Salviamo la Costituzione: aggiornarla, non demolirla Milano, 19 giugno 2004 di Franco Bassanini Il 25 marzo 2004, il Senato ha
approvato, in prima lettura, una radicale riforma della
seconda parte della Costituzione italiana. Degli
ottantacinque articoli che compongono la seconda Parte
della Costituzione repubblicana, quarantatre (dunque la
maggioranza assoluta) vengono riscritti o comunque
emendati dal testo del Senato; ed altri sono interessati
dalle nuove disposizioni transitorie della riforma. La
stessa prima parte della Costituzione, pur restando
formalmente inalterata, ne viene per molti aspetti
sostanzialmente modificata. La portata qualitativa della
riforma è ancora più rilevante. Il testo approvato dal
Senato definisce una nuova forma di governo, cambia la
struttura del Parlamento, modifica la forma dello Stato,
riscrive i rapporti fra Stato e Regioni, rivede
sostanzialmente i poteri e le funzioni degli organi di
garanzia. Indirettamente, ma sostanzialmente, incide sui
principi del nostro sistema costituzionale, sulle
garanzie dei diritti e delle libertà dei cittadini,
sulle regole e sugli strumenti democratici, come definiti
dalla Costituzione del 1947. Di fatto, si demolisce la
Costituzione del 1947 e se ne scrive una nuova. E
anche una buona Costituzione? Prima di indire, con L
& G, questo convegno, Astrid ha riunito i più
autorevoli costituzionalisti italiani, di tutti gli
orientamenti culturali e politici. 63 di loro hanno
espresso e motivato il loro giudizio negli scritti
pubblicati nel volume che è in vendita nellatrio.
E impressionante la enorme prevalenza di giudizi e
valutazioni negative. Sono critiche che non investono i
particolari, ma demoliscono il disegno complessivo del
testo approvato dal Senato. Rilevano che esso non appare
coerente con i principi e la cultura del
costituzionalismo moderno. Denunciano il rischio di un
forte indebolimento delle garanzie dei diritti e delle
libertà costituzionali. Sottolineano che, abbandonata la
forma di governo parlamentare, la riforma non approda da
nessuna parte. Il disegno istituzionale che ne
risulta non può essere ricondotto a nessuno dei modelli
sviluppati nellesperienza costituzionale delle
democrazie moderne e contemporanee. Esso appare anzi
sotto più profili incompatibile con i principi e la
cultura del costituzionalismo liberaldemocratico moderno.
Come è stato efficacemente scritto, "mai il
costituzionalismo è stato", in Italia, "messo
così duramente alla prova". Insomma: nel testo approvato dal Senato,
la riforma non chiude la transizione costituzionale. Non
pone le basi per la costruzione di un moderno Stato
federale. Non dà allItalia le regole di una
moderna democrazia dellalternanza. Apre, al
contrario, una grande questione democratica, minaccia
lunità del Paese, mescola contraddittoriamente
derive secessioniste e rivincite centraliste. Mette a
rischio luniversalità dei diritti e delle libertà
costituzionali, a partire dai diritti
allistruzione, alla salute e alla sicurezza.
