condizioni a cui si può rinunciare?


«Assolutamente no. È una materia indisponibile. Solo una legge che raccolga quello che propone il referendum potrebbe farlo decadere. Non è nella disposizione dei proponenti questo esercizio. In più la consultazione allarga l’esercizio democratico in un momento in cui il Parlamento è svuotato e subisce la preminenza dell’esecutivo».


Non si corre il rischio, con il conflitto di interessi, che la volontà popolare sia manipolata?


«Questo rischio c’è sempre. Con questo ragionamento dovremmo smettere di occuparci di politica. In realtà, siccome c’è il conflitto di interessi, siccome c’è la manipolazione, costruiamo la democrazia».


Non pensa che oggi in Italia si debba agire più sul sistema produttivo che non sul fronte del lavoro?


«Penso radicalmente il contrario. In Italia si sta costruendo un modello molto aggressivo che si basa sull’alta flessibilità e i bassi salari e diritti. Questo sistema produttivo si cambia se si introducono delle rigidità. Un grande economista del dopoguerra, Claudio Napoleoni, diceva che se la sinistra vuol provare a condizionare lo sviluppo deve introdurre dei vincoli interni, delle pre-condizioni, sulla base delle quali si costruisce lo sviluppo. Penso che i diritti debbano essere la nuova rigidità che funziona come sprone verso un’altra strada. Questa funzione è possibile solo se si stabilisce che i diritti sono una soglia incomprimibile».

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DA - IL CORRIERE DELLA SERA

parliamo di economia mondiale - l'intervista in questione fa esprimere opinione ad una persona che e' al vertice dell'azienda programmi computer piu' conosciuta al mondo - quella di WINDOWS - e pressioni commericali che non gli sono riuscite contro LINUS.

INTERVISTA / Parla Paolucci vicepresidente mondiale Microsoft

«Mercati disorientati, ma l’economia reale cresce»

Mercati e prospettive a tinte fosche? Non per tutti, anche in un giorno, come è stato quello di ieri, di segni negativi, con le Borse che sono andate a riposo per il fine settimana dopo avere perso diversi punti in tutto il mondo. Il messaggio controcorrente - di ottimismo - arriva dalla prima società al mondo per capitalizzazione, il gioiello fuoriuscito dalla mente di Bill Gates. Umberto Paolucci, 57 anni, vicepresidente mondiale di Microsoft Corporation e presidente del ramo italiano, parla con il solito distacco di chi è abituato a governare le grandi aziende. E soprattutto guarda ai numeri, che dicono che le aziende non vanno male. «Certamente i fattori di incertezza sui mercati ci sono, ma visto il contesto generale il nostro è un messaggio doppiamente positivo. I risultati che abbiamo dato, con una crescita del fatturato del 10%, il trimestre migliore della storia dell’azienda, e la prima distribuzione del dividendo dalla fondazione e dalla discesa sul campo del Nasdaq, sono buoni. Stiamo assumendo in tutto il mondo, anche in Italia. E non siamo gli unici». Come dire: l’economia reale va.

Come mai allora gli analisti hanno visto dei segnali negativi (che hanno influenzato le Borse) nei vostri numeri e in quelli di altri giganti come Ibm e General Electric?


«Da un po’ di tempo dobbiamo muoverci su due binari, il primo dà una visione generale che per noi a livello di azienda rimane di grande ottimismo. Il secondo, diversamente, è quello di breve periodo in cui le scelte vengono influenzate da situazioni contingenti. E in questo senso, siamo più prudenti. Inoltre ascoltiamo anche gli altri attori... giorni fa Intel, il principale produttore di microprocessori, ha dato una previsione cauta sul settore dell’ information technology . E anche questo ci ha convinti a spostare in avanti le attese di ripresa di uno o due trimestri».


Ma quali sono le «paure» delle aziende... prevale il timore di un conflitto con Bagdad, la corsa del petrolio, oppure il timore che la coda recessiva sia più lunga del previsto?