Delinea una forma di governo unica al mondo, basata sulla
dittatura elettiva di un uomo solo. Indebolisce il
sistema delle garanzie democratiche e costituzionali,
invece di renderlo più forte, per equilibrare i maggiori
poteri conferiti alla maggioranza, al governo e a chi li
guida. Rischia così di aprire la strada, o almeno
di non prevedere solidi argini nei confronti di eventuali
derive autoritarie, peroniste o bonapartiste, senza nel
contempo riuscire a garantire vera stabilità e efficacia
allazione di governo. Che cosa resterà, così,
della Costituzione del '47, che per oltre
cinquantanni ha rappresentato la carta dei diritti,
dei doveri e delle libertà dei cittadini e delle loro
formazioni sociali e la tavola delle regole fondamentali
della convivenza democratica comune? Che ha raccolto
lidem sentire della società italiana, la sintesi
dei valori comuni sottesi a pur profonde divisioni
ideologiche, culturali e politiche? Che per
cinquantanni ha - bene o male - garantito la
convivenza democratica e la certezza dei diritti e delle
libertà fondamentali? Che ha rappresentato il quadro nel
quale, non senza conflitti anche aspri e contrapposizioni
durissime, grandi conquiste civili e sociali sono state
realizzate e consolidate? La questione si pone, dopo il voto del
Senato sulla riforma della Costituzione. La liquidazione
della Costituzione repubblicana è entrata infatti, con
quel voto, nell'agenda politica. Ma quella Costituzione
merita di essere aggiornata e ammodernata. Oggi invece
rischia di essere scardinata E così un nuovo motivo di
insicurezza minaccia gli italiani. Linsicurezza per
il futuro, talora perfino langoscia, è infatti
oggi il sentimento dominante in Italia: lo rivelano tutti
i sondaggi di opinione. Guerra, terrorismo, precarietà
del posto di lavoro, declino del Paese, perdita del
potere dacquisto di salari e pensioni, prospettive
di ridimensionamento dello Stato sociale, insicurezza dei
risparmi di fronte ai crack finanziari: niente è - o
sembra - più sicuro. Il nostro, oggi, è un Paese che
chiede a chi lo governa, che chiede alla politica,
innanzitutto certezze e sicurezze. E ora invece
anche la Costituzione, le sue regole, le sue libertà e i
suoi diritti sono in discussione. Denunciare il rischio della
liquidazione, o almeno di un forte depotenziamento, dei
principi e delle garanzie della Costituzione repubblicana
non significa e non deve tradursi nel rifiuto di ogni
riforma costituzionale. Se è vero - come da ultimo ha ben detto
Valerio Onida - che "le
Costituzioni nascono per essere durevoli, se non eterne,
anche se accade talora che non durino" e
che "per la Costituzione non si
pone, a priori, unesigenza di
modernizzazione, cioè di adeguamento ai
mutamenti che il tempo reca, proprio perché il suo
compito non è quello di inseguire i mutamenti, ma di
assicurare la stabilità", è
vero anche, infatti, che da tempo sembra essere venuto
meno (piaccia o non piaccia, e a me non piace affatto...)
quel largo consenso sui valori costituzionali, che nei
primi decenni del secondo dopoguerra ha rappresentato una
componente fondamentale della ritrovata identità
nazionale e della stessa ricostruzione del Paese. E'
dunque lecito se non necessario, oggi, porsi il problema
di come si possa - non solo attraverso un lavoro di
rimotivazione culturale e di rilancio dell' esprit
républicain, ma anche attraverso la
definizione, prudente e al contempo coraggiosa, dei
necessari ammodernamenti e aggiornamenti della
Costituzione del '47 - ricostruire un largo
consenso sulla idoneità dei valori, delle regole e degli
assetti costituzionali a governare la convivenza comune. Né si può negare che la seconda parte
della nostra Costituzione abbisogni - in ogni caso - di
alcuni aggiornamenti e correzioni, essenzialmente sotto
tre profili: per adeguare il sistema delle garanzie
democratiche e costituzionali ai profondi mutamenti già
intervenuti nella struttura del nostro sistema
istituzionale; per completare e integrare (e, in qualche
punto, correggere) la riforma della forma dello Stato in
senso federale, avviata nella scorsa legislatura; per
dotare il nostro Paese di una forma di governo più
democratica e più efficace, e dunque effettivamente più
capace di garantire partecipazione dei cittadini,
rappresentatività delle istituzioni, tempestività e
efficienza nellazione di governo per la tutela
degli interessi generali e per la soluzione dei problemi
della collettività. Da un
lato, infatti, la riforma del titolo V nacque fin
dallinizio con la consapevolezza della necessità
di successive integrazioni, in specie per quanto concerne
la riforma del Senato; e molto larga è anche la
convinzione che essa abbisogni di aggiustamenti e
correzioni: e, del resto, nessuna riforma di grande
respiro nasce perfetta dalla testa del legislatore, ma
tutte abbisognano di ritocchi e revisioni alla luce delle
prime esperienze attuative. Dallaltra, il contesto
nel quale alla Costituente furono definiti il sistema
delle garanzie e la forma di governo della nostra
Repubblica appare consistentemente cambiato. Sul terreno
istituzionale, è appena il caso di ricordare che la
Costituente lavorò su due presupposti: che per la legge
elettorale sarebbe stato adottato un sistema
proporzionale (il già ricordato ordine del giorno
Giolitti) e che la forma dello Stato sarebbe stata
unitaria, sia pur con largo riconoscimento delle
autonomie regionali e locali. Ora non vi è chi non veda
che ladozione di sistemi elettorali maggioritari e
di una forma di Stato ispirata al modello federale non
può non imporre modifiche profonde nel sistema delle
disposizioni costituzionali relative alla forma di
governo, allo statuto dellopposizione, alle
garanzie democratiche e costituzionali. A maggior ragione
ciò è necessario di fronte a modifiche della
Costituzione formale e della Costituzione materiale (si
pensi innanzitutto, ma non solo, alle leggi elettorali
maggioritarie e all'elezione diretta di sindaci e
Presidenti di Regioni e Province) che già hanno
consistentemente modificato lassetto istituzionale
e lequilibrio tra i vari poteri a livello statale,
regionale e locale, senza adeguati contrappesi e
bilanciamenti. Ma vi è di più. Si impone una
riflessione assai più ampia che indaghi sulle
modificazioni che - non solo ma anche per quanto concerne
gli assetti istituzionali - sono necessarie per potere
affrontare con speranza di successo le sfide della
competizione globale, dei grandi flussi migratori, delle
innovazioni tecnologiche e produttive, della società
dellinformazione, che caratterizzano la nostra
epoca e, da ultimo, per potere fronteggiare e vincere
rischi di declino produttivo e tecnologico che incombono
sul nostro Paese. Per affrontare fenomeni di tale entità
e portata, occorre una democrazia più forte, più
legittimata, più partecipata, più rappresentativa, più
efficace. Ma una democrazia è
solida se sa risolvere i problemi dei cittadini. Per
questo occorrono istituzioni forti, capaci
di decidere e di attuare efficacemente le decisioni
prese. Ma esse lo sono, se lo fanno con il consenso dei
cittadini, se garantiscono adeguati controlli
sullesercizio del potere, se dànno a tutti la
sicurezza dei propri diritti e libertà; se assicurano un
equilibrato pluralismo istituzionale. Se ciò non accade,
alla lunga non sapranno neppure prendere le decisioni
giuste, né sapranno farle rispettare. In altre parole, la forza delle
istituzioni nasce dalla loro legittimazione democratica,
dalla loro capacità di interpretare attese e domande
sociali, di mobilitare coscienze e volontà sulle scelte
da compiere e sulle innovazioni da realizzare. E anche
dalla capacità di definire con nettezza lambito e
i confini della politica, e, all'interno di questi
confini, i limiti del potere del governo e della
maggioranza (i limiti di ogni potere costituito) rispetto
ai diritti e alle libertà garantiti a tutti e a
ciascuno. Chi vince ha il diritto e il dovere di
governare, di avere gli strumenti necessari per attuare
il programma presentato agli elettori. Ma nel rispetto
della Costituzione e delle leggi, dei diritti, delle
libertà e delle garanzie riconosciute alle minoranze. E' questo il cuore delle Costituzioni
democratiche e liberali: dotare gli eletti dal popolo, i
vincitori delle elezioni dei poteri necessari per ben
governare; ma dare a tutti, e in
primis agli sconfitti, la certezza
che i loro diritti non sono minacciati, che le regole
e i principi della democrazia non sono alla mercé di chi
ha vinto. Prevedere dunque, a fronte di governi efficaci
e capaci di decidere, forti checks
and balances, argini solidi al
potere di chi ha vinto, garanzie sicure delle libertà e
delle regole democratiche. E' nella Costituzione
infatti che si definiscono i confini tra ciò che
legittimamente può essere deciso dalla maggioranza pro
tempore e ciò che invece non può
essere appannaggio del vincitore perché rientra
nell'ambito delle regole del gioco, e dei diritti e delle
libertà sottratti all'arbitrio della maggioranza del
momento. La dittatura della maggioranza non è
compatibile con la democrazia. In altri termini: nessuno può negare
che la maggioranza parlamentare e il governo scelti dagli
elettori debbano disporre degli strumenti necessari per
governare; ma entro limiti precisi ed invalicabili (e con
bilanciamenti e contrappesi efficaci) tali da garantire
lintangibilità dei diritti e delle libertà dei
cittadini e la effettività della competizione
democratica anche, e in primo luogo, nei confronti delle
possibili prevaricazioni della maggioranza.