«Tutte queste cose insieme contribuiscono in sostanza a togliere al mercato serenità e certezze nelle decisioni di investimento. Ed è questa atmosfera che spinge a spostare di qualche mese le attese sull’economia. Molte aziende si mantengono sul livello minimo, quello di manutenzione. Anche se chi può dovrebbe spingere proprio adesso sull’acceleratore, per godere più avanti di un vantaggio competitivo. E’ quello che stiamo facendo noi».


Un eventuale conflitto con l’Iraq potrebbe influenzare pesantemente il quadro economico per le aziende?


«Non sono un esperto di queste questioni... ma mi auguro che, nel caso in cui il conflitto diventi una realtà, ci siano delle risposte circoscritte. Non credo comunque che si verificherebbe una forte destabilizzazione e comunque ciò che può pesare maggiormente sulle aziende è l’incertezza continua sul verificarsi o meno di una guerra con l’Iraq».


E’ possibile immaginare, in ogni caso, un quadro in cui sia nuovamente l’«information technology» a trainare un’eventuale ripresa?


«Questo che stiamo vivendo è stato definito recentemente il decennio digitale. Vuol dire che il mercato non si attende molto sul piano dei prodotti, ma guarda alle funzioni per l’economia».


Quindi ci sarà bisogno di una nuova formula per le aziende «high tech»...


«Il passaggio si sta già verificando. Gli strumenti dell’ information technology sono continuamente utilizzati da tutte le aziende, non tanto per la rete Internet, quanto per organizzare tutta la serie di rapporti e la distribuzione delle aziende. La visione integrata è quella che ha veramente cambiato il mondo aziendale. D’altra parte gli ultimi grandi investimenti nel settore risalgono ormai al 2000, quelli per organizzare l’arrivo del «baco del millennio». E penso che sia passato abbastanza tempo da allora».

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DA - IL CORRIERE DELLA SERA

strana questa intervista - non ricordo nulla del vaticano - contro la destra - con la quale si e' alleata nella capitale per battere WELTRONI .... ne per la pace - quando d'alema faceva scattare L'OPERAZIONE ARCOBALENO - portandoci nella guerra dei paesi balcani.

vi ricordo che anche in quell'occasione mister bush - non ci faceva saper nulla - parlando di guerra per la liberta' di popoli oppressi - ed anche in quell'occasione la verita' e' un'altra - .... uno speciale oleodotto che deve nascere su quelle terre di bombe e cadaveri.

L’INTERVISTA / L’arcivescovo Martino, ex rappresentante alle Nazioni Unite: «Per il Vaticano ingiusta un’azione preventiva»

«Un conflitto sarebbe catastrofico. Ma ho fiducia: non scoppierà»

CITTA’ DEL VATICANO - «Ho fiducia che la guerra non ci sarà», dice il presidente di Giustizia e Pace, l’arcivescovo Renato Martino, che il Papa ha incaricato di «gridare dai tetti» le ragioni che sono dietro alla sua predicazione della pace. E’ stato sedici anni all’Onu, ma non ha i riflessi condizionati del diplomatico di carriera e si accalora sulla «guerra preventiva», che «non può essere una guerra giusta, nel senso di guerra difensiva». Sostiene che, se ci fosse, provocherebbe un «rilancio del terrorismo». E afferma netto: «Se gli ispettori non troveranno le armi, bisognerà togliere l’embargo all’Iraq». Il Papa parla contro la guerra, ma c’è chi lo accusa di antiamericanismo...
«Escludo una visione antiamericana! Basterà leggere per intero il discorso di lunedì scorso al corpo diplomatico, per trovare un’attenzione planetaria alla pace. Con la stessa insistenza con cui oggi parla contro la guerra all’Iraq, nel 1982 aveva parlato contro la guerra tra Argentina e Gran Bretagna e lì non erano in questione gli Usa».
E’ stato anche osservata una certa «distrazione» papale riguardo a Timor Est e alla Cecenia...