I principi or ora sinteticamente
ricordati fanno parte, come è noto a tutti, dell' acquis
consolidato della cultura e dell'esperienza del
costituzionalismo democratico moderno; ne rappresentano,
anzi, il nucleo essenziale, così come è stato indagato
e sviluppato soprattutto dalla sua componente
liberaldemocratica, da Montesquieu a Madison, da
Tocqueville a Popper. Ne discende, con incontestabile
consequenzialità che, nel caso italiano, la priorità di
ogni possibile riforma costituzionale è costituita
dall'adeguamento delle garanzie costituzionali e
democratiche alle trasformazioni della Costituzione
formale e materiale già intervenute, dunque dalla
definizione e costituzionalizzazione delle regole e delle
garanzie proprie di una moderna democrazia
dellalternanza. A maggior ragione, ciò vale
nel contesto di una riforma che intenda rafforzare
ulteriormente il ruolo del Governo e di chi lo guida. Si possono dunque introdurre
ulteriori innovazioni nel senso del rafforzamento della
stabilità e coesione dei governi e delle maggioranze:
per esempio riconoscere al Primo ministro il potere di
nominare e revocare i ministri; o introdurre sistemi
elettorali che favoriscano la coesione delle coalizioni
(uninominale maggioritario a doppio turno). Ma non
senza affrontare, contestualmente, il problema del
rafforzamento delle garanzie democratiche in un sistema
maggioritario: i poteri del Parlamento, lo statuto
dellopposizione, il ruolo e i poteri di garanzia
del Capo dello Stato, il pluralismo e la libertà
dellinformazione, i poteri e lindipendenza
della magistratura e della Corte costituzionale, il ruolo
e lautonomia delle Autorità indipendenti, la
disciplina dei referendum abrogativi, il procedimento di
revisione costituzionale. Il nostro sistema costituzionale,
comparato con quello delle altre grandi democrazie,
presenta anomalie rilevanti innanzitutto sui terreni ora
ricordati. Di ciò consapevole, nel suo messaggio
agli italiani per la fine dell'anno 2002, il Presidente
della Repubblica non enunciò quale primo obiettivo della
riforma istituzionale il rafforzamento
dellesecutivo e dei poteri del Capo del Governo; al
contrario, quale che sia la forma di governo
prescelta, sottolineò lesigenza di
salvaguardare il pluralismo delle istituzioni, di
prevedere adeguati pesi e contrappesi. E dunque di
affrontare non solo il problema degli strumenti e dei
poteri della maggioranza eletta, ma anche dei suoi
limiti, consapevoli del fatto che sul primo versante
molto si è già fatto in questi anni, a partire dalla
legge sulla elezione diretta dei sindaci, dei presidenti
di provincia e dei presidenti di regione. Sul
secondo, invece, non si è fatto quasi nulla. Come allora
il capo dello Stato ricordò con grande efficacia, «per
assicurare stabilità allesecutivo, si è dato
vita, quasi dieci anni fa, alla democrazia
dellalternanza, adottando il sistema elettorale
maggioritario. Ma non è stato completato il cambiamento
adeguando le garanzie istituzionali». La riforma approvata dal Senato va in
direzione opposta. Mentre dà alla maggioranza, e
soprattutto al suo Capo poteri quasi dittatoriali,
indebolisce gli strumenti di garanzia costituzionale e
democratica, fa del Capo dello Stato e della Corte
costituzionali strumenti della maggioranza, mette il
Parlamento sotto il controllo del Capo del Governo, che
può sciogliere la Camera per sua insindacabile decisione
e sotto la sua responsabilità. Ma nessun sistema
democratico al mondo dà al Capo del Governo il potere di
ricattare il Parlamento. Se il Capo del Governo è eletto
direttamente dal popolo, come negli Stati Uniti, se gode
di una diretta legittimazione popolare, allora non può
sciogliere il Parlamento, non può mettere la fiducia per
farsi approvare le leggi, non può avere deleghe
legislative (può mettere il veto sulle leggi: ma si
tratta di un potere puramente negativo, compensato dal
parallelo potere negativo del Senato di negare il
consenso alle nomine di ministri, ambasciatori, alti
funzionari decise dal Presidente). Quando il capo del
Governo è invece il capo della maggioranza parlamentare
(come in Gran Bretagna o in Germania o in Spagna), allora
non è eletto direttamente dai cittadini, e resta in
carica finché ha la fiducia della maggioranza
parlamentare. Può mettere la fiducia sulle leggi, può
proporre lo scioglimento della Camera, ma, alla fine, la
maggioranza può sempre sostituirlo. E se decide di
sostituirlo, il Premier in carica può solo prenderne
atto: come fece la Thatcher quando la maggioranza
conservatrice decise di sostituirla con John Major. Come
fecero, prima di lei, Eden, McMillan, Wilson. E come
farebbe Blair, se la metà più uno dei suoi colleghi
laburisti decidesse che è giunta lora di Gordon
Brown. Sono due modi diversi di garantire il
pluralismo nelle istituzioni, di evitare la dittatura di
un uomo solo, ancorché eletto: di evitare la somma nelle
sue mani del potere di governare e di quello di fare le
leggi che definiscono i poteri e i limiti di chi governa,
che garantiscono le libertà e i diritti di tutti,
minoranze comprese, che regolano la competizione
democratica. La riforma approvata dal Senato, viceversa, non ha seguito nessuno dei due modelli democratici consolidati. Dà al Primo ministro i poteri del Premier britannico più quelli del Presidente americano. Ma senza i contrappesi e i contropoteri che equilibrano, in ciascuno dei due sistemi, i grandi poteri del Capo del Governo. Senza efficaci garanzie contro la dittatura della maggioranza. Anzi indebolendo i meccanismi di garanzia oggi previsti: il Presidente della Repubblica, espropriato di poteri decisivi, la Corte costituzionale, ridotta ad organo di parte, strumento della maggioranza parlamentare. Il modello non è dunque, a ben vedere,
il governo britannico del Primo ministro. Il modello è
quello che fu battezzato, qualche anno fa, come il
«sindaco dItalia»: nasce dalla commistione tra
premierato forte e governo presidenziale. Si
tratta di una commistione che non presenta pericoli e
gravi problemi ove applicata ad istituzioni (le
amministrazioni locali) dotate di poteri essenzialmente
amministrativi e regolamentari, vincolate al rispetto di
norme costituzionali e legislative definite da altri, e
preposte al governo di comunità ristrette e
relativamente coese; dove il Capo dellistituzione
può in effetti stabilire un rapporto diretto e non
mediato con una buona parte degli elettori; e dove il
controllo democratico può esercitarsi anche in forma
diretta). Ma che, esportata al livello di una grande
democrazia, altera irrimediabilmente come si è
visto - lequilibrio dei pesi e dei contrappesi
propri del modello parlamentare e rischia di esaltare i
rischi plebiscitari della personalizzazione e
spettacolarizzazione mediatica della politica; ma,
soprattutto, affidando a un uomo solo uninfluenza
decisiva (quando non una sorta di potere di ricatto) nei
confronti di chi decide sulle regole, sui diritti e sulle
libertà (il Parlamento come potere legislativo e come
potere costituente), lascia la porta aperta a
derive autoritarie, peroniste o cesariste.