«Rigetto con sdegno l’argomento di Timor. Non solo il Papa ne ha parlato tante volte, ma nel 1989 andò "pellegrino" a Timor Est, quand’era sotto occupazione indonesiana e vi andò per incoraggiare quel popolo, nell’abbandono in cui era lasciato da tutti. Quando i suoi rappresentanti venivano all’Onu a chiedere riconoscimento, io ero l’unico a riceverli! E considero un grande regalo da parte del Papa il fatto che mi abbia inviato come suo rappresentante ai festeggiamenti per l’indipendenza, il maggio scorso».


E la Cecenia?


«Bisognerebbe conoscere il costante incoraggiamento della Santa Sede alle organizzazioni umanitarie che si interessano alla Cecenia. Non tutto può essere messo sui giornali».


E’ innegabile comunque che il Papa chiede all’America più di quanto chieda a chiunque altro...


«Chiede molto perchè ha fiducia che l’America possa dare molto. E’ un popolo cristiano e in esso la Chiesa Cattolica è la confessione più numerosa. Dunque il Papa ha fiducia d’essere inteso».
Afferma che la guerra «è sempre una sconfitta per l’umanità» e l’aveva detto per la Guerra del Golfo del 1991 e per quella del Kosovo del 1999. Ma qualche risultato quelle guerre l’hanno ottenuto...
«Certo che l’hanno ottenuto! Ma a quale prezzo? E con quali implicazioni negative? Il Papa non nega affatto che l’uso della forza possa avere un’efficacia, ma lo riconosce legittimo solo come "estrema possibilità", di fronte a un’aggressione in atto e purchè i danni non siano maggiori dei vantaggi. La guerra preventiva non rientra nella qualifica di guerra giusta, che è solo quella difensiva».


Quanto all’estrema possibilità, non bisognerebbe riconoscere che con Saddam già sono stati fatti tutti i tentativi?


«Nient’affatto. E’ in svolgimento l’ispezione dell’Onu e sarà bene che essa abbia il suo corso».


E dopo le ispezioni?


«Se saranno trovate le armi che si ipotizzano, Saddam dovrà mettersi in regola, ma se non saranno trovate bisognerà togliere l’embargo che da dodici anni affama quel popolo. Gli organismi umanitari segnalano come la situazione vada facendosi sempre più drammatica, specie per gli anziani e i bambini».


Se invece ci sarà la guerra...
«Metterà a rischio di esplosione la polveriera medio-orientale. Rilancerà il terrorismo contro gli Usa. Rafforzerà il sentimento antiamericano nel mondo musulmano. Già la guerra del 1991 approfondì il fossato e allora la grande maggioranza del mondo arabo era con l’America, cosa che oggi non è. Sarà più facile il reclutamento di attentatori suicidi. Ma io ho fiducia che la guerra non ci sarà».

Eccellenza, su che cosa basa questa fiducia?


«Sulla ragionevolezza dei governanti. Dovranno pure tener conto del sentimento contrario alla guerra che viene crescendo sul piano mondiale e nei singoli Paesi ed è già maggioritario ovunque».


Ma allora come interpreta l’insistente minaccia di guerra che viene da Bush e Blair?


«Mi accanisco a ritenerla una forma di deterrenza, accompagnata da movimenti di truppe per dare forza alle parole. Naturalmente ci sono altri elementi che giorno per giorno mi confortano in questa fiducia e non tutti si possono raccontare».


Che può fare la Chiesa sul fronte della pace?


«La mobilitazione dell’opinione pubblica è la grande opera a cui può collaborare. Aiuta poi a costruire una cultura della pace, proponendo gesti alla portata di ogni persona. Tra i gesti di pace si possono mettere il digiuno e l’offerta dell’equivalente del pasto ai bisognosi, come si sta proponendo di fare la comunità cattolica italiana. Ultima nell’elenco, ma prima nell’importanza è la preghiera, che può modificare la storia».

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