La scelta del Senato, in merito alla
forma di governo esprime una concezione che ha ben poco a
che fare con i principi della democrazia moderna:
l'idea che il processo democratico si esaurisca nella
scelta di un capo al quale sono delegati per alcuni anni
pieni poteri. Con la sola garanzia che alla fine si
tornerà a votare. Garanzia assai modesta, visto che quel
capo, controllando e ricattando la maggioranza
parlamentare, potrà nel frattempo cambiare le leggi che
disciplinano i diritti e le libertà dei cittadini,
l'indipendenza della magistratura, il pluralismo
dell'informazione, i meccanismi elettorali, i rapporti
tra politica ed economia, il sistema delle garanzie e dei
controlli. Occorre, in proposito, diffidare di due
diffusi luoghi comuni: a)
la convinzione che lingegneria costituzionale
debba passivamente adeguarsi ad alcuni fenomeni
sociologici oggi dominanti, quali la personalizzazione
della politica e la sua spettacolarizzazione
mediatica; b)
lidea che stabilità, governabilità, ed efficacia
nella realizzazione del programma approvato dagli
elettori siano in realtà gli unici, o comunque i
principali criteri o valori per valutare la bontà
delluna o dellaltra forma di
governo. La personalizzazione della politica
è, indubbiamente, un fatto con cui le istituzioni
debbono fare i conti. Ma non è un valore, e ancor meno
un valore da promuovere fino allesasperazione. Non
basta infatti la legittimazione elettorale, per rendere
democratica una forma di governo: la storia è ricca di
dittatori eletti. Neppure è vero che la concentrazione
di tutti i poteri nelle mani del Capo è un buon
principio di sociologia dellorganizzazione,
praticato in tutte le aziende private. Vale forse per le
imprese a conduzione familiare, gestite direttamente dal
proprietario; ma nelle grandi imprese si usa dividere le
deleghe tra più amministratori o almeno sottoporli
allindirizzo e al controllo di organi collegiali;
per non parlare della possibilità di sostituire il
vertice della società anche in corso di mandato. Non meno gravi sono le scelte compiute dalla maggioranza in materia di forma dello Stato, sotto il ricatto della Lega. Anziché completare, correggere e integrare la riforma del tityolo V per costruire uno Stato federale funzionante, con istituzioni più vicine ai cittadini e ai loro problemi, secondo il modello del federalismo che unisce i diversi, che fa della diversità una ricchezza comune (e pluribus unum), passa la logica criptosecessionista della Lega. Le Regioni avranno competenza esclusive in settori decisivi dellistruzione, della sanità, della sicurezza. Potranno, se lo vorranno, privatizzare la scuola, smantellare il servizio sanitario regionale, costituire polizie regionali: luniversalità dei diritti allistruzione, alla salute e alla sicurezza è così seriamente minacciata, e con essa la coesione sociale del Paese. Nel contempo, la clausola dellinteresse nazionale, nelle mani di un Governo centralista può ridurre a zero lautonomia delle Regioni e degli enti locali; mentre , nelle mani di un Governo complice del secessionismo leghista, non vale a garantire lunità del Paese: il Senato interviene infatti, a tutela dellunità nazionale e delluniversalità dei diritti solo se il Governo lo vuole, impugnando la legge regionale. Avremo dunque un federalismo a fisarmonica, oscillante tra asfissiante centralismo e secessionismo strisciante, a seconda degli indirizzi del Governo. Val la pena scardinare la Costituzione repubblicana, che bene o male ha per cinquantanni garantito la convivenza democratica e la certezza dei diritti e delle libertà fondamentali (e che ha rappresentato il quadro nel quale, non senza aspri conflitti, grandi conquiste civili e sociali sono state conseguite e consolidate), per raggiungere questi risultati? La domanda è rivolta ai legislatori, prima di tutto ai deputati, che nei prossimi mesi discuteranno il testo approvato dal Senato. E poi a tutti le italiane e gli italiani, che avranno la responsabilità della decisione finale, in un referendum di portata storica. |
